La vita di una foto – Adriana Zarri

Ogni fotografia ha una sua vita, indipendente dall’autore.
Indipendente da noi.
Anche prima quando non c’era il Web. Giuro.
E questo ha avuto il grande merito di riesumarne davvero tante dal passato, anche quello lontano, quasi dando loro nuova luce. Forse a dispetto delle recenti e recentissime che invece, mediamente, tende a eclissare rapidamente: questione di mole, di similitudine, di sovraesposizione e conseguente rigetto.
Che se frequenti un qualsiasi forum, o un social esplicitamente dedicato alla fotografia, è un bombardamento.
La longevità di un’immagine non mi è chiarissimo da cosa dipenda.
E forse non è neanche individuabile o restringibile a qualche elemento preciso valido in assoluto.
È un fatto di DNA… di qualcosa che possiede già alla nascita e che non ha una logica. Altrimenti qualsiasi autore produrrebbe solo immagini longeve. Tutte quante a sopravvivergli. O a sopravvivere almeno alla contingenza del gusto, del trend (brutta parola) e della morale condivisa.
Invece non è così: sono rare le fotografie in grado di attraversare le epoche e le mode e di presentarsi indenni agli occhi dei posteri.
E di diventare così un classico.
Cos’è che hanno?
E non è da confondersi col successo, che è solo una questione di applausi, magari anche uno scroscio, magari apoteosi ma che ha un tempo ben definito: il successo si misura con l’epoca di appartenenza. Qui stiamo parlando di chi va oltre… diremmo mai che il Don Giovanni di Mozart è un’opera di successo? E anzi, giust’appunto, non è che avesse riscosso tutto questo plauso all’epoca. E invece, eccolo rappresentato in tutti i continenti.
Paragone che non evoca alcuna similitudine, ma rende bene l’idea.
Io sarei felice di attraversare il decennio con qualche mia foto.
Qualcosa che ogni tanto qualcuno riprende da chissà dove… una fotografia che si presti magari all’equivoco temporale e che faccia pensare sia stata scattata ieri.
Con questo ritratto a Adriana Zarri è successo.
Realizzato nel 1984, che ero un pischello e armeggiavo sudando.
Nell’eremo dove viveva, fuori Ivrea.
Ricordo ancora la chiacchiera per convincerla crocefissa a terra.
Che non è un gesto gratuito, non un famolo strano… si veda la sua biografia.
Quella donna mi aveva molto colpito e era davvero speciale.
Una semplicità disarmante e un pensiero forte in un corpo esile.
Un godimento assoluto ascoltarla.
Di recente è stata aperta la sua pagina Facebook.
Il suo amministratore ha postato l’immagine, trovata in rete, e mi ha contatto.
Io ne sono davvero contento.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamera: Nikon FE con ottica Nikkor 20mm f/3.5
Film: Kodachrome 25.

Per PM, anno 1984, neonato magazine della Mondadori che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’editoria periodica italiana perché aveva un respiro internazionale. E al centro c’era l’immagine.
Il suo art director era Romano Ragazzi, una persona molto importante per la mia crescita. E che tutt’ora vedo.

Do you like fiorellini?

Ciclamini by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved
Fiori
.
Si fa in fretta a dire fiori…
E allora io faccio ancora più in fretta: taglio tutto e mi fermo oltre. Appena oltre.
Recisi…
Cadaveri presentabili grazie a un po’ d’acqua e ghiaccio… alchimie del fiorista.
Come stare in un obitorio.
Una stanza prima, diciamo. Perché respirano ancora.
Moribondi allora.
Si fa in fretta a regalarli.
E pensare che erano i padroni del mondo: il primo respiro intorno a 200 milioni di anni fa. Milione più milione meno.
Non c’era ancora manco un mammifero. Manco un bel niente.
E l’ossigeno l’hanno inventato loro.
Appena prima le piante, vero… comunque è ai vegetali che dobbiamo tutto.
Figli dei fiori… anche senza treccine e una raffica di cioè a disposizione di eloquio.

Si fa in fretta allora a fotografarli, come un album di famiglia.
Ma se ci piacciono tanto, perché li ammazziamo?
A fine anni ’80 ho cominciato a chiedermelo.
Guardando i fiori di Robert Mapplethorpe: bellissimi… apoteosi estetica.
La scelleratezza dei vent’anni non guarda in faccia a nessuno.
Ho preso il mio banco ottico e ho detto ”Faccio anch’io!”
Solo che era molto diverso il fiore che io avevo davanti rispetto a quello di Mapplethorpe.
Cioè, i suoi come dopo il make up delle pompe funebri americane. Come nei film.
Questo è ciò che ho percepito un giorno preciso alla Milano Libri, in via Verdi 2.
Mio luogo di pellegrinaggio in un certo periodo.

Erano due ore e almeno la terza volta che sfogliavo i suoi fiori a piena pagina.
Stampati da Dio.
E ho avuto ribrezzo.
Si può dire?
Io guardavo i miei. E sembravano urlare.
Io guardavo i miei. E mi ricordavano le Danze macabre del Baschenis.
Se guardavo solo i suoi non avrei mai fatto niente.
Il problema era quindi ancor prima di fotografarli.
E infatti non ho mai pensato fossero degli still life.
Ma dei ritratti. A della gente messa piuttosto male.
In alcuni casi malgrado le apparenze, in altri incluse.
Li ho ritratti fino a metà ’90, poco più.
Lo facevo saltuariamente, quando capitava e avevo una buona riserva di energia.
Ed ero completamente solo. Poi ho smesso.
Fino a gennaio 2012. Erano lì, omaggio di una ospite.
Erano lì in un vaso.
Li ho raccolti, sono andato a fare una passeggiata sul Ticino e li ho lanciati in acqua.
Prima però li ho ritratti.
E ieri ho fatto lo stesso con degli Iris.
Mi costa abbastanza a queste condizioni.
Ma mi è chiaro che me ne fotto.
Eccolo qua il vero senso della fotografia: al netto di tutto, me ne fotto.
E procedo.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

 

Iris, by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved

Ciclamini, by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedTulipano Nero by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCiclamini © Efrem Raimondi. All rights reserved.Tulipani © Efrem Raimondi. All rights reserved.Tulipani © Efrem Raimondi. All rights reserved.Giglio rosso © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Vaso di fiori alla finestra © Efrem Raimondi. All rights reserved.Gigli bianchi © Efrem Raimondi. All rights reserved.Vaso di fiori © Efrem Raimondi. All rights reserved. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Queste immagini sono state realizzate tra marzo 1992 e oggi.

Fotocamere: Toyo 45G con Rodenstock 180 mm, Hasselblad H3D II-39 con 80 mm, iPhone 4S.
Film: Polaroid 55, Agfapan 100, Ektachrome EPN 7058 svl. in C41.

Tulipano nero, no fotocamera: solo film + accendino Bic.
In una camera oscura che più scura non si può.

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Troppe tette: cambia paesaggio!

Amo il paesaggio, i belvedere e i tramonti.
Foto o non foto. Cos’è che non va?
Anche le tette. Ma troppe, in foto, sembra facciano male. Per cui non ne parlo. Al momento almeno.
La fotografia è linguaggio. Uno solo. Che moduli con ciò che vedi e che intendi restituire.
E che altri non vedono. O vedono diversamente.
Non esiste un genere che sfrutti il linguaggio in modo più nobile di altri. Esisti solo tu e come vuoi raccontarti.
Il termine genere altro non è che la versione intellettuale e critica del termine specializzazione, tamarra e merceologica, per cui caduta un po’ in disgrazia come espressione. Un po’ tirata, ma è come spazzino che diventa operatore ecologico… l’escamotage di un sistema di potere che attraverso la raffinazione della parola tende a svuotarla di contenuto.
Ma rappresentano la stessa cosa, lo stesso concetto. E cioè una fotografia che si deve riconoscere nell’immediatezza della fruizione. E della divulgazione.
Una semplificazione necessaria.
La fotografia alla quale penso non è necessaria.
Non nella misura attribuita dalla cultura massmediatica contemporanea. Che arranca ma non si arrende, perché utile al mantenimento di condizioni vergognosamente privilegiate.
Tutta roba vecchia e aggrappata, anche se con sembianze giovanili.
Le immagini che eludono i confini del genere sono quelle che in sé concentrano gli elementi  di universalità che sono propri del linguaggio puro e cioè non viziato dall’armamentario di genere.
E che paradossalmente hanno maggiore riscontro tra i non addetti ai lavori. Cioè chi le immagini non le manipola per campare o per assicurarsi una posizione mediatica.
Se vedo un’immagine che mi esalta, certamente non è un’immagine di moda, non è un ritratto, non è design, non è street photography: è una fotografia. Solo una fotografia. In sé compiuta.
E non mi frega niente di dove viene collocata dal dizionario.
A maggior ragione per il paesaggio. Landscape…
Che collocazione più derisa non c’è.
Ed è strano… perché c’è molta più dignità nel fotografare una collina nell’Alessandrino che con una mano scattare una snap, mentre con l’altra ti gratti il culo a New York.
E visto che ho fatto entrambe le cose, so di che parlo.
Perché il paesaggio prevede la sua incondizionata accettazione.
Che ha direttamente a che fare con la sua contemplazione, ancor prima che con la pratica fotografica.
Quindi, prima di poter restituire qualcosa, intanto scompari.
E solo se scompari, solo se accetti la misura più prossima allo zero, e della quale non hai abitudine, allora dimensioni e qualcosa di profondamente tuo trova forma e emerge.
Non è pratica da supermarket…
Il paesaggio non ha alcuna urgenza. E non è subordinato ad alcuna storia da raccontare. Lui sta lì, che tu ci sia o meno è indifferente.
E forse è questa sua indifferenza che ci urta, e che costringe alcuni, molti, a sforzi abbellenti. Una pretesa che si riduce in caricatura.
In una rappresentazione stucchevole, dove i singoli elementi che compongono l’insieme non hanno più relazione: ognuno, disinvoltamente sovraphotoshoppato, si specchia in un plastico natalizio. Uguale per tutti.
Che se non basta si può ricorrere al bianco e nero, ultimo salvagente.
Terribilmente all’inseguimento dello stupore.
Che poi, alla quinta che vedi vorresti tornare alle tette.
Ma è così difficile fermarsi di fronte al paesaggio?
È così difficile ascoltare ciò che ha da dire?
È così intellettualmente disonorevole affacciarsi da un belvedere?
È così cheap bearsi di un tramonto e volerlo condividere?
Il tema della beatitudine si confronta, oggi ma da un po’, con un paesaggio che non è immacolato. Non fosse altro che per la nostra presenza di per sé inquinante.
E a dispetto di ciò che vorremmo, e della nostra intransigenza ecologista, ne possiamo godere solo attraverso questa perdita.
Non è l’apologia della cementificazione, è una constatazione.
Qualsiasi paesaggio è raggiungibile.
Oltre la nostra inadeguatezza.
È con questo paesaggio che ci misuriamo.
E proprio per questo di fronte alla fotografia di un tramonto ho un moto di commozione nei confronti dell’autore, soprattutto se pressoché anonimo. Perché rappresenta il baluardo romantico attraverso il quale l’emozione, forse idiota, nega l’attualità, che idiota lo è certamente.
C’è una caparbietà spesso inconscia in questo. Non di meno rispettabile.
E allora, noi che abbiamo la presunzione di possedere il salvacondotto per le nostre immagini, che qualsiasi prurito sembra trovare dignità, se proprio non vogliamo misurarci con l’urlo figurativo proprio del paesaggio, il che è legittimo, almeno non accusiamo di eresia chi col paesaggio si cimenta fotografandolo.
Sempre la stessa menata in fondo: è il come che ci riguarda, non il cosa.
It’s only my opinion.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Le immagini pubblicate sono state realizzate tra il 2004 e oggi.

Fotocamere: Ricoh GR1s, Leica CM, Leica M7, Ricoh GR D e GR DII, iPhone 4S.
Film: Fuji NPS 160.

AGGIORNAMENTO 21 settembre 2013
Vilma Torselli per ARTONWEB



 


  

 

PREVIEW Milano

Scordiamoci SHOT. Per vari motivi qualcosa non ha funzionato.
Assieme a Milano Makers e con Cesare Castelli, Giacomo Giannini, Miro Zagnoli e il sottoscritto, nasce PREVIEW Milano.
Sempre nell’ambito di MI Generation, è un’iniziativa che riguarda gli under 30. Solo che si apre anche a una sezione parallela over 30.
Il soggetto è un tuo progetto fotografico, anche abbozzato, da presentare direttamente nei giorni 21 e 22 settembre. Cioè adesso. A Milano presso il Castello Sforzesco.
I dettagli si trovano qui:

PRESENTAZIONE

Una due giorni di confronto sul tema del linguaggio in fotografia.
E come ognuno di noi lo intende.

Questo il primo step. Poi, nel 2014, una verifica, quindi nel 2015 nell’ambito dell’EXPO una mostra dei lavori selezionati.

Spero ci si veda.

Per chi frequenta FB, cliccare questo logo.

AGGIORNAMENTO
La presentazione di 60″ in video è necessaria. E parte integrante del percorso di questo primo incontro.
A discrezione si può portare anche un portfolio di max 10 immagini, nel formato che si desidera, o in cartaceo o in digitale.
Stiamo parlando di un percorso, non di una galleria di immagini che tra loro non hanno relazione.
L’intento è un po’ quello di censire lo stato del linguaggio fotografico.
In questo, liberi tutti! Basta che ci riguardi davvero.
Può essere anche un accenno, una bozza di progetto. Un intento.
Fino allo step del 2014 non è vincolante. Da quel momento assolutamente sì.
La partecipazione è gratuita.

Gabriele Basilico, Quaderni vol. 2

Secondo volume de I quaderni dello Studio Gabriele Basilico: Glasgow. Processo di trasformazione della città. 1969.
Ed è un Basilico che non ti aspetti. Che io non conosco.
Ma che riconosco.
Paradossalmente non tanto nelle immagini che anticipano ciò che sarà il suo percorso, quanto in queste meravigliose fotografie di bambine randage (e bambini) per una Glasgow che non esiste.
Una città che ancora si lecca le ferite dei bombardamenti sembrerebbe… e che attraverso queste bambine si cerca.
In certe prospettive sospese e nel rapporto immediatamente diretto riconosco Basilico…
Poi c’è il gesto. Leggero e potente. Semplice e perciò complesso, che descrive una sorpresa accondiscendente. Una necessità di relazione immediata.
Non è facile fotografare i bambini. Perché ci sia una restituzione che ti distingua devi avere uno sguardo molto più ampio.
E queste immagini sono splendide.
È stata la sua prima mostra, alla Galleria Il Diaframma di Lanfranco Colombo, via Brera 10, Milano. Un luogo che conosco bene… un punto di riferimento che non c’è più.
Non so se ci saranno altri Quaderni, so che ci sarà un volume edito da Contrasto Editore,
come confermato da Giovanna Calvenzi in un suo commento al precedente articolo:  http://blog.efremraimondi.it/?p=4283
Di questo Quaderno se ne parla anche qui:
http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2013/07/30/gabriele-prima-di-basilico/

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Glasgow. Processo di trasformazione della città. 1969, 32 pagine, formato 14,5 x 19,8 cm.
Prefazione Pippo Ciorra.
Postfazione Giovanna Calvenzi.
Realizzazione editoriale Bel Vedere fotografia.
Finito di stampare il 31 luglio 2013 presso Arti Grafiche Meroni.

La foto in-giusta

GRAZIA magazine, n.35-29/8/2013

Il settimanale GRAZIA, questa settimana, è uscito con un interessante articolo di Angelo Sica sulla fotografia e i social network.
Seguito da una breve chiacchierata a riguardo con Settimio Benedusi, Alessandro D’Urso e il sottoscritto.
Settimio ha già postato sul suo blog il suo punto di vista, diretto e chiarissimo http://www.benedusi.it/blog/fotografia-e-social-network-istruzioni-per-luso/
Io sono via e usufruisco di mezzi a fortuna alterna: il magazine l’ho recuperato oggi e per puro caso, e la rete c’è adesso ma tra un attimo boh.
Ci vorrebbe più efficienza… al momento non dispongo.
Adesso quindi. E due robe due…
Una fotografia coincide con se stessa ovunque compaia.
Sia su Instagram e Facebook che sui muri di un museo.
Chi dice di amare e/o fare fotografia ne tragga le proprie conclusioni.
Ed è vero, è linguaggio. Solo necessariamente imperfetto per poter davvero essere espressione.
Quindi ammicca zero, si espone e basta.
La foto giusta è una convenzione che sta a indicare la corrispondenza di un’immagine col tempo mediatico. Molto legato al consenso del momento.
Che diamine! Non è importante cosa, quanto come.
È il come che ci riguarda. Il cosa è un pretesto.
La foto giusta coincide col pretesto.
La foto giusta muore prima.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

iPhone photography.

Sbando d’estate

Con le mani sbucci,
le cipolle
Con i piedi invece,
ci flagelli…
Uno sciame così,
all’improvviso…
Qualche avvisaglia c’era già stata ma erano solo sprazzi, manifestazioni individuali di ricerca delle proprie radici.
E infatti si trattava perlopiù di riprese in pianta: tu su, i piedi giù, saldamente a terra.
In fondo un pretesto per comunicare che con quelle appendici si muoveva anche il resto di te: loro pirlano qui e là e tu, che ci sei sopra, pirli con loro.
Lo sciame è oltre: piedi finalmente staccati da terra a segnalare un netto dissenso dalla formula meccanicistica che li costringe comunque attivi. Che anche se statici sentono l’incombenza di sorreggerti.
La mole iconografica – più mole che icona… che manco gli Alinari – fa però pensare più a un trattato collettivo sulla negazione della legge di gravità.
Infatti al cospetto de La grandeur de la vision horizontale – a differenza della precedente, spesso preda dell’incertezza verticale – non possiamo che ratificare la nuova leggerezza acquisita dai piedi, finalmente liberi di roteare a piacimento per il file preposto.
E per tutto il web.
Anche uno solo a volte, che l’altro si è nascosto perché timido.
Emotivamente apprezzabile, commovente direi, lo slancio affettuoso e riconoscente nei confronti del nostro primario mezzo di locomozione.
La mia amica A.G. ha scritto sulla sua pagina Facebook: Posterei anch’io una foto dei piedi in vacanza, ma poi si vede che mi mangio le unghie.

 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Gabriele Basilico, Quaderni.

I quaderni dello Studio Gabriele Basilico, questo il nome per esteso della collana.
Non so di quanti quaderni si comporrà: ABITARE LA METROPOLI è il primo. In edizione riservata agli amici di Gabriele Basilico. E di Giovanna Calvenzi, che ha curato il volume.
Splendido e commovente.
La commozione è sempre uno stato spiegabile. Perché ti riguarda proprio personalmente.
E come un vento che ti investe, la senti ma non la vedi. E più spalanchi gli occhi, meno la puoi vedere. Devi chiuderli.
La visione prescinde dal visibile. Questo è ciò che fa un fotografo.
L’opera di Gabriele Basilico è nota a tutti. Mentre questo suo testo dovrebbe uscire dal confine dell’amicizia e avere quanta più divulgazione possibile: semplice e ricco, è davvero una grande lezione.
Pulita… trasparente: una lezione senza fanfara. Che anzi pone il silenzio e l’assenza come elemento percettivo.
E io adoro la sottrazione.

Io fotografo il vuoto come protagonista di se stesso (…) perché solamente nel vuoto e nel silenzio si può arrivare a sentire e a vedere ciò che normalmente non si vede e non si sente.
E ancora…
Sono state la percezione del vuoto e dell’assenza, l’esperienza spalmante della luce, a confronto con le ombre nette e profonde, a farmi entrare in vibrazione con la realtà e a farmi scoprire una percezione nuova e diversa dei luoghi industriali.

Una lezione trasversale: mica crederete essere esclusiva di fabbriche e marciapiedi?
Mica si può assolvere chi fa baccano con people e bella gente… la questione è la stessa e ha a che fare con la fotografia come luogo rigenerante e visionario in grado di rivelare il visibile non riconosciuto.
Ma ad alcuni riconoscibile. E in questo caso, nel caso di questo quaderno, è un dono che ci viene fatto.

Sei capitoli:
Abitare la metropoli – la Milano bombardata nella memoria dei genitori e l’appena dopo, con una meravigliosa citazione di Alberto Savinio;
Milano ritratti di fabbriche – la meraviglia della rivelazione metafisica, avvenuta nella primavera del 1978, e gli esordi sul finire dei ’60;
Milano nelle altre città – il luogo globale e l’identità dei singoli luoghi, la familiarità percepibile ovunque;
Fotografare la città – l’assenza di luoghi deputati a favore di una integrazione tra architettura ”colta” e ”ordinaria” per costruire un dialogo della convivenza;
Beirut centre ville 1991 – le contraddizioni tra l’estetica della tragedia e il rigore della testimonianza;
Lettera alla mia città – l’amore per Milano e la reciproca appartenenza.

E poi ci sono ventisette fotografie: a parte cinque di Gabriele Basilico, le altre sono ritratti a Basilico, opera di Toni Thorimbert (cover), Maurizio Zanuso, Giovanna Calvenzi, Cristina Omenetto, Gianni Nigro, Nora Raggio, Alessandro Ferrario, Gabriel Vaduva, Paola Chieregato.
Più l’autoritratto della quarta di copertina.
Il progetto grafico, semplice e bello, e l’impaginazione sono di Maurizio Zanuso.
Da Giovanna Calvenzi ho saputo che è prevista, con qualche variante iconografica, un’edizione pubblica.
Speriamo presto.
Questo quaderno è pieno di luce. E assieme a poco altro mi fa dimenticare il buio.
Questo buio.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

ABITARE LA METROPOLI, 68 pagine, formato 14,5 x 19,8 cm.
Realizzazione editoriale Bel Vedere fotografia.
Finito di stampare il 13 luglio 2013 presso Arti Grafiche Meroni.

Il mio gatto bianco.

Felipe by Efrem Raimondi - All Rights Reserved

    Felipe – Cap Ferrat 1998.

Felipe… il mio gatto bianco.
Con lui, con la sua complicità, ho imparato a fotografare i gatti.
E fotografandoli ho imparato anche molto altro su di loro.
Che mi è molto utile, ancora, quando fotografo i bipedi.
Pratica enormemente più semplice.
Se non altro perché usi la parola.
Se non altro perché una volta risolti i preliminari, più o meno sempre gli stessi, noiosi a volte, si tratta solo di scattare.
Insomma, visto che siamo qui per questo, diamoci. E c’è in qualche modo un’equivalenza dei ruoli al fine del risultato.
E l’unico risultato che contemplo è il coinvolgimento o l’estraneità.
Non considero i piani intermedi: o ci si dà o ci si nega, per me vale uguale.
Perché anche la negazione ha la sua forma.
Le robe a metà, quelle sì mi sanno di posato artefatto.

A volte è solo un dettaglio a fare la differenza. A volte un insieme indefinibile.
E tutto questo l’ho imparato soprattutto fotografando Felipe.
Che mi ha educato molto.
Questa è una storia sulle relazioni. Sull’importanza di mettersi in ascolto.
Usando tutti i piani a disposizione.
Con lui le parole non avevano significato… erano suono.
I movimenti, anche del sopracciglio, linguaggio esplicito.
I gatti non delegano alla sola coda la propria comunicazione, così come noi non rimandiamo alla sola parola. Che anzi a volte è strumentale.
Quand’ero con la fotocamera nei paraggi, mi osservava con attenzione.
E sapeva che da lì a un momento l’avrei mirato.
Ho sempre avuto la certezza che gli piacesse. Che in qualche modo lo recepisse come un nostro rito e un momento alto di relazione.
Perché come mi guardava in macchina Felipe, ne ho trovati pochi. In assoluto.
Senza appunto dover dire niente. E tutto il mondo altrove. Lontano da dov’eravamo.
Lui e io, stop.

Questo è fotografare: tutto condensato in quel minuto… in quell’ora… in quel giorno. Il racconto della tua vita.
Tutto o niente, in quel tempo che abbiamo. E che passa.
Puoi decidere di stare a guardare, svogliato.
O di impugnare ‘sta cazzo di macchina e respirare a pieni polmoni.
Che a volte fa male… fotografare non è una passeggiata. Mai, per come la intendo.
E un’immagine non vale l’altra.
La fotografia non è un accessorio, un modo per riempire il tempo o un quarto di pagina di una rivista. Chi la pratica lo sa bene. Chi la usa, non è detto.
E anzi a giudicare da ciò che si vede sui media a un euro e dintorni, c’è da credere che lo smarrimento regni sovrano. Va be’…

E poi e poi… gli estremi son sempre due.
Coi gatti, il bianco e il nero.
Traslando fotograficamente, una condizione che mi è congeniale.
Anche quando penso a colore, che se per caso mi arriva una eco b&w capisco che qualcosa non va.
Un po’ come fosse un parametro. Una matrice alla quale erroneamente deleghiamo la nostra parte nobile.
Probabilmente il peccato originale dal quale la fotografia dipende.

I gatti sono ossessionati dalla pulizia e Felipe al suo bianco ci teneva.
Con lui ho imparato che il bianco andava aperto: se l’esposimetro diceva x, io dovevo aprire di almeno mezzo diaframma. Pena una nota di grigio.
Ma questo vale anche per il nero… solo a chiudere però.
Perché il bianco e il nero sono un concetto. E quello che va restituito è l’idea che abbiamo di questi estremi. Anche quando la scala è colore.
Felipe ci teneva sì al suo bianco… doveva essere esattamente come lo pensava: assoluto.
Un impegno quotidiano al quale non è mai venuto meno, leccandosi con ostinazione militare quando non gli quadrava.
Non era un fatto oggettivo, era davvero la sua proiezione di bianco, cioè di sé.
Se sono stato il fotografo di qualcuno, è solo di Felipe.
Non dimenticherò mai il suo sguardo.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Fotocamere: Polaroid SX-70 e 690 SLR.

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SHOT 13

Shot, in primis.
Poi 13, perché nasce adesso.
Ma sarà anche 14. E anche 15 per arrivare giusti all’EXPO.
Quindi Shot ci sarà. Magari in forma diversa, perché avremo modo di mettere a punto la macchina… di essere più circostanziati… di mirare meglio.
Abuso del plurale, in realtà qui ne parlo a titolo personale.
Ma sono uno dei promotori e la faccenda mi sta a cuore.
Mi si perdoni quindi la licenza temporanea.
Che poi, tra Comitato Promotore, Comitato Esecutivo e Autori che sovrintendono alla selezione del materiale in arrivo, c’è gente ben più qualificata di me.
Io faccio solo il fotografo.
Comunque, è da qui che si parte. Ed è più semplice di ciò che sembra: si chiede di partecipare a una sorta di censimento iconografico a chiunque l’immagine la mastica in età compresa tra i diciotto e i trenta.
E poi la sputa, senza necessariamente sapere dove.
Disperdendo a volte una cifra espressiva.
Se ne è parlato un paio di mesi fa, è così che è iniziata.
Interrogandosi su questa mole che il digitale ha prodotto.
Fregandosene di archetipi e memoria storica, spesso alibi per fare zero, che statici è bello, in Italia soprattutto.
A ben vedere, è anche vero che abbiamo una memoria iconografica ficcata nel DNA, solo che sono in pochi a usarla.
Anche perché è una rendita selettiva e benedice dove le pare, quasi random su soggetti predisposti. Mica sull’intera popolazione italiana, così, di default. E la predisposizione si attiva se sollecitata dal dubbio, mica dalle certezze dei nostri predecessori.
E davvero molto è cambiato col digitale. Ma non si tratta di disquisire sul processo. Non adesso.
Ho l’abitudine di riflettere su ciò che vedo. Talvolta di riflettermi.
Penso al prodotto, all’immagine. Non al produttore e al titolo che vanta; non al contenitore, non al luogo, non all’allure eventuale di entrambi.
E me ne frego del mezzo, dello strumento. Questo da sempre, dal mio primo vagito analogico.
Per tutto questo son qui. Perché ho voglia di interrogarmi in un ambito ordinato e su un tema: what’s my name.
Perché guardare è una delle misure del vedere.
Grazie a Milano Makers, che è tra i promotori, SHOT 13 si è inserito nel contesto di
MI Generation. Cioè patrocinio del Comune di Milano.
Mica per una questione di agganci ma per vivo interesse nei confronti di questo percorso. Che sappiamo come nasce ma non precisamente dove porta.
È un work in progress. Che per questo primo anno avrà come sede finale il Castello Sforzesco, con una mostra dal 21 al 23 settembre.
Più conferenze, reading e altro annesso.
Non sono vago, è che è davvero un tourbillon e alcune cose sono in fase di definizione.
L’invito è quindi a inviare immagini e video a questo indirizzo e-mail: shot@shot13.it
Quanto alle specifiche copio/incollo quanto indicato sulla pagina FB di SHOT13, precisamente qui: https://www.facebook.com/shot13.it/info

Come partecipare.
Inviando all’indirizzo shot@shot13.it max 5 immagini, in formato jpg.
Il peso complessivo dell’e mail non deve superare i 10 MB.
Ogni immagine dovrà essere denominata come segue:
NOME_COGNOME_1.jpg
NOME_COGNOME_2.jpg
E così via.
Per i video va inviato ESCLUSIVAMENTE il LINK di pubblicazione, sia esso su you tube, vimeo o qualsiasi altra piattaforma. Esclusi corti e lungometraggi. 


Il titolo è, appunto, l’identità. Modulata come pare.
Cinque immagini massimo… cioè anche una. Ma io sfrutterei la cinquina.
Perché definisce un percorso, una chiara intenzione di arbitrio.
Che è il vero elemento distintivo del linguaggio. Ciò che ne permette l’evoluzione.
Ci sarà a breve anche un sito, http://www.shot13.it/  al momento in costruzione.
Adesso però bisogna correre. Priorità alle immagini. Inviare, please.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Questo il documento di presentazione:

PDF SHOT13