C’è sempre più cielo di quello che vedi.
E se anche sei abituato al tuo, ritagliato con geometrica precisione sulla testa, ce n’è un altro a un millimetro.
Ed è lo stesso di quello d’Australia.
Il cielo non ha confini… varia la propria rappresentazione a seconda di dove si trova… senza mai perdere la propria identità.
Quasi fosse una divinità.
Questo cielo non è di nessuno.
Impalpabile… incolmabile… inguardabile.
Se chiudi gli occhi lo puoi sentire.
Poi…
Poi c’è il cielo che c’è.
Quello che appartiene al tuo sguardo.
E questo è solo tuo.
Un cielo che puoi usare come fosse un fondale, come un contenitore, come spazio umorale cangiante.
Come voliera di un aquilone senza più filo, senza più un polso che lo trattiene.
Ma che fine fanno gli aquiloni che scappano?
E poi c’è il mio cielo di Milano.
Che adesso vedo anche da lontano.
Non è lo stesso delle nebbie infantili e del Duomo nero, quando proprio il cielo non c’era.
Sto camminando e me lo godo.
Vedo cavi che lo tirano da tutte le parti, e croci d’acciaio: un groviglio che non so descrivere.
Ma che so fotografare.
Una fotografia. Una sola. A me basta.
Parafrasando Hrabal, c’è più cielo negli occhi di un topolino che sopra le nostre teste.
Buon anno! Che sia sereno.
J’embrasse fort les amis parisiens…
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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C’è una certa reticenza nell’utilizzo del colore in architettura, anche quando si tratta di fotografia dell’architettura. Sarà perché spesso già i materiali costruttivi forniscono una gamma cromatica piuttosto vasta, molte tonalità nella pietra, i colori delle terre nei conglomerati, le venature dei legni….. non aggiungere alcun colore artificiale sembra una scelta di eleganza e di ‘verità’. Dimenticando che il Partenone e le sue sculture erano dipinti in rosso, giallo, nero, da Pompei deriva il famoso rosso pompeiano, la facciata di San Pietro era quadricroma, colorata l’antica urbs picta medioevale……. poi la ‘progettazione cromatica’ è stata sacrificata all’intangibilità della forma (architettonica) intesa come pura astrazione.
Scrive Bernard Tschumi, “Il corpo è sempre stato sospetto in architettura: perché ha posto i propri limiti alle ambizioni architettoniche più estreme. Disturba la purezza dell’ordine architettonico”: se disturba il corpo, al quale l’architettura è pur sempre destinata, figuriamoci il cielo.
E infatti le foto di architettura spesso propongono edifici deserti contro cieli sbiaditi.
Una sorta di sublimazione dell’immagine depurata di ogni sensualità, forse un retaggio del concettualismo degli anni ’60 o i resti dell’incondizionata ammirazione che abbiamo nutrito in quegli anni per il minimalismo nordico, il famoso ‘stile svedese’ dal quale non potevamo né dovevamo imparare nulla, almeno in italia.
@Vilma – il rischio è di finire tra i banconi dell’ikea…
ci sono due tipi di fotografia che riguardano l’architettura: quella destinata alla documentazione, e quella che no. gli architetti farebbero bene a occuparsi meglio di quanto facciano della prima e lasciar perdere la seconda. che riguarda lo sguardo di un altro autore. ma poi chissà…
@ vilma: infatti si trattava di un comportamento codificato sulla base di una tradizione percettiva – per la serie, guai a creare interferenze, atteniamoci al canone.
@Laura – cielo e architettura, un confronto ineludibile tra la natura e l’uomo, il quale antropizzando la terra, lotta da sempre per imporre il suo primato. Se poi fa l’architetto non può non arrogarsi il merito di aver permesso al primo uomo di ‘abitare’ e quindi di ‘possedere’ (habere) l’ambiente e colonizzarlo, permettendo di fatto l’evolversi della storia. Infatti, che mondo sarebbe senza architettura?
http://www.artonweb.it/architettura/articolo19.html
Il cielo, metafora dello spazio, accoglie l’architettura, la quale può venire molto influenzata dal cielo sopra di lei: un cielo tempestoso enfatizza un’architettura espressionista come può essere quella decostruzionista di Gehry, o in passato, quella barocca di Borromini, un cielo piatto e sgombro asseconda la razionale immobilità dell’architettura di Le Corbusier e così via.
Personalmete, un cielo ingombrante, tempestoso, nuvoloso, mi disturba e mi distrae, specie se parliamo di architettura moderna, per la quale l’immagine è fondamentale (Herzog parla di ‘Immagini d’architettura-Architettura d’immagini) ed ogni dettaglio visivo diventa importante: la fotografia è per eccellenza l’immagine dell’architettura, più delle tavole di progetto, più del rendering ecc. ed è il luogo in cui cielo e terra si possono confrontare nel modo scelto dall’architetto e dal fotografo, il cielo cambia, l’architettura no, basta aspettare e scegliere il momento giusto.
Tornando a Laura, un cielo troppo blu può marcatamente influenzare la percezione dell’architettura, fra l’altro il blu non fa parte del nostro immaginario cromatico mediterraneo (pur essendo un colore primario, greci e romani poco lo amarono), la tradizione occidentale lo sostituisce spesso con il verde o il viola, anche se ad un certo punto viene introdotto nell’arte come il colore del mantello della madonna. Penso quindi che sia possibile che l’invito ad evitare i cieli troppo blu abbia radici culturali molto antiche delle quali abbiamo perso il ricordo.
A me, comunque, il blu non piace.
@Vilma – i greci manco lo denominavano il blu… forse non lo riconoscevono nemmeno. però più banalmente credo che il blu, quel bel blu che sfonda, semplicemente ricorda troppo i cieli di california e la fisicità americana… tutto un po’ troppo pop. certo che riguarda un diverso intendimento estetico, nel suo insieme, però…
sole e sudore sono evitati dall’immaginario iconografico degli architetti europei… mi sa.
Ricordo distintamente una richiesta nell’ambito dell’editoria di architettura: bisognava evitare i cieli troppo blu. Venivano fatti schiarire in fotolito; il cielo doveva sparire.
vabbè, visto che non lo fa nessuno, cito io:” Quel cielo di Lombardia, così bello quand’ è bello, così splendido, così in pace” (Manzoni Alessandro da Milano, ‘I Promessi Sposi’ Capitolo XVII).
Niente nuvolette, sfumature ed effetti in technicolor, fatti i debiti distinguo, mi sembra che Alessandro fotografi lo stesso cielo.
@Vilma – sul manzoni, qui da me, sfondi una porta aperta. per i promessi sposi, spalancata!
grazie per la citazione. ma proprio grazie.
così in pace… è esattamente così
E poi, Efrem, a un certo punto il singolare non basta più. E dici “i cieli”. Moltitudine. Plurale. I cieli del mondo e d’Australia (come dici tu), i cieli di ognuno. I cieli dipinti, narrati, recitati. E quelli ricordati o maledetti; i cieli dimenticati e quelli affondati nelle nebbie. I cieli disegnati dalle nuvole, dal passaggio degli stormi, dal fumo delle ciminiere … Un’infinità, di cieli. Non so, ma se per caso capita di respirare (o fotografare) anche solo una briciola di uno di questi cieli, a me sembra che sia un po’ come respirare (o fotografare) una scaglia di infinito.
@enrico – già… rende perfettamente l’idea
i cieli, uno per tutti e tutti per uno. ognuno di noi ha il suo cielo e questo che hai fotografato, leggendo l’ultima frase, mi riporta ai grovigli dell’anima, ai grovigli dei nostri pensieri, turbamenti, i cavi che lo tirano, le croci d’acciao, un messaggio…intenso e introspettivo.
Buon Anno Efrem, si che sia sereno…e anche il cielo
@lubi – fotograficamente ognuno ha il suo palcoscenico bello steso davanti… buon anno!
Un cielo che incombe sí direbbe: bellissima! Ma agita, inquieta
@Diletta – se incombe in effetti inquieta. un po’ forse sì
queli ‘tuo’ cielo è proprio tuo, nel senso strettamente letterale di quell’aggettivo possessivo, è quello che costruisci nella tua foto, un cielo che non esisterebbe senza quel groviglio di acciaio che lo rende unico, sarebbe un foglio grigio uniforme, senza identità…..
@Valeria – ce l’ha, ce l’ha un’identità… e poi è duttile come pochi altri