Colore – Una pura formalità, 6

 

Efrem Raimondi - FUORISALONE 2013
Colore… si dice così.
E assegna una collocazione di massima.
Quindi?

Quindi il vuoto. Uno spazio preconfezionato, incolore, che aspetta noi.
Poi?
Poi diventiamo variopinti…
Se non abbiamo un’idea del colore che ci corrisponde, se è solo una contrapposizione al lessico BN – vale anche il contrario – al massimo siamo variopinti.

E se il BN risponde a una esigenza espressiva, il colore idem – sorvolo, che ne ho già chiacchierato: search una pura formalità, 4.
Con una differenza paradossale, contraddittoria rispetto all’intenzione originaria: il colore si distingue ulteriormente dal piano reale. E se ne va per la propria strada.
Perché più dell’altro, quel BN dai modi aristocratici, ritiene la realtà un incidente di percorso. E non una verità alla quale attenersi.
Alla quale anzi sottrarsi, con o senza schiamazzi, ma comunque senza dichiarazioni ecumeniche.
Creandone una a caso o talvolta più consapevole, deciamente consapevole.
E qui la forbice.
In questa sottrazione il nostro distinguo.

Come qualsiasi altro elemento, il colore è parte integrante della nostra cifra espressiva: a quale Fotografia lo riconduciamo?
O ci limitiamo ad assolvere le quattro fotografie che stiamo affrontando al momento e al prossimo giro si ricomincia?
E lui dentro come capita, poi… contrastato – saturato – desaturato – crossoverato – sbiancato – caldo – freddissimo, meglio – no, meglio caldissimo – virato – ipertutto di qui e di là e facciamola finita che proprio boh – magari normale…
Normale? Quali le norme?
Violato… picchiato. Proprio malconcio, così succede di ritrovarselo.
Suo e nostro malgrado.
Restituito come fosse privo di identità. La nostra identità latitante.
Questa la forbice.

La Fotografia non è BN. Non è colore.
Lo sono le fotografie. Che sono un mero strumento.
Per far cosa?
Rispondere a questa domanda ci aiuta a definire anche la relazione col colore.
E non c’è una risposta univoca.
Solo la coerenza del linguaggio che ci riguarda stabilisce il grado di coincidenza.
E non è mai una coincidenza avulsa dalla percezione, che è la vera discriminante.
Che ha un solo termometro… la restituzione in forma concreta, non blaterata: ciò che si vede è.
Ciò che mostri, è.
Il resto, tutto il resto, appartiene a un altro tempo. A un’altra giostra.

Un fatto individuale…
Il colore non è una informazione cromatica oggettiva, ma lo strumento per esprimere, sottolineare direi, la parzialità di uno sguardo.

Che non è però scevro dall’epoca in cui guarda.
Né dalla latitudine in cui s’è formato.
La vista è un fatto essenzialmente biologico. La visione fotografica no.
Proprio perché percettiva.
Sostanzialmente il colore è un prodotto culturale.
Il colore.
Il variopinto no.
Il variopinto è una tavolozza principalmente chiassosa che impone al colore di essere soggetto, persino quando desaturato, livido come la morte.
E che non tiene conto del fattore primario: il soggetto, il solo di cui davvero ci dovrebbe fregare, è la fotografia, proprio quella lì che mostriamo, nella sua totalità: all’interno di quel perimetro nulla è separabile.
Il variopinto è l’escamotage corrispondente al maquillage: un tentativo di abbellimento.
A volte grottesco, e questo è il suo momento di gloria. 

O meglio, lo è stato. Dalle retrovie mediatiche gli ultimi strilli di una fotografia da carrozzeria.
Accompagnati dal mio soave vaffanculo.

Per due o tre anni – non ricordo – sono stato membro dell’Hasselblad Master Jury.
Tra il 2009 e l’11 credo.
Ed è stato un punto di osservazione privilegiato: la parte finale riguardava un centinaio di autori per un migliaio di fotografie.
Ho fatto fatica.
Una gran fatica a distinguere un super vip wedding a Los Angeles da un reportage delle miniere di diamanti sudafricane.
Dall’Argentina al Giappone, dall’Islanda all’Australia, tutto uguale.
Ritratto incluso. Anzi più uguale.
Poi le eccezioni: cinque per ciò che mi ha riguardato nell’ultimo contest.
Un solo autore… ossessivo, petulante, democratico: Photoshop.
E il colore? Il tuo colore, dov’è?
Il problema non è mai lo strumento, ma come si usa.
Ed è così da sempre.
Après, con una domanda di Michel Pastoureau: Ma si può ancora parlare di individualismo se i comportamenti individuali vanno tutti in un’unica direzione? *

Il colore che amo in fotografia, anche quello che personalmente uso, non si vede nemmeno.
Non ha un nome.
Non si dichiara.
Partecipa e basta.
Ma se non ci fosse, ne sentirei la mancanza.

Di che colore è un divano rosso in una stanza buia?

Che poi è così semplice, noi ci misuriamo con un’idea di colore, sempre, e non c’è nulla di tangibile: nella sua esposizione la nostra relazione.
E lo allunghi… lo centrifughi… lo espandi… lo sottrai… lo concentri.
Fino a coincidere.
E tutto ciò solo con l’esposizione. Che è determinante.
Il colore, anche lui, è un arbitrio, non un dettato.

Ma di che rosso parli?

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

* I colori dei nostri ricordi, 2010
   Michel Pastoureau
   Ponte alle Grazie, 2011.

Fotografia per INTERNI mag.
Fuorisalone 2013, Milano – Knoll at Prada
iPhone

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Colore NERO

Efrem Raimondi Blog - Nero Pastoureau

 

Il colore è un concetto.
Non una verità Pantone.
Ed è un concetto variabile, a seconda dell’epoca in cui lo si percepisce e si usa.
Noi diamo per scontate troppe cose…
Un esempio per tutti: il colore blu c’era, ma i greci non lo sapevano.
Non riconoscendolo come colore, non aveva una denominazione.
E mare e cielo vengono descritti con un sacco di sfumature.
Mai col Blu.
Non lo vedevano?
È la domanda che si trova in I colori dei nostri ricordi, sempre di Michel Pastoureau, il maggior esperto al mondo di storia del colore.
Che non ha illustrazioni, che non riguarda nello specifico il Nero, ma che non si può evitare di leggere. Perché qui il colore in quanto tale è soggetto assoluto, ma relativo nel racconto della vita di ognuno di noi.
Senza neanche sforzarci tanto, pensiamo a un daltonico.

Il colore è un concetto. Non una verità Pantone. Ed è un concetto variabile, a seconda dell’epoca in cui lo si percepisce e si usa. Un esempio per tutti: il colore blu c’era, ma i greci non lo nominavano non riconoscendolo. E mare e cielo vengono descritti con un sacco di sfumature. Mai col Blu. Non lo vedevano? È la domanda che si trova in I colori dei nostri ricordi, sempre di Michel Pastoureau. Che non ha illustrazioni, che non riguarda nello specifico il Nero, ma che non si può evitare. No.

Il nero, come del resto il bianco, per quasi tre secoli sono stati vissuti come dei non colori: più o meno tra la fine del Medioevo e tutto il XVII secolo.
E un po’ oltre in realtà, se si pensa che solo all’inizio del XX secolo riprendono possesso del proprio certificato di appartenenza al comune spazio cromatico.
La loro vendetta è iniziata però nel XIX secolo ed  è stata grande: un mondo proprio, dal quale tutti gli altri colori erano esclusi… la fotografia.
Il loro sodalizio diventa un brand potente: BN… B&W.
Replicano col cinema e poi con la TV.
In fotografia continuano a sottolineare la loro differenza: BN da una parte e il COLORE dall’altra.
Separati in casa. Con punte di odio profondo, religioso si direbbe.
Il digitale ha un po’ incrinato alcune certezze creando equivoci, e certo questo bianconero RGB non avrebbe mai la denominazione BN dall’ortodossia analogica.
A ragione… ancora troppo presente la memoria e la prova di un  bianconero pieno, al di sopra di ogni sospetto e di ogni altra traccia cromatica.
Ma tranquilli, il digitale farà piazza pulita di questa memoria.
E così potremo, o potranno i posteri, occuparsi della ricerca del bianconero perduto… una sorta di nuova disciplina del tempo libero.
Per alcuni, i più fighi, una branca dell’Estetica con tanto di corso di laurea.
Rigorosamente quinquennale. Minimo.

Un bianconero digitale è invece possibile…
Basta appunto pensare al nero, e al bianco, come concetto.
Che idea hai del nero?
Pensaci quando lo esponi. E io lo sottoespongo. Perché il nero non è un grigio scuro nel quale sforzare la vista alla ricerca di una traccia del proprio passaggio.
Nel nero voglio affondare.
E quando non è soggetto, è comunque complice perfetto nel dare volume e profondità a tutta la scena. E a tutti gli altri colori.
Per questo mediamente ne aggiungo dal tre al 5% in postproduzione una volta ultimato il tutto. Appena prima di chiudere. Poi chiudo e basta.

In principio era il nero, un intero capitolo, il primo, in cui Pastoureau traccia le linee dell’intero Nero. Storia di un colore.
Che è il percorso storico di questo colore assoluto.
Dalla notte dei tempi, quando Dio dal buio pesto creò la luce, fino al nostro contemporaneo. Che c’entra poco, niente a volte, col Nero che ci ha preceduto.
Una lettura illustrata di oltre duecento pagine. Una meraviglia.
Perché si tratta del percorso millenario di un colore imprescindibile attraverso il relativismo delle epoche. E delle culture.
Anche delle superstizioni.
Un trattato insomma.
Sul Nero. Dove a volte si intrufola il Bianco.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nero. Storia di un colore, Michel Pastoureau.
Traduzione, Monica Fiorini.
2008, PONTE ALLE GRAZIE Editore.
212 pagine, illustrato, rilegato, 23 x 23,6 cm
€ 34,00

I colori dei nostri ricordi, Michel Pastoureau.
Traduzione, Laura De Tomasi.
2011, PONTE ALLE GRAZIE Editore.
240 pagine, brossura con alette, 13,5 x 20,7 cm
€ 16,80

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