Il manichino di nome Alias non è diverso da me di nome Efrem.
Non lo è da te di nome Francesca, Elisabeth, Antonio… Teodoro detto Teo.
Qualsiasi nome che implementa l’appello umano va bene.
Diverge invece la relazione che Alias e io abbiamo rispetto alla coppia Alias-Francesca, Alias-Elisabeth eccetera.
E questo è ciò che costituisce la struttura di un ritratto.
Di tutta la fotografia a reti unificate ma col ritratto… col ritratto è dura da digerire.
E c’è chi ricorre all’anima delimortaccitua pur di evitare la propria.
E i propri fantasmi. Che son mica sempre cupi, sanno ridere.
Anche di te. Di me.
Quindi per favore non deleghiamo a altri ciò che ci riguarda quando fotografiamo: se c’è un’anima è dell’autore. Ed è quella che cogliamo.
Col resto funziona, perché col ritratto non dovrebbe?
Perché ricorrere a degli archetipi così semplicistici?
Crediamo davvero che Alias sia poi così diverso sul piano fotografico da qualsiasi altro umano piazzato davanti alla nostra fotocamera?
Davanti a noi?
Tutto ciò che ho fatto per comporre questa fotografia è nella sostanza ciò che farei con una persona.
Con Alias ho provveduto io a metterlo lì.
Con Alias, a Alias, ho impostato io le braccia. Le mani.
Con Alias la parola era superflua. Del tutto inutile non direi…
La differenza con una persona è che invece la parola è certamente utile.
E se la usi le conseguenze sono immediate: la persona si mette lì dove hai detto;
le braccia le alza come hai chiesto e le mani le avrà in testa come hai suggerito.
Funziona così.
Altrimenti zero fotografia.
Poi c’è l’imponderabile: la risposta selezionata per te, per quel momento, dal soggetto.
E tu cosa sei lì a fare? Coglila! Modulala!
Non è mai la stessa cosa.
E prima che tu scattassi, la realtà che adesso mostri non c’era.
Esattamente come con Alias.
Mi sono avvicinato in tre step.
Lui fermo.
Fino al primissimo piano. Per scoprire che l’immagine riflessa é la mia.
Non così nitida come allo specchio.
Un’immagine latente.
Un’ombra determinante.
Alias ci saprà dire se ingombrante.
Comunque, nel caso, è un problema suo.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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Hai fotografato anche un orsacchiotto di peluche, di spalle in uno spazio. L’esito del ritratto è ciò che comunica a chi lo osserva. Per me aver pensato ad un manichino con una testa-specchio dove c’è riflessa la “sagoma”di un corpo che sceglie di scattare è una grande novità. Il manichino con la testa di vetro è “permeabile “ad altre immagini, si lascia “contaminare “,non ha parole per dircelo ma sicuramente è così. Il filo rosso è il “muro”eretto per la difesa da ogni contaminazione. Ma anche con muri o filo spinato la contaminazione si verifica comunque
sempre! se non ti ossidi, se non ti contamini, fine delle trasmissioni Mariapucadir.
l’orsacchiotto – che ho battezzato Ozzy – si è fatto un bel tour co me. e io con lui. un redazionale di una decina di pagine per INTERNI magazine.
adesso sta tranquillamente a casa mia. che è anche la sua.
Incondizionatamente il tuo pensiero, riflessioni le trovo superbe. Grazie Efrem
pensa che non ho alcun merito: faccio una fotografia, la guardo, e zac! eccomi qui :)
grazie Damiano
Fotografare un manichino.
L’espediente non è insolito in pittura, De Chirico lo elegge a personaggio chiave dei suoi dipinti surreali, e poi Magritte, Dalì……..
Ceci n’est pas une pipe, e anche Alias non è un manichino………
però Alias è un manichino :) o no vilma?
direi che la fotografia di Alias non è un manichino… o no 2?
E’ proprio così, la fotografia di Alias non è un manichino, così come la rappresentazione della realtà non è la realtà che, sempre e comunque, è una sur-realtà, diversa per ciascuno di noi. E l’immagine riflessa è sempre la nostra, anche quando la luna nel pozzo ci inganna e vorrebbe farci credere il contrario.
Buone feste!
è proprio così anch’io vilma. buone feste anche a te, che siano serene l’auspicio.
Dimmi Efrem come puoi assimilare il ritratto a una persona, a un essere umano, a una fotografia a un manichino? Non credi ci sia una incongruenza oggettiva?
il punto Gianpaolo, è che comunque c’è sempre la mia immagine riflessa. quindi per me la questione non cambia.
non assimilo Alias a Francesca. assimilo il processo fotografico.
È quindi necessario non allontanarsi da sé nel ritratto, perché il soggetto coincide sempre con l’autore, è corretto?
Comunque se al posto di Alias ci fosse stato un umano e avesse recepito un’anima delimortaccisua non oso pensare dove avrebbe posato le mano :D
Un carissimo abbraccio Efrem, Piero.
esattamente come con qualsiasi altro percorso. cosa muta nel ritratto? quale condizionamento?
se Alias o chiunque altro avesse posato la mano ovunque non prevedibile, io avrei scattato.
ciao Piero!
Forte la sequenza! Secondo me è una delle migliori riflessioni sul ritratto fotografico: Alias dovrebbe essere contento.
vediamo cosa ne pensa Alias. sempre che ci onori del suo pensiero.
la sequenza è un ottimo metodo di approccio. a volte, mica sempre.
l’anima de li mortacci – quella sì che è talvolta ingombrante…e sì, andrebbe scansata, messa un po’ da parte, vederci-vedersi meglio.
sì laura, perché poi ‘sta storia dell’anima, di chiunque sia, è un po’ ingombrante. forse se ci occupassimo solo della nostra…
Buongiorno Efrem è sempre un piacere leggerti, grazie.
Nel primissimo piano noto anche un volto, chino, la bocca accenna una smorfia, come se i ritratti fossero tre.
Un caro saluto,
Stefano.
buongiorno Stefano. un’immagine così latente lascia ampi margini di visione. in fondo intercettiamo ciò che ci riguarda. sempre. un caro saluto a te
Geniale as usual
grazie Federica