Ritratto e parole

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Ritratto. Chissà cos’è…
E siccome non ne ho la più pallida idea, lo faccio senza pensarci troppo.
Questo durante, mentre ritraggo.

Cioè fotografo.
C’è invece un ambito preciso per la riflessione.
Un ambito temporale: prima e dopo.

Questo vale anche per tutta la fotografia che affrontiamo.

Leggo qua e là una moltitudine di parole intorno al ritratto.
Che dovrebbero qualificare l’intento, la spinta espressiva.
E rendere giustizia all’immagine restituita che altrimenti, pare, vagherebbe per l’etere senza identità alcuna.
Anche in ambito didattico.
Soprattutto in ambito didattico… originale – psicologico – emozionante – oltre le regole (quali?) – empatia – feeling – forte – disincantato – approcciante – contemporaneo – riflessivo – terapeutico – creativo e mi fermo qui.

C’è anche complesso. Ma ho l’impressione che in realtà si debba leggere come difficile.
Qualcuno lo so, aggiungerebbe volentieri gagliardo…

 Questo vale anche per tutta la fotografia che affrontiamo.

Manca una sola parola, un aggettivo fondamentale: semplice.
E questa è la sua vera complessità.

Visto che vale anche per tutta la fotografia che affrontiamo, o con la quale ci relazioniamo, mi viene da chiedere: ma in cosa si distingue allora il ritratto?
In niente.
E allora per essere davvero espressione dell’autore, esattamente come per qualsiasi altro ambito, come lo si affronta?

Esattamente come altrove: facendo fotografia tout court, saltando i condizionamenti di genere.
Non c’è alcuna differenza.
Esistono, vero, alcune specifiche.

Puramente tecniche. Nulla di personale quindi.
Ma come ovunque si usi il linguaggio, sono manipolabili.
E questo sì è personale.
Se le conosciamo, non ci costringono.
Se non le conosciamo siamo fottuti. E nell’etere ci finiamo noi.

Quando ho visto la mostra di Robert Frank alla galleria Forma Meravigli, ho pensato che sarebbe stato ideale occupare lo spazio e fare una vera lezione sull’esposizione.
Perché quella fotografia, a leggerla davvero, dichiarava inequivocabilmente l’idea che della luce, della sua traduzione, Frank aveva.
E ne disponeva a piacimento.
Senza mediazione. Senza equivoco. Senza tentennamenti.
Diversamente, ci avrebbe restituito altro.
Diversamente, restituiremmo altro.
E questa sì è una lezione. Questa sì è una regola.
E ci si mette due ore a trovare il bandolo della matassa: due ore appena per cominciare a orientarsi.
Poi te la giochi.

Altro che la Regola dei Terzi!
Prima di aprire il mio account Facebook nel 2010, non sapevo neanche cos’era la Regola dei Terzi. Giuro.
Non ero preoccupato. Solo incuriosito da certa veemenza social intorno a un margine che non delimita nulla di sostanziale.
Questo non è l’elogio dell’ignoranza… solo delle priorità.
E della sostanza che delinea concretamente un percorso, una visione.

Due cose per chiudere: la regola dei terzi la ignoro tutt’ora e il ritratto è affrontabile senza alcuna isteria. O pregiudizio.
Ma anche nei workshop e in qualunque altra sede, sul ritratto, ma cosa raccontiamo?

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Robert Frank – GLI AMERICANI, exhibition

 

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedSi scrive e si legge Frank. Non Frenk…
Perché il fanciullo, novantaduenne, è svizzero di Zurigo.
E forse anche per questo all’inizio non è che THE AMERICANS sia stato tanto amato dai medesimi… che in fondo lo sappiamo, gli americani di primo acchito non amano molto lo sguardo degli altri su sé stessi.
Poi però ci ripensano, e con tempi non galileiani in genere.
A quel punto è amore. Per sempre.
E così diventi Frenk.

Questa alla galleria FORMA MERAVIGLI è una mostra potente, non eludibile: 83 fotografie vintage… alias stampa ai sali d’argento… quella bella baritata che schiocca al tocco, e il nero è nero, il bianco bianco, con in mezzo i grigi che riempiono e danno volume.
Ed è una mostra talmente baritata che anche ferma e sotto vetro, anche a tre metri si sente lo schiocco.
E si vede.
C’è da riempirsi gli occhi… tutta la testa. Il cuore. L’anima.

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Di fronte  alla copia slegata e stesa

Qua e là ci sono anche alcune sue riflessioni. Che valicano questo percorso e riguardano proprio l’idea di Fotografia che lo riguarda.
E coincidono con la Fotografia che produce.
Una direttamente da una copia originale della rivista Camera del 1959:
La produzione massificata di un fotogiornalismo privo di ispirazione e di una fotografia priva di pensiero diventa merce anonima.
L’aria si ammorba della “puzza” di fotografia
[] Non sono un pessimista, ma se guardo una rivista illustrata oggi trovo difficile parlare di un progresso della fotografia, perché la fotografia oggi viene accettata senza domande, e si ritiene che sia compresa da chiunque, persino dai bambini. Credo che solo l’integrità individuale del fotografo possa innalzarne il livello.

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In una bacheca le varie edizioni del libro, a partire dalla primissima francese
LES AMÉRICAINS del 1958.

Quello che non sapevo è che la seconda, del 1959, è italiana:
GLI AMERICANI, Milano, Il Saggiatore.

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Io ho la mia edizione. Da molti anni.
Ma vedere l’intero lavoro appeso, scorrerlo fisicamente…respirarlo: andare oltre e ritornare, fisso nel nero… perso nel gesto sospeso che si allunga, si allunga, si allunga e ti prende lo stomaco.
Tu le guardi e sei lì.
Esattamente lì sull’East River del ’54… a San Francisco nel ’56… nello sguardo di un testimone del ’55 che non c’è più tu ti rifletti, e vedi Robert Frank, lo vedi proprio: sei fuori dal tempo, sei dentro lo spazio infinito, fluido, che non certifica alcun istante e sfigura la Storia.
Come fottere il destino.
Questo ciò che c’è in mostra.
E se non la vedi puoi comunque crederci, ma se la vedi, se la vedi…

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© Efrem Raimondi - All Rights ReservedGLI AMERICANI – ROBERT FRANK
Fondazione Forma per la Fotografia – Maison Européenne de la Photographie, Parigi
Galleria FORMA MERAVIGLI

via Mervigli 5 – Milano
Fino al 19 febbraio 2017

Ufficio stampa, Laura Bianconi
stampa@formafoto.it
335 7854609

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Nota: tutte le immagini in iPhone 6.

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Baritate che ti saltano addosso…

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Street Photography a chi?

Street Photography…
Di quando eravamo ignoranti.
 Per strada.
E non sapevamo che stessimo facendo Street Photography.
Quanto eravamo ignoranti…

Ci consola, un po’, il fatto che non lo sapevano neanche i Robert Frank, i Cartier Bresson, i Weegee – più strada della sua! – e tutta quella compagnia lì, randagia, zingara e precisa come il bisturi di un chirurgo. Intenta a fare Fotografia.
Incluso Eugène Atget, al quale Wikepedia mi pare, attribuisce la paternità. Della Street Photography. Amen.

Non m’interessa occuparmi delle denominazioni. Non in questo caso.
Non m’interessa quando la motivazione è formale e il neologismo sembra mosso dalla necessità di puntualizzare una distanza artificiale.
Frutto di un intellettualismo puerile, scolastico.
Frutto di un’esigenza commerciale.
Dettata da un mercato, quello dell’arte finanziata – spesso non coincidente con quello dell’Arte – che ha la necessità di sdoganare i prodotti di un’epoca fastidiosa e inattuale: quella della carta stampata.
Quando tutta questa fotografia si chiamava reportage.
E per quanto nobile sia il prodotto, la denominazione soffre dell’equivoco che la vorrebbe dedita alla documentazione.
In questo subordinata ad altre esigenze, più cognitive che espressive.
Una fotografia utile e basta.

Personalmente sono affascinato dall’inutilità delle cose.
Un po’ come dell’inutilità dell’uomo e del suo instancabile produrre.
Questo come postulato. Ideologico direi.
Poi, immischiandomi un po’: ma chi l’ha detto che Caravaggio è inutile?
Sì certo, forse per qualche ministro di questa repubblica…
E sporcandomi un po’ entro nel dettaglio per dire che l’utilità in Fotografia non è mai la discriminante.
Non lo è neanche la sua collocazione di genere.
Lo è solo la sua potenza espressiva. Indipendemente da ciò che rappresenta.
Da ciò che arbitrariamente impone.
E tu autore, chiunque tu sia, possiedi l’arbitrio per fottertene di qualsiasi denominazione?
Non si tratta di esporre. Si tratta di imporre.
La differenza tra esprimersi e emulare.
La differenza tra l’usare un linguaggio e farne la parodìa.
Questa è l’unica cosa della quale dovremmo preoccuparci.
E magari capire che la cosiddetta posa, cioè la percezione inequivocabile che il soggetto ha di noi, lì per lui che lo stiamo mirando, non rende la fotografia borghese.
O come ho sentito recentemente classica – magari! Provaci tu a diventare un classico!
Mentre se non si capisce un cazzo e tutto viene preso a randellate di flash allora è underground.
Quando stiamo fotografando, in quel momento lì, tutto il mondo è in posa per noi.
E ci tiene a una restituzione degna di una rappresentazione.
Se così non fosse non avremmo uno straccio di fotografia.

Le due fotografie sotto, realizzate con una Tri-X tirata a 800 ASA sono del febbraio 1982 e febbraio 1983, quando consapevolmente ingenuo girovagavo accompagnato spesso da una fotocamera 35 millimetri.
È stato un periodo utile al fine del ritratto che cominciavo a immaginare e che da lì a poco ho affrontato.
In banco ottico.
Ero timido con le persone. E l’idea di piantar loro addosso un obiettivo mi terrorizzava.
Ma la figura umana volevo affrontarla.
Il ritratto volevo affrontarlo.
Stare per strada, o comunque in luogo pubblico, è stata una palestra.
Uscivo con due ottiche: un 20 e un 35 mm.
Perché mi costringevano ad avvicinarmi.
A sentirla proprio la persona. Percepirne la fisicità.
A volte con la fotocamera puntata partivo da un po’ lontano e mi avvicinavo.
Dritto come un tram alla sua fermata.
Era fondamentale che mi vedesse distintamente.
Nessun equivoco: ce l’avevo con lui.
Lui il soggetto, lui al centro della scena, lui che  a quel punto mi distingueva bene.

Non scattavo finché non ero sufficientemente vicino.
E col suo sguardo in macchina gli dicevo: La sto fotografando… sia gentile, mi guardi, mi guardi bene.

Scattavo solo quando avevo la consapevolezza che non stessi facendo uno scatto.
Ma che avevo davvero qualcosa di simile a una fotografia. A quello che pensavo fosse una fotografia.
Che è anche la storia di una relazione.
A volte non dicevo assolutamente nulla.
Ma alla fine due chiacchiere si facevano sempre.
In assoluto non è così importante. Relativamente al percorso che stavo impostando, alla mia palestra di strada, lo era.
Comunque sia, i fotografi non rubano niente. Semmai ammazzano.

©Efrem Raimondi, 1982 - All Rights Reserved

©Efrem Raimondi, 1983 - All Rights Reserved

Mi resta solo un rammarico.
Del signore ritratto in treno, che mi guarda così, non ho saputo più niente.
Com’è nell’ordine delle cose.
E se non avessi scartabellato nel mio archivio, giusto per vedere cosa combinavo un po’ di tempo fa per strada, non avrei neanche la sua fotografia.
A questa ci tengo.
E ce l’ho.
Matrice solida.

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