Achille Castiglioni

Achille Castiglioni by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved

NOTA – Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 30 maggio 2014.

Achille Castiglioni… mi era impossibile dargli del tu.
16 febbraio 1992, Milano piazza Castello civico 27, primo pomeriggio tarda mattinata.
Non ricordo.
Comunque nel suo studio per andare insieme in Cassina e fare il punto sull’Hilly, ultimo progetto giusto in tempo per il Salone Internazionale del Mobile.
E mentre son lì scopro due cose: che è il suo 74° compleanno e che non si va a Meda io che guido la mia macchina, bensì lui che guida il suo Espace.
E proprio non c’è discussione.
Quindi la mia condizione è la seguente: il giorno del compleanno di Achille Castiglioni sono seduto al suo fianco mentre guida direzione Cassina.
E mi dice: Raimondi… però dammi del tu eh! Stiamo lavorando insieme.
Ecco… dopo due tu faticosi ho ripreso col lei e non ho mai cambiato pronome.
Mai.

Una misura esiste. E tutto il mondo riconosceva la sua.
Io ero un pischello. Mi ero affacciato nove anni prima.
Che poi, ma perché ero lì?
Ci penso adesso…
Cioè, perché Achille Castiglioni voleva che ci fossi anch’io a quel summit?
Non sammit, proprio un summit…
Vero che dovevo fotografare da lì a qualche giorno, però boh…
Azzardo ora un’ipotesi: apparteneva a una generazione di gente speciale, abituata al confronto con chiunque componesse l’équipe di lavoro.
E se eri lì dentro non c’erano gradi da far valere. C’era ciò che mettevi sul piatto.
E in che modo.
Perché anche il modo conta.
Questo lui… Io invece gradi e pesi li avevo ben presenti e sapevo perfettamente su cosa e con chi mi confrontavo.
Quindi calma, misura, ascolto. E una dose di azzardo sostenuta da una ingenuità consapevole: in fondo se ero lì una ragione c’era e non era importante che perdessi tempo a cercarla.

Io non posso dire nulla, proprio niente del genio di Achille Castiglioni.
Posso solo raccontare del privilegio che ho avuto.
C’è qualcuno ancora in grado di capire?
Apparentemente una faccenda solo personale. Non è vero.
Chi capisce, bene.
Chi no amen. Da un incontro così si impara molto. Anche se stai fermo a guardare.
Per circa tre mesi ci siamo visti e rivisti.
Nel suo studio, nel mio e al Superstudio, dove ho scattato.
A lavoro ultimato gli ho chiesto di ritrarlo. E si è prestato.
Nel suo studio, spalle al gigantesco specchio a 45°… che la prima volta momenti cerco di oltrepassarlo – secondo me era usato anche come test per gli ospiti.
Luce ambiente e banco ottico.
Luce scarsa per un formato 10/12. Allora monto comunque un flash che mi serve da supporto del bank 90/120 per spalmare la sola luce pilota; rifletto uleriormente su un pannello sospeso e accendo un paio di lampade presenti in studio: volevo una luce continua.
Più lunga, più morbida, più calda – anche nel b/n c’è differenza – pronto anche a un micromosso. Che ci poteva benissimo stare.
E infatti c’è.

E davanti ho proprio la faccia di un meraviglioso milanese.
Che diversa non può essere.
Milano, quella istituzionale, dovrebbe sempre ricordarsi di avere un debito nei confronti di queste facce qui.
Io volevo solo un souvenir per me.
Ed è l’unica cosa che ho chiesto a Achille Castiglioni.
Perché invece rotolino me l’ha regalato lui, direttamente con dedica durante un incontro, così, per suo piacere.
Ero decisamente commosso…

Achille Castiglioni, dedicated to Efrem RaimondiNel corso degli anni mi bastava girare la testa, a sinistra della mia postazione computer, per vederlo quel rotolo.  E ogni tanto pensavo che il giorno dopo avrei telefonato in studio e sarei andato a trovarlo.
Non l’ho mai fatto.
Le urgenze, soprattutto quelle emotive, non andrebbero mai rimandate.
Ci sono passato invece fugacemente l’anno scorso durante il Salone, perché sede di un evento. Ripromettendomi di tornare con calma.
E sono tornato. Adesso.
E mi sono immerso.

Studio Museo Achille Castiglioni, ma l’atmosfera è la stessa, e da un momento all’altro sarebbe sbucato l’architetto.
Come l’ha lasciato lui… come se fosse andato a prendere un caffè e a minuti torna.
Così mi dice Giovanna Castiglioni, sua figlia.
Che cura  e gestisce insieme a Antonella Gornati – che ricordavo bene perché collaboratrice dell’architetto.
E mentre Giovanna mi guida nel tour di questo meraviglioso luogo, sacro per me, certi ricordi mi tornano nitidi.
Su tutti la faccia, il sorriso, il suo intercalare.
La sua ironia accentata di paradosso: Chi sbaglia fa giusto.
A un certo punto chiedo a Giovanna se le va di posare con rotolino steso, il mio rotolo… acconsente a patto che non si veda il viso.
Non so perché.
Ma nello specifico iconografico la sua è stata un’intuizione che ho immediatamente condiviso.

Giovanna Castiglioni by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedE il tour è sorprendente in ogni angolo: qui c’è storia, qui sono state scritte tra le più importanti pagine di design.
Rivedo i quattro parallelepipedi di vetro con dentro di tutto… che quando li vidi la prima volta rimasi sconvolto: c’era la Ferrania che mi regalò mio padre quand’ero bambino, formato 120… mica sapevo che l’avesse disegnata lui. Come anche il Rocket, proiettore per diapositive. Così come un sacco di altra roba.
Tutta lì dentro.
E poi scaffali e zone d’archivio Senza saperlo è stato un grande archivista.

Secondo me non buttava via niente. Col retropensiero di trovare sempre il riciclo.
E vai e giri… e appunti, disegni, modelli, stampi… il suo tecnigrafo, il suo design e le sue cose.

FONDAZIONE ACHILLE CASTIGLIONI by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedC’è anche la brochure dell’Hilly, coi modelli. La sua sagoma, chino che guarda.
Non me l’aspettavo.
Rimbalzo indietro di 22 anni. Come vi sentireste?
La vedo ancora la sua faccia…
Perché è così, si incontrano certe rare persone e talvolta si ha una fortuna dialettica, quella che ti consente di interagire con loro. Ed è un tempo da tesaurizzare.

Visitare questo spazio è formativo. Ascoltarlo, respirarlo è formativo.
Ed è possibile, basta prendere un appuntamento per una visita guidata, questo il link, qui c’è tutto:
http://fondazioneachillecastiglioni.it/visite/

Un luogo dinamico, un luogo dove si fa progettazione al fine di restituire tutto il percorso progettuale di mio padre. Le esatte parole di Giovanna.
Più che guidata, per alcuni dovrebbe essere una visita obbligata.
Per tutti un vero, grande piacere.

Raimondi
Mi avesse chiamato una volta per nome, forse nella singola circostanza sarei riuscito a dare del tu a Achille Castiglioni.

FONDAZIONE ACHILLE CASTIGLIONI by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Il lavoro per l’Hilly, marzo 1992, l’ho realizzato con la Toyo 45G e con un film Ektachrome EPY 10/12… una pellicola tarata per luce al tungsteno. Kodachrome a parte, credo sia stata la più bella slidecolor mai prodotta. Che esponevo a 50 iso.
Pubblico solo due immagini.
Mentre non trovo l’originale esposta in Triennale nel 2008 per la mostra Made in Cassina.
Ma so che c’è. E la troverò.

HILLY, Achille Castiglioni - Cassina by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedHILLY, Achille Castiglioni - Cassina by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedAchille Castiglioni, questa faccia qui…

Achille Castiglioni by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Ca’ Brutta 1921 – Exhibition

Ca’ Brütta 1921… la mostra alla quale avevo accennato a dicembre.
Adesso è pronta. Inaugurazione 14 aprile ore 18,00.
Milano, Castello Sforzesco, Sale Viscontee fino al 10 luglio.
A cura di Giovanni Tommaso Muzio e Giovanna Calvenzi.
Siamo in trenta.
Manca, e manca molto, Cesare Colombo. Che era con noi durante i sopralluoghi.
Ma ci ha improvvisamente lasciato…

Qui c’è tutto   ITA + sito

E questa è la mia

Mi piace la Ca' Brutta by © Efrem Raimondi

Sbagliata… c’è un errore. Evidente.
Grande come una casa…

L’ho accarezzato. E tenuto con affetto.
Ho invece restituito la Mailand, cornice tedesca gentilmente prestatami dai miei amici Caccia, corniciai.
Ringrazio Francesca Matisse per la presenza.

Mi piace la Ca’ Brutta, 2015
70 x 52,5 cm
Fine Art Giclée ai pigmenti
Canson RAG PHOTOGRAPHIQUE 310 gsm
Tiratura 1/5

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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ISOZERO update

ISOZERO by Efrem Raimondi

 

Un aggiornamento doveroso: da più parti mi giunge eco del fatto che non si riesce a trovare ISOZERO…
C’è chi mi ha scritto che non l’ha trovato neanche alla Milano Libri…
Ammetto che la cosa mi fa piacere, perché è una testimonianza di affetto.
E di fiducia.
Purtroppo malriposta nello specifico, perché ISOZERO è sì la rivista che vorrei, ma al momento non esiste.
Mi sembrava che sul finale Claude Fisher – non esiste neanche lui, almeno nei panni del mio intervistatore – lo dicesse chiaramente:

Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia.

Le cose stanno così. Mi scuso per l’equivoco.
E ho una vera, sincera simpatia per chi l’ha materialmente cercata.
Ciò non di meno, è la rivista che vorrei. E che, almeno a me, manca.

Dopo La fotografia non esiste… non esiste neanche ISOZERO.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

ISOZERO – Interview

Efrem Raimondi - ISOZERO MAGAZINE

Los Angeles, August 2014.

Claude Fisher – ISOZERO: Buongiorno Efrem, prima cosa, grazie di essere qui: come stai?
E.R: Meravigliosamente! Non ci penso.
Ottimo, ma ci riesci?
Con un po’ di esercizio sì. Non pensare sta diventando la mia condizione abituale…
Cos’è, una battuta? Non si direbbe guardando il tuo lavoro.
Ti confesso che è soprattutto al mio lavoro, al fotografare, che non penso. E comunque più in generale, non penso.
Perché se dovessi pensare non fotograferei più. Non è più tempo.
Farei altro… chessò, il rivoluzionario o comunque un lavoro socialmente utile. Invece non pensare mi consente di fotografare.
Che per me è ancora il miglior escamotage per evitare il peggio.

A Los Angeles siamo diretti: vuoi un caffè?
Se poi posso fumare, sì volentieri…
Sono spiacente ma questo non è possibile… mi spiace davvero molto.
Allora sì, lo prendo. Sai com’è, a Milano siamo indiretti…
Molto bene: latte, zucchero?
Assolutamente niente, grazie.
Dieta? – ride.
Ti sembro ciccione? No… anzi, voglio morire grasso. Semplicemente il caffè mi piace liscio. Lo zucchero lo aggiungo se mi fa schifo… Mi piace l’incipit di questa intervista. Dico davvero. Isozero è una rivista che amo proprio per la sua autenticità: che tu mi confermi.

Ok, veniamo alla prima domanda: ti sei definito più volte un outsider e qui in U.S.A. è un genere molto apprezzato. Ci dici qualcosa a riguardo? Perché saresti un outsider?
Perché non ho fatto alcuna scuola, non ho fatto l’assistente… non ho mai fatto niente. Niente che in qualche modo avrebbe potuto aiutarmi a crescere dandomi degli strumenti concreti. Che sono invece importanti e fanno risparmiare un sacco di tempo. Oltre al fatto che ti permettono di conoscere un po’ di persone… e sai com’è, le conoscenze aiutano. Io invece no.
E quindi cos’hai fatto? Quando hai deciso di fare fotografia e diventare fotografo?
In un certo modo fotografi si nasce… a quattro anni sfogliavo Popular Photography, alla quale mio padre era abbonato. A sei, sette anni mi capitava di accompagnarlo per circoli fotografici e per mostre… sono stato più volte con lui al Jamaica, nel cuore di Brera, quartiere artistico per eccellenza di Milano, dove incontravi Ugo Mulas, Bruno Cassinari, Piero Manzoni, Alfa Castaldi… un locale che era stato abitualmente frequentato da gente come Ungaretti… che nei ’70 era quasi dimora per Allen Ginsberg… E c’erano un sacco di operai, perché quello era un quartiere operaio: chi cazzo ci va adesso al Jamaica?!

Che sigarette fumi?
Lucky Strike…
Me ne offri una?
Con vero piacere! Lo sai che il fumo fa male?
A Los Angeles? Ma non mi chiedi come mai ne chiedo una?
Nnno… non mi piace mettere in imbarazzo le persone. Tu me l’hai chiesta, io te la do. Ma nessuno dice nulla se fumiamo qui dentro?
Ma qui si fuma abitualmente – ride. Si va sul tetto, almeno in due: non è consigliato andarci da soli… l’ascensore può riservare una compagnia non molto attraente – ride. Però ci sono le eccezioni. Anche a Los Angeles, cosa credi? In questo ufficio ogni tanto succede. Ti chiederai come mai prima ho detto che non era possibile…
No. In ogni caso anche outsider si nasce. Tra la fine dell’80 e l’inizio dell’81 feci due reportage. Ero un ragazzo con una voce fuori dal coro, ma non fu un fatto volontario: ero realmente così. Eppure quei due lavori mi convinsero che la fotografia sarebbe stata la mia vita. Cominciai a bussare a tutte le redazioni che ritenevo interessanti. E ce n’erano parecchie… la fotografia italiana ha radici nell’ambiente amatoriale degli anni ’50 e ’60… un luogo davvero ricco di talenti autentici. Alcuni si sono imposti altri no. Ma comunque il confronto era con una fotografia di alto livello espressivo. E le riviste intercettavano questo talento dandogli degli argini certi. Evitando dispersione…
Adesso per favore chiedimi cos’è il talento…

LOS ANGELES by Efrem Raimondi

Scusami, quali magazine?
Diversi e ognuno con l’intenzione dichiarata di mettere al centro la fotografia. Ne cito due per tutti e che mi riguardano direttamente: PM e INTERNI… il primo fortemente italiano, di attualità, il secondo con un taglio inevitabilmente internazionale visto che è di design che si occupava, e si occupa dato che per fortuna c’è ancora.
Ma lo sai che è capitato di ricevere lettere – mica c’era Internet – in redazione a Interni?
A seguito di un redazionale o di un numero particolarmente denso. Anche da qui, dagli U.S.A.

Quindi parlo non di magazine che si occupavano di fotografia, ma di quelli che la fotografia la producevano davvero. Pensa a Lotus, la conosci?
Ce ne ha parlato Francesca Solincielo, il nostro occhio italiano in redazione…
C’è ancora, con una formula editoriale diversa. Be’, ci pubblicavano regolarmente Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella…
li conosci?
Conosco Luigi Ghirri e Gabriele Basilico… Conosco Giacomelli e Ugo Mulas. E conosco anche il lavoro di Giuseppe Cavalli. Francesca dice che in Italia non è molto conosciuto: mi sembra impossibile.
Giuseppe Cavalli? Tu conosci Giuseppe Cavalli? Un grandissimo!
Ma Francesca ha ragione: a parte alcuni addetti ai lavori e i critici di professione, è semisconosciuto.
Scusami, tu quanti anni hai?
Trentaquattro…
Bene, ognuno ha l’età che si merita. Io ne ho tremiladuecento, circa, e non ho un presente.
Siamo un popolo senza presente noi italiani, per questo usiamo quello degli altri.
Chi ci conosce? A parte i nomi che hai fatto, chi ci conosce?
E anche qui ci sono delle responsabilità, anche di noi fotografi. E del concetto di mamma che abbiamo. Perché in Italia la mamma è un concetto.
La propria. Quella degli altri a volte è solo troia. E anche questo è un concetto.
Guarda, quanto a concettuale non c’è popolo al mondo che ci batta…
Voi e quella invenzione paracula che avete chiamato Pop Art…
Comunque… io ero un pischello che spingeva, ma ciò che guardavo, il mio parametro era di questo livello: quei fotografi lì, quelle riviste lì, quelle mostre lì. E un là, quello che arrivava oltre confine ma non si viveva come un prodotto di importazione. Non era cioè qualcosa di estraneo e inoculante: se ne percepiva chiaramente il background, la specificità locale. E questo garantiva dialettica e confronto: stimoli! crescita!
Vuoi mettere la pappetta preconfezionata con tanto di visto internazionale? Quella roba che parla un linguaggio passepartout che non ha un microbo. E senza microbi, muori.

Non credi ci sia un linguaggio internazionale?
C’è una convenzione espressiva internazionale ridotta ai minimi termini, per un mercato del pensiero unico e globalizzato. Non è un linguaggio, è un paralinguaggio, è un business. E il metronomo lo caricate voi.
Noi, tutti noi resto del mondo, balliamo al ritmo della vostra musica. Noi ci ingoiamo Miley Cyrus e Terry Richardson. E al massimo produciamo epigoni. Proprio perché non usiamo più il linguaggio. Che è un elemento distintivo che garantisce la dialettica, lo scambio… se tutti parlassimo nello stesso modo non ci sarebbe più espressione.
Mi chiedi cos’è il talento, per favore?
Capisco. Siamo degli imperialisti schifosi… è questo che dici, no?
Io credo che la fotografia sia in grado di superare molte barriere linguistiche e in questo è un grande strumento di comunicazione immediata. Diretta e veramente trasversale… come si dice? Una fotografia vale più di mille parole!
Dipende quale fotografia e quali parole. Non mi piacciono le generalizzazioni, producono il conformismo al quale aggrapparsi per insultare qualsiasi divergenza. Mentre è proprio nella divergenza, è nella contraddizione che risiede l’origine del linguaggio.
Non dico che siete degli imperialisti schifosi… dico che avete industrializzato un metodo di esportazione culturale che non prevede emersione del contraddittorio. Del resto se no come avreste fatto a competere col sistema dell’arte che vi ha preceduto? La Pop Art è stato il vostro Cavallo di Troia. Un cavallo chiassoso, con finimenti e bardature spaccone degne di un circo. Avete appeso il silenzio hopperiano nei vostri musei dopo averlo celebrato il minimo per potercelo mettere su quelle pareti, e siete partiti col carrarmato Warhol.
Mi chiedo come facciano taluni tanti, a sostenere che Edward Hopper sia stato il precursore della Pop Art… lui, che diceva robe tipo “Non dipingo quello che vedo ma quello che provo”.
Semmai è stato il precursore di tanta fotografia e cinema. E non mi riferisco all’operazione di Richard Tuschman, della quale francamente non capisco la necessità.

Interessante, quindi outsider
Hai detto che qui l’outsider è molto apprezzato… e certamente è stato così. Non so adesso… 
Se proprio devo dirla tutta, outsider definisce anche una posizione culturale. Quella che aspira al superamento del trend e delle certezze pontificate. Francamente è la condizione che consiglierei a un giovane fotografo: chiudere gli occhi e estraniarsi da questo insopportabile rumore digitale che ammorba l’aria… Ezechiele 25:17

Pulp Fiction!
Esatto. Lo citano tutti, lo faccio anch’io.
Rumore… digitale versus analogico? I fotografi della tua generazione, quelli che abbiamo incontrato, hanno opinioni discordanti a riguardo: tu che ne pensi?
Bene… chi usa astrazioni a riguardo fa solo demagogia.
Per garantirsi un po’ di luce mediatica. Una marea di gente a diverso titolo si esprime su questo falso dualismo. Mistificante direi. I più violenti, in genere, sono i digitalisti. Perché sanno perfettamente che se per uno scherzo diabolico il digitale sparisse così, d’emblée, non sarebbero in grado di fare più un cazzo. A me non frega niente della diatriba, a me interessa solo il risultato, cioè la fotografia che ho di fronte. E giusto per chiarire, uso il digitale ormai nella stragrande maggioranza dei casi. Perché è comodo e io sono pigro.
Però è stato come Hiroshima. Per cui si abbia la cortesia di non chiedermi di amarlo. Lo uso e stop.

Mi sembra che tu esprima un certo disprezzo. E con la postproduzione che rapporto hai?
Non disprezzo. Il digitale è ineludibile. E non si può essere rancorosi nei confronti degli strumenti che usi. Annoto solo che della pellicola mi manca il volume. E quella leggera scia sporca che i cristalli di alogenuro d’argento custodivano gelosamente. Quei cristalli se trattati con affetto partecipavano alla tua cifra espressiva. C’è più personalità in una pellicola. Tutto qui.
In parte la poca postproduzione che faccio mi serve per recuperare un po’ di quella  personalità. Voglio però dire una cosa molto chiara: la postproduzione c’è sempre stata. Non è patrimonio esclusivo del digitale.
Dalla manipolazione dello sviluppo della pellicola a quella della stampa: il computer ha solo sostituito la camera oscura.
La questione semmai è quale postproduzione.

Quale postproduzione?
Quella che non espone al ridicolo, al comico a volte.
Quella che ha un motivo preciso e non è volgarmente protagonista.
Quella che non si droga di perfezione, e che non perde mai di vista l’insieme: ogni fotografia non è la somma di particolari perfetti.
Ma un unicum da prendere in blocco. Il suo equilibrio riguarda la dialettica degli elementi che la compongono. Un equilibrio che puoi spingere fino alla precarietà assoluta. Fino all’estremo. Fin lì e basta. Poi precipita tutto in un attimo. E non c’è nulla che possa salvarti.
Ci troviamo di fronte a una vera e propria emorragia di cattivo gusto. Dove la singola fotografia altro non è che il supporto geometrico per degli esercizietti più o meno audaci.
Questione seria questa qua. Al punto che nella maggior parte dei casi potremmo saltare la voce “fotografia” e passare direttamente alla voce “postproduzione”… che ce ne facciamo della fotografia?
E le fotografie diventano solo il media per una visione postprodotta talmente alterata da essere trash. Gran fumettoni e via andare.
Visione alterata… cioè tu insisti per un una visione comunque legata alla realtà? Il mondo però cambia e ogni epoca ha il proprio modo di rappresentarsi… si inventano nuovi linguaggi e mai come oggi il legame con la tecnologia produce espressione e in certi casi addirittura la determina. Non penso che ancorarsi al passato sia una soluzione. E anche il gusto, scusami, cambia.
Non è questione di passato e di presente…
C’è una fotografia transitoria legata al costume e questa non solo c’è sempre stata ma mi interessa in quanto rappresentazione di un’epoca. O per dirla alla contemporanea, legata a un periodo.
Che è però sempre più breve perché determinato dalla necessità del consumo, tanto e speedy. I cui tempi non prevedono più neanche lo stomaco: ingoi e caghi. Peccato, perché ti fotti il sorriso.
A me una fotografia da fast food non interessa.
Ritengo che il linguaggio, qualunque sia, debba essere alto.
O comunque tentarci.
E solo le avanguardie sono in grado di esprimerlo compiutamente.
Perché solo le avanguardie sanno manipolare le nuove tecnologie, sanno davvero usarle senza essere usate. Da questo dipende il cambiamento che davvero mi auspico con tutto il cuore. E il po’ di cervello che mi resta.

Ritieni di essere un’avanguardia?
Ma figurati! Io non ritengo niente per ciò che mi riguarda, io mi limito a respirare e a guardarmi attorno.
E se anche il respirare è un fatto automatico, a volte sarebbe bene romperne il ritmo e inspirare profondamente. Questo è l’unico momento in cui si ha coscienza di cosa sia il respiro.
Questa è l’urgenza della fotografia adesso: fermarsi e inspirare.
Perché quello che sta vivendo è un’apnea.
C’è… è viva. Oltre le macerie di fotografie, c’è una fotografia che riflette… ci sono giovani che hanno molto chiaro come organizzare il proprio talento. Anche loro in apnea, ma hanno preso il boccaglio: la condivisione. E i collettivi possono davvero essere il luogo ideale per un’avanguardia. L’epoca di Lancillotto e Mandrake è finita. Io non ci credevo nemmeno prima, figurati!
Una fotografia collettiva?
Sì. Una fotografia che esprima con assoluta chiarezza da che parte sta ogni volta che si espone: propositiva o mediatica? Contraddittoria o accondiscendente?
Perché sono due sponde diverse.
Ciò che vediamo a livello social, di iconografico intendo, non è condivisione ma solo accumulo di fotografie. Lì, sparse come i coriandoli, che galleggiano per aria per pochi secondi e appena dopo precipitano a terra. Soprattutto oggi, noi tutti avremmo bisogno di bombardieri, altro che democrazia digitale!

La copertina di questo numero di Isozero l’abbiamo scelta insieme…
Era in lizza col ritratto di Philippe Starck, altro bianco e nero, ma molto ben impacchettato: l’ago della bilancia è dipeso da te alla fine, perché questa scelta?
In fondo non sono così estranee… sempre di pacco si parla – risata.
La mutanda è una Polaroid del ’93, ero ancora nel bel mezzo del rigore da banco ottico, nel mio caso comunque un po’ sporco… e la Polaroid era il modo per evadere da una certa staticità ineludibile.
Ho sempre amato gli estremi, e rimbalzare dal banco alla sx-70 era per me come passare da una marina all’Everest, il tutto in un attimo, il tempo di allungare la mano e prendere lo strumento meno mediato possibile rispetto al precedente. In fondo era come accorgersi, nello scarto, del respiro di cui si diceva prima.
Questo rimbalzo è stato ed è tuttora fonte di ossigenazione per il mio cranio: non è vero che lo strumento è indifferente, perché ognuno ha delle specificità proprie. La differenza la fa la tua capacità di relazione, e più è dialettica, meno subisci i limiti e più diventi la fotografia che fai.
Questa immagine fa parte della serie Appunti per un viaggio che non ricordo, un lavoro in progress sul tema dell’allucinazione e della percezione. Un lavoro sul dubbio e l’incertezza. Rigorosamente in formato quadrato. Credevo fosse finito con il decesso Polaroid.
Poi sono arrivati Instagram e lo smartphone. Forse posso riprenderlo.
Forse…
Ma scusa, è stata ripresa la produzione: Impossible Project, che rappresenta la continuità Polaroid…
Provata. Quando mi avviseranno che è cambiata la riprovo.
Al momento non ho echi. Mi dicono che però sono ecologiche.
E chi se ne frega.
Te ne freghi dell’ecologia?
Proprio per niente! Solo non può essere usata come un alibi.
Che poi, visto il costo di ogni confezione, rigorosamente da otto, e visto il consumo ben più che doppio dato che vai per approssimazione empirica e comunque non è detto, mi spieghi cosa c’è di realmente ecologico?
Non ho nessun preconcetto nei confronti di Impossible Project, e infatti resto in fiduciosa attesa. Nel frattempo sono anche più ecologico e uso l’iPhone, se questo è il parametro.
Torniamo alla mutanda: cos’è realmente?
È una Cagi. Le mutande che portavo allora. Le adoravo… tutto era a suo agio.
Ne sono lieto, ma a parte questo dettaglio che eviterei di approfondire, è la metafora di cosa? E torniamo quindi alla domanda: perché questa scelta?
Comincio a pensare che la motivazione, tua e mia, non coincida…
Dico la mia: non è la metafora di niente ma solo le mie mutande appese. Una mutanda che incorna, con quelle due mollette messe lì. Questa è l’unica concessione che posso fare. Potrebbero essere di chiunque e sarebbe comunque un fatto intimo. Credo che l’esposizione delle mutande sia più osé di un nudo quanto a svelare intimità. Il fatto che siano le mie rende l’immagine più intima. Ma la fotografia in sé non denuncia la proprietà dell’oggetto.
Per comunicarlo dovrei scrivere una nota, o intitolarla Le mie mutande. C’è del feticismo in ciò? Non lo so. Può anche darsi, ma saperlo e capirne le ragioni non mi riguarda.
All’occorrenza posso anche argomentare la fotografia che faccio, ma non le fotografie. Che non hanno bisogno di me. E anzi è meglio che mi stiano più alla larga possibile per la salute di entrambi. Creandole, ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità per renderle autonome. Il mio compito si esaurisce lì. I commenti e le spiegazioni… i messaggi ecc appartengono agli altri. Io non ho messaggi e tutto si esaurisce con un mi piace o no.
Visto che è qui, in bella cover, mi piace. E a te?
Certo che mi piace, diversamente non sarebbe appunto in bella cover. Ma aggiungo: è una fotografia tremula nella manifestazione ma forte nel segno, punk direi. E integralmente Polaroid.
Appesa. A cosa? Non il filo, che è davvero solo lo strumento percepibile, quanto quel poco di vuoto apparente che la circonda. Questa è la domanda. E poi…
Il bello di una fotografia, è che ognuno può vederci quello che vuole. Non ci sono risposte univoche. Alcune possono essere condivise, ma la coincidenza è impossibile. E si aprono porte inaspettate. Ma tutto questo non è affare che riguarda l’autore. Non lo può riguardare perché le singole fotografie sono solo lo strumento per l’affermazione di una propria idea di fotografia. E di questo, se ne può parlare. Mi è certamente più congeniale. Perché uso un’astrazione. Quello che condivido, l’unica cosa di ciò che dici, è che la domanda è più importante della risposta. Anche perché io non do risposte. Pongo solo domande.
Nel 1990 feci una personale nella più importante galleria fotografica italiana, e una delle più importanti d’Europa, Il Diaframma.
Si intitolava Ritratti. Ed era un lavoro col quale sostenevo la tesi dell’autoritratto, il self portait applicato a qualsiasi soggetto stessi ritraendo. Non sto a tediare… In più avevo scritto quattro righe intorno al tema della specializzazione in fotografia, che trovavo un fatto puramente utile per una collocazione, sia commerciale che critica, ma assolutamente inutile e anzi dannosa per il fotografo, quello che almeno intende davvero usare la fotografia come linguaggio: nulla è più deputato di altri a diventare soggetto.
Il soggetto è solo il pretesto per raccontare liberamente di sé.
A me sembrava ovvio, invece venni anche contestato per queste affermazioni.
Quasi immaginando certe reazioni, esposi anche un mio autoritratto in mutande, calzoni calati. Che adesso ti faccio vedere.

Efrem Raimondi, self portrait, 1990

C’era anche una didascalia, ed era l’unica fotografia esposta ad averla: Titolare dal 1963. O ’64, non ricordo cosa diavolo avevo scritto.
E faceva il verso a una campagna dell’American Express.
Solo che io mi sentivo titolare solo delle mie Cagi.
Come vedi, evidentemente certe immagini, solo alcune, hanno poi una maturazione. Questo per me è il senso di questa Polaroid: l’evoluzione sul tema delle mie mutande. Stop.
Questa è un’immagine che hai realmente esposto in una personale?
Sure! Te la faccio io una domanda… cos’è Isozero? La seguo da un paio di anni. Non saprei dirti neanche se c’è un motivo preciso. So che la compro con grande piacere.
Dove la trovi in Italia?
Non so dirti altrove, ma a Milano la trovo da Milano Libri, che è un po’ un luogo di culto e di souvenir giovanili per me… ho cominciato a frequentarla che avevo i pantaloni corti e una Pentax K1000…
E lì c’è un banco con una serie di riviste internazionali esposte.
La trovo lì.
La prossima volta che vengo a Milano mi porti.
Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia. Anzi dico meglio: che si occupa di linguaggio. Una rivista trasversale senza pudore che nasce per essere cartacea. La versione Web è solo di lancio, pillole gratuite del numero in uscita.
Noi amiamo la carta. E la crisi dell’editoria non ci riguarda. E poi…
Ti dico una cosa, scusa l’interruzione: se avessi soldi veri, o un editore complice, investirei sul cartaceo. Proprio adesso che ‘sto mondo annaspa. Tutti a dire e ridire ma non conosco un solo fotografo, un solo artista, un solo critico, una sola galleria, che non ami la carta.
Ma sai, per noi il feedback è positivo. Ma siamo in una nicchia.
Io amo le nicchie. Non credo ci sia, oggi, altro luogo per esprimersi compiutamente.
Vero. O almeno noi ci crediamo visto che è in questo ambito che ci muoviamo. Ma è complesso e i problemi aumentano proporzionalmente col passare del tempo. A volte da un numero all’altro. E noi siamo un trimestrale, con l’ambizione di diventare bimestrale. Ma finché c’è carta e stampa, c’è speranza. E noi tiriamo avanti. Molto coerentemente  con l’idea, la filosofia direi, che ci riguarda sin dal numero zero: noi non informiamo, non esprimiamo opinioni… noi esprimiamo giudizi. Prendiamo posizione. Diciamo e pubblichiamo ciò che ci riguarda… e ciò che vedi quando compri l’ultimo numero alla Milano Libri, coincide con ciò che siamo.
A volte sembriamo contraddittori, e forse lo siamo anche. Ma siamo vivi e ci disinteressiamo del marketing strategico: non inseguiamo bisogni che non conosciamo per piazzare un medium a due dollari.
Noi siamo soltanto noi. E ci siamo accorti che ci sono altri noi.
Questo è Isozero. Un trimestrale inesistente che costa 15 dollari.

Chiarissimo. Netto direi.
Te lo chiedo in ginocchio, mi chiedi cos’è il talento?
Ma hai bisogno che te lo chieda?
Grazie per la domanda Claude. Claude… come mai un nome francese?

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Continua…

P.S.   Questa rivista è mia. Guai a chi me la tocca.
This magazine is mine. Hands off, please.

UPDATE DEL 22 OTTOBRE

Un aggiornamento doveroso: da più parti mi giunge eco del fatto che non si riesce a trovare ISOZERO…
C’è chi mi ha scritto che non l’ha trovato neanche alla Milano Libri…
Ammetto che la cosa mi fa piacere, perché è una testimonianza di affetto.
E di fiducia.
Purtroppo malriposta nello specifico, perché ISOZERO è sì la rivista che vorrei, ma al momento non esiste.
Mi sembrava che sul finale Claude Fisher – non esiste neanche lui, almeno nei panni del mio intervistatore – lo dicesse chiaramente:

Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia.

Le cose stanno così. Mi scuso per l’equivoco.
E ho una vera, sincera simpatia per chi l’ha materialmente cercata.
Ciò non di meno, è la rivista che vorrei. E che, almeno a me, manca.

Dopo La fotografia non esiste… non esiste neanche ISOZERO.

UPDATE 26 FEBBRAIO 2020
In realtà un ISOZERO è nato: il mio laboratorio di fotografia, ISOZERO Lab.
Un percorso didattico che è proprio altro. Un po’ allineato con l’intervista. Ciao!

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…tra Parentesi, cosa ci faceva la Luisa sull’Atollo?

fondazione_castiglioni


Ricevo questo invito dalla Fondazione Achille Castiglioni… e qui lo giro immediatamente: per chi può, è da non perdere.
Franco Albini, Achille Castiglioni, Vico Magistretti: tre veri geni, due dei quali ho ritratto.
Con Achille Castiglioni ho anche direttamente collaborato per un suo progetto Cassina… avanti e indré dal suo studio: per me un onore.
E di questo, a breve, ne parlerò.
Perché certi meravigliosi incontri, segnano indelebilmente. E formano.
Appunto: …tra Parentesi, cosa ci faceva la Luisa sull’Atollo?
Sembra un passaggio bukowskiano.

Trussardi – Monografia mossa

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Se non si muove nulla, allora muoviti tu.
Se il movimento è incerto, allora sii deciso… corri.
Se la frenesia è altrui, allora stai fermo.
E tutto ciò per fare cosa?
Fotografia. Mossa.
Perché il mosso di cui parlo si fa quando si scatta.
Non dopo.
Che poi, diciamolo chiaro: si vede la differenza!
Ma perché mai si dovrebbe omologare una fotografia così?
Non ne ho idea. Né me la pongo.
Per questo all’occorrenza pratico.
E al Futurismo non ho mai pensato. Neanche per sbaglio.
Neanche la prima volta, che credo sia stato più o meno quando ho preso la fotocamera in mano.
Solo che appunto, poco dopo averla presa in mano ho passato i dieci anni successivi in banco ottico. Scorrazzando in lungo e in largo. Un grande amore. Di quelli per sempre.
Ogni tanto mi sono concesso un break.
E con la macchinetta in mano godevo del dinamismo ritrovato.
Quello realmente fisico.
È come passare dall’affresco e il trabattello, alla bomboletta e il fianco del metrò.
Ma non è mai stato un caso. Qualche volta un gesto isolato, vero, ma per essere davvero efficace e liberatorio serve un percorso.
Uno spazio ampio: argini alti che ne garantiscano il fluire e diano un ordine.
Perché altrimenti il mosso è solo un’ubriacatura… che poi passa e non ti rimane niente. Non ne ricordi nemmeno il motivo e fatichi a trovarne il senso.
Il mosso non è lo sfuocato, che non prevede alcuna dinamica: fermo lì a smanettare l’obiettivo e cambiare le sembianze, che accentuano  la matrice bidimensionale.
Il mosso è invece penetrazione della materia, sfondamento dello spazio, illusione percepibile di un volume.
Patteggiamento col tempo, che deformi a tuo piacimento.
Come un funambolo, così mi sento… appeso a un filo col baratro ovunque. Perché è un attimo finire di sotto. O di lato.
Attraversi il vuoto in uno stato di allucinazione, che è la condizione per raggiungere la sponda. E ritrovare la gravità. Quella che ti riguarda.

Questo lavoro è stato concepito così. Ne avevo bisogno.
Era morto da poco mio padre. Volevo spaccare il cielo.
Tutto questo a Nicola Trussardi non l’ho detto.
Anche se ne avevamo chiacchierato in due occasioni di questo progetto.
Né l’ho detto a Christoph Radl, suo il progetto grafico.
Non credo proprio potesse interessare. Erano solo fatti miei in fondo.
A entrambi loro, giustamente, interessava vedere cosa sarebbe emerso.
A fine settembre 1996 ho realizzato la prima parte, ci siamo visti, e a quel punto mi è stato chiesto di realizzare anche la parte che avrebbe riguardato l’inaugurazione di Palazzo Marino Alla Scala.
Questo lavoro, questo mosso, costituisce la struttura iconografica del libro Trussardi, Marino Alla Scala.
Ci sono altre immagini, di Mark Borthwick, Riccardo Bianchi, Santi Caleca, Massimo Montagnoli – caro amico scomparso prematuramente – e Mario Testino.
Ma la struttura, la cifra, appartiene a questo mosso.
Il cui soggetto è Milano.
Piaccia o meno, è proprio così.
Una monografia… Un libro. Che richiedeva esplicitamente uno sguardo.
Ricordo molto bene l’espressione di Nicola Trussardi quando guardava le stampe dell’intero lavoro: gliene sarò per sempre grato.
Questo non è un amarcord. Questo è un punto.

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Trussardi, Marino Alla Scala
118 pagine – Rilegato a spirale, 24 x 30 cm
Contenuto in scatola 28 x 32 cm
Progetto grafico Christoph Radl/R+W
Stampato da Nava Web
Milano, marzo 1997.

Le immagini qui pubblicate sono solo una selezione dell’intero lavoro.
Fotocamere Nikon FE e FE2
Obiettivi Nikkor: 20/3,5 – 50/1,8 – 105/2,5 in un’unica immagine.
Film: Agfapan 100 e 400 ISO

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L’Uno – Ohè sun chì

L’Uno – Ué son qui

Milano che giro in tram…
Mi metto in fondo, proprio all’altezza della salita posteriore e resto lì a guardare.
In piedi, spalle a tutti, faccia al finestrino centrale e mi riempio gli occhi di dettagli di vita che diversamente non coglierei.
È un po’ come spiare…
Tu guardi ma nessuno ti presta attenzione, nessuno si accorge di te.
Il tram passa e mi protegge.
Sferraglia, accelera e curva, frena e scuote la statica.
Sa che sono lì. Sa tutto e mi culla.
Un solo pensiero, leggero. Che rimane sul tram.
E che ritrovo quando risalgo.
Se non sei mai salito sull’1, non sai nulla di Milano.
Se non hai mai ascoltato Jannacci, non puoi capire Milano.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Ph. Paolo Jannacci

http://www.youtube.com/watch?v=Fd9-VfAecxU

 

 

 

 

L’Uno – Marzo 2013.
iPhonephotography.
Stampa inkjet su carta Fuji Satin 270 g/mq.
40×40 cm, libera e firmata sul retro.

Prima Visione, collettiva – Galleria Bel Vedere, Milano.
Questa la nona edizione.
La prima alla quale partecipo… invitato da Chiara Spat, photo editor della rivista Grazia e membro del GRIN.
COMUNICATO STAMPA.pdf

Aggiornamento 15 gennaio
É qui che mi metto…

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PREVIEW Milano

Scordiamoci SHOT. Per vari motivi qualcosa non ha funzionato.
Assieme a Milano Makers e con Cesare Castelli, Giacomo Giannini, Miro Zagnoli e il sottoscritto, nasce PREVIEW Milano.
Sempre nell’ambito di MI Generation, è un’iniziativa che riguarda gli under 30. Solo che si apre anche a una sezione parallela over 30.
Il soggetto è un tuo progetto fotografico, anche abbozzato, da presentare direttamente nei giorni 21 e 22 settembre. Cioè adesso. A Milano presso il Castello Sforzesco.
I dettagli si trovano qui:

PRESENTAZIONE

Una due giorni di confronto sul tema del linguaggio in fotografia.
E come ognuno di noi lo intende.

Questo il primo step. Poi, nel 2014, una verifica, quindi nel 2015 nell’ambito dell’EXPO una mostra dei lavori selezionati.

Spero ci si veda.

Per chi frequenta FB, cliccare questo logo.

AGGIORNAMENTO
La presentazione di 60″ in video è necessaria. E parte integrante del percorso di questo primo incontro.
A discrezione si può portare anche un portfolio di max 10 immagini, nel formato che si desidera, o in cartaceo o in digitale.
Stiamo parlando di un percorso, non di una galleria di immagini che tra loro non hanno relazione.
L’intento è un po’ quello di censire lo stato del linguaggio fotografico.
In questo, liberi tutti! Basta che ci riguardi davvero.
Può essere anche un accenno, una bozza di progetto. Un intento.
Fino allo step del 2014 non è vincolante. Da quel momento assolutamente sì.
La partecipazione è gratuita.

SHOT 13

Shot, in primis.
Poi 13, perché nasce adesso.
Ma sarà anche 14. E anche 15 per arrivare giusti all’EXPO.
Quindi Shot ci sarà. Magari in forma diversa, perché avremo modo di mettere a punto la macchina… di essere più circostanziati… di mirare meglio.
Abuso del plurale, in realtà qui ne parlo a titolo personale.
Ma sono uno dei promotori e la faccenda mi sta a cuore.
Mi si perdoni quindi la licenza temporanea.
Che poi, tra Comitato Promotore, Comitato Esecutivo e Autori che sovrintendono alla selezione del materiale in arrivo, c’è gente ben più qualificata di me.
Io faccio solo il fotografo.
Comunque, è da qui che si parte. Ed è più semplice di ciò che sembra: si chiede di partecipare a una sorta di censimento iconografico a chiunque l’immagine la mastica in età compresa tra i diciotto e i trenta.
E poi la sputa, senza necessariamente sapere dove.
Disperdendo a volte una cifra espressiva.
Se ne è parlato un paio di mesi fa, è così che è iniziata.
Interrogandosi su questa mole che il digitale ha prodotto.
Fregandosene di archetipi e memoria storica, spesso alibi per fare zero, che statici è bello, in Italia soprattutto.
A ben vedere, è anche vero che abbiamo una memoria iconografica ficcata nel DNA, solo che sono in pochi a usarla.
Anche perché è una rendita selettiva e benedice dove le pare, quasi random su soggetti predisposti. Mica sull’intera popolazione italiana, così, di default. E la predisposizione si attiva se sollecitata dal dubbio, mica dalle certezze dei nostri predecessori.
E davvero molto è cambiato col digitale. Ma non si tratta di disquisire sul processo. Non adesso.
Ho l’abitudine di riflettere su ciò che vedo. Talvolta di riflettermi.
Penso al prodotto, all’immagine. Non al produttore e al titolo che vanta; non al contenitore, non al luogo, non all’allure eventuale di entrambi.
E me ne frego del mezzo, dello strumento. Questo da sempre, dal mio primo vagito analogico.
Per tutto questo son qui. Perché ho voglia di interrogarmi in un ambito ordinato e su un tema: what’s my name.
Perché guardare è una delle misure del vedere.
Grazie a Milano Makers, che è tra i promotori, SHOT 13 si è inserito nel contesto di
MI Generation. Cioè patrocinio del Comune di Milano.
Mica per una questione di agganci ma per vivo interesse nei confronti di questo percorso. Che sappiamo come nasce ma non precisamente dove porta.
È un work in progress. Che per questo primo anno avrà come sede finale il Castello Sforzesco, con una mostra dal 21 al 23 settembre.
Più conferenze, reading e altro annesso.
Non sono vago, è che è davvero un tourbillon e alcune cose sono in fase di definizione.
L’invito è quindi a inviare immagini e video a questo indirizzo e-mail: shot@shot13.it
Quanto alle specifiche copio/incollo quanto indicato sulla pagina FB di SHOT13, precisamente qui: https://www.facebook.com/shot13.it/info

Come partecipare.
Inviando all’indirizzo shot@shot13.it max 5 immagini, in formato jpg.
Il peso complessivo dell’e mail non deve superare i 10 MB.
Ogni immagine dovrà essere denominata come segue:
NOME_COGNOME_1.jpg
NOME_COGNOME_2.jpg
E così via.
Per i video va inviato ESCLUSIVAMENTE il LINK di pubblicazione, sia esso su you tube, vimeo o qualsiasi altra piattaforma. Esclusi corti e lungometraggi. 


Il titolo è, appunto, l’identità. Modulata come pare.
Cinque immagini massimo… cioè anche una. Ma io sfrutterei la cinquina.
Perché definisce un percorso, una chiara intenzione di arbitrio.
Che è il vero elemento distintivo del linguaggio. Ciò che ne permette l’evoluzione.
Ci sarà a breve anche un sito, http://www.shot13.it/  al momento in costruzione.
Adesso però bisogna correre. Priorità alle immagini. Inviare, please.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Questo il documento di presentazione:

PDF SHOT13

Instant Movie N.1

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

 

Una mostra da vedere assolutamente, ABSENCE OF SUBJECT.
Milano, Fondazione Stelline, Corso Magenta civico 61. Inaugurata il 31 gennaio e visitabile fino al 7 aprile 2013. Esposte le celebri opere di August Sander e a fronte, proprio sulla parete opposta, le rielaborazioni di Michael Somoroff. Un lavoro, quello di Somoroff, di sottrazione del soggetto. Restituendoci il luogo del lavoro di Sander, la location direbbero oggi molti, intatta. Non sappiamo se prima o dopo il passaggio dei soggetti sanderiani.
Un incredibile lavoro possibile solo grazie al digitale. A una applicazione acutissima, feroce, dei software a disposizione. In qualche caso ricostruendo completamente l’intera scena. Ma non si tratta di un mero lavoro concettuale… quello che ci viene restituito ha vita autonoma. E alcune immagini sono di una bellezza straordinaria. Diventando a loro volta soggetto. Almeno io la vedo così.

August Sander – Michael Somoroff. All rights reserved.

Al piano di sotto ci sono sei video. Altra intensa interpretazione da parte di Somoroff… un omaggio forte e toccante all’opera di Sander.
Qui io non ho saputo resistere… e con l’iPhone mi sono concentrato s’una porzione di luce e buio. So mica se lecito o no. Intanto è qui. E poi non è una riproduzione… ma una porzione di emozione che mi sono messo in tasca.
Che poi ho manipolato. Strapazzando un po’ tutto,  anche Ry Cooder.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Nota: video in iPhone 4s

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