Tu sei lì.
Io qui…
Una distanza ponderata.
Una distanza necessaria.
Stesso tempo, stesso spazio.
Stesso niente…
Vediamo orizzonti diversi: il tuo si ferma alla mia fotocamera, più che una linea un punto.
Il mio non ha traguardo.
E quando ti guardo, non ha ancora una forma.
Aspetto te.
Aspetto un gesto.
Un segno minimo estraneo a questo tempo.
Che dia forma al mio spazio.
E tu sei il centro.
Ti sembro distratto?
Mi vedi girato?
Tu resti il centro.
Basta l’ombra, basta l’accenno di un gesto interrotto.
Ti sembra irripetibile in questo tempo che ci riguarda?
Ma io mi ci aggrappo.
E gli do la forma che questo spazio non comprendeva prima di noi.
Tu sei lì.
Io da qui non mi muovo.
Io non penso.
Ma stavolta scatto.
Come si fa un ritratto?
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Alessandro Zanardi – Milano, 2007 – Studi Mondadori
Questo articolo l’ho già pubblicato nel 2014.
In vista dei prossimi appuntamenti pubblici, workshop e lectio, lo ripubblico.
Perché ci sono questioni, intorno alla fotografia, che ritengo sostanziali.
Certamente sbagliandomi.
Non c’è nulla di male nel non volersi occupare del ritratto, ma se proprio ce ne facciamo carico va detto che non può essere preso come un esercizio stilistico.
E sia come viene…
Sia come al momento capita…
Sia in balia del circostante. Del soggetto soprattutto.
Se così, non se ne esce. E non si restituisce nulla che sia poco più che formale.
Una pratica notarile a volte.
E non c’è software che presti soccorso.
Il rischio maggiore è la staticità. Che non riguarda l’immobilità del soggetto e i fraintendimenti sul posato: ci sono posati più dinamici di una corsa campestre!
Il ritratto riguarda l’interezza della persona.
Della quale ci occupiamo magari solo attraverso un dettaglio.
Spesso il più marginale… quello che non si pondera a priori.
Ma succede che proprio la marginalità diventi soggetto.
Cifra esplicita bastante a sé stessa.
E a tutto quanto.
Il soggetto di una fotografia è la fotografia stessa in tutta la sua interezza.
Per come la restituisci.
Per tutto il perimetro che la delimita.
Perché sì… e non c’è un altro perché.
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Non pensato, non costruito …… non ho difficoltà ad accettare che tu, Efrem, fotografi senza pensare, il non-pensiero non vuol dire non pensare a niente, anzi vuol dire accogliere tutto senza porsi esclusioni né discrimini in uno stato di grazia e di coscienza senza tempo.
Vorrei comunque precisare che posato non è un’offesa, rubato o predato non è un complimento, solo volevo riconoscere ad Avedon la capacità di conciliare la predazione, atto di esproprio non autorizzato, con il posato, dove il soggetto è consapevole protagonista (ci ha messo 5 anni per realizzare il suo “In the American West”, più posato di così!).
Ma quella sequenza di facce non ti sembra un inquietante allineamento di trofei? quelle implacabili immagini frontali di sconosciuti su anonimi sfondi bianchi non documentano la crudeltà di un cacciatore compiaciuto per il suo bottino di morte? e allora, Avedon non è un predatore? pure spietato, direi, nel modo in cui ‘mette in posa’ una folla di inconsapevoli antieroi impacciati, straccioni, vagabondi, l’armata brancaleone degli ultimi in ritratti pomposamente ‘posati’ con cinica strumentalizzazione.
Ci gioca? Indubbiamente, ma è il padrone del gioco.
ma guarda vilma, lo sai, che io amo il posato. lo ideologizzo addirittura.
forse si tratta di intendersi… ma la figura del predatore non la vedo. nel senso che non vedo prede.
è la fotografia che semmai ammazza il tempo. quel tempo preciso lì. che non tornerà mai più.
ma in genere il soggetto cessa di essere tale e prosegue per la sua vita.
Vilma, la ringrazio :)
Laura, il ‘predatorio’ si avverte a mio parere soprattutto nel testo di Efrem, l’esito visivo è ‘solo’ un ritratto, posato o istantaneo o altro, e anch’io, come Efrem, “non vedo la differenza”.
Se le leggi proprie del posato sono un artificio, le parole di Avedon (che personalmente continuo ad adorare al di là di ogni datazione) confermano che l’aspetto ‘predatorio’, volendo continuare ad usare questo termine un po’ sinistro, non confligge con un posato rigorosamente pensato, costruito e controllato, il che giustificherebbe la mia interpretazione che peraltro Efrem smentisce.
Ma se ciò che conta è “la percezione che restituisci”, non c’è nessuna delusione, Efrem, decido io cosa mi dice quel ritratto, trovando le risposte, come sempre, dentro di me.
PS: apprezzo Avedon perché è un fotografo del ‘900 che ha espresso la sua visione di un mondo del ‘900 con coerenza, passione e talvolta distacco. A me questo basta.
però vilma, solo per confermare una questione che mi riguarda… il ritratto per me è fotografia. e quando fotografo non penso. dico davvero… non penso.
quindi il ritratto non è pensato, non costruito. sì controllato. potrei dire nel dettaglio cosa succede, almeno a me. e ci tornerò. giuro dettagliatamente.
avedon, che come sai amo, ho l’impressione che affermi un po’ con la strafottenza di chi sa di poter decidere con assoluta immediatezza cosa fare di un percorso. e di una persona. e un po’ la fa scontare a chi invece cerca una risposta alla sua disinvoltura. e non si arrende all’evidenza della sua fotografia. mi sembra esigere più immediatezza e ci gioca un po’ insomma.
perché poi, a me pare, di predatorio non abbia niente.
Da soggetto (diciamo così) che si vede prima, durante, e dopo, non avverto il predatorio. Se di trappola emotiva si tratta (e non ne sono convinta), è Efrem l’intrappolato, non il soggetto… in questo senso, l’immagine è un posato. Un falso, un arbitrio, che sta in piedi solo grazie alle leggi che gli sono proprie (e potrebbe essere il posato di un sasso). Le parole di Avedon le sento arrivare da un’altra galassia.
Chiarisco per Iara:
“….. Sono abbastanza vicino da toccare il soggetto e nulla è tra noi, tranne quanto accade mentre ci osserviamo l’un l’altro, nel corso della messa in opera del ritratto. Questo scambio implica manipolazioni, sottomissioni. Si arriva all’arroganza, e si agisce in base a ciò che raramente rimarrebbe impunito nella vita ordinaria.” (Richard Avedon, “In the American West”, 1979/1984)
Questo è ciò che personalmente intendo per ritratto posato, c’è tutto, c’è l’agguato, c’è l’assalto, la sottomissione, la strumentalizzazione, l’appropriazione…… che poi Efrem legga tutto ciò nella “maniera più semplice e diretta” è un suo punto di vista, il predatore non si pone interrogativi morali o comportamentali, fà e basta, cogliendo modi e tempi soggettivamente valutati, ‘semplici’ perché senza condizionamenti, istintivi e liberi.
PS: e non dobbiamo dimenticare l’etimologia del termine ‘ritratto’: “Il ritratto è antico quanto l’arte. L’etimologia della parola rimanda a un’idea di imitazione ma anche di intuizione: la parola ritratto deriva dal latino retrahere che significa “far tornare, trattenere” ma anche “salvare”; mentre il tedesco porträt, il francese portrait, il russo portret derivano da protrahere che significa “portar fuori” e “rivelare”.”
Scusatemi, sono una fanatica dell’etimologia, le parole non nascono a caso.
Io trovo l’immagine-riflessione di Vilma molto interessante e per certi versi perfettamente coincidente.
la parte interessante del “predatore” a caccia è che c’è un’attenzione e tensione affatto casuale. Il predatore osserva. Punta. E poi, solo poi, quando ha chiaro chi, cosa, perché e quando, scatta.
Potrebbe accadere – e nel regno animale accade – che altre papabili prede compaiano accanto al predatore durante la caccia, ma lui le ignora perché ha fatto la sua scelta e il suo scatto è per “quella preda”. (Sto semplificando, temo.)
Non è mai una scelta casuale. C’è una consapevolezza ben precisa.
Io credo che sia in questo senso una metafora appropriata :)
Ma è probabile che io abbia elaborato le riflessioni di Vilma alla mia maniera secondo la mia personale visione e che quindi i miei pensieri siano troppo semplificanti e forse non esattamente attinenti.
E forse vedo troppi documentari di super quark :)
un po’ troppa roba iara. per me intendo… che la vedo in maniera più semplice e diretta. e senza prede :)
Ci dice la letteratura che il ritratto ha molteplici approcci, per chi ama le categorizzazioni di genere si può dire che esiste il ritratto ambientato (fortemente contestualizzato), recitato (è il caso della pubblicità), raccontato (il reportage), posato, il più accademico, erede diretto della ritrattistica ottocentesca (Robert Adamson, per esempio).
Ora, Efrem, io faccio fatica a inserirti in quest’ultima tipologia, checché tu ne dica: quando scrivi “Aspetto te. Aspetto un gesto”, “Ti sembro distratto? ….Tu resti il centro”, “….stavolta scatto”, di cosa stiamo parlando se non di uno scippo? di un agguato? di una trappola emotiva?
La rottura di un instabile equilibrio “tra controllo e abbandono” è l’evento che genera il ritratto, il fotografo (il vero protagonista, come ci siamo detti tante volte) ha bisogno di questo momento critico per riconoscere nel soggetto ritratto un mezzo, una opportunità, un ‘centro’ attorno al quale tessere la propria visione del mondo.
Nessuno interviene a commento della sconvolgente rivelazione che Efrem ci ha offerto su un piatto d’argento?
dunque dunque vilma… il “soggetto” è al centro perché non mollo mai la presa. mai. anche di spalle. succede che proprio in questo tempo sospeso qualcosa può accadere. anche un gesto marginale. apparentemente marginale, perché lo prendo e lo replico – vedi fernanda pivano per sintetizzare. che siano posati o meno non ha poi molta importanza. la percezione che restituisci sì. credo sia indipendente da tutte le categorie…
l’istante è dopo
Il gesto che dà forma allo spazio, lo inventa, lo significa, gli dà senso, il gesto rubato da un fotografo ladro di gesti….. sembra distratto ma in realtà sta tramando un agguato e quando meno te lo aspetti, ‘scatta’ come un predatore di istanti.
Ma gesto è anche il tuo, Efrem, un incontrollabile impulso del profondo che ti dice che quello è l’attimo per cogliere un’emozione nel momento stesso in cui si forma.
Un gesto semplice come schiacciare un bottone, liberatorio, terapeutico, un delicato equilibrio tra controllo e abbandono.
in realtà vilma, non rubo nulla. lo so… delusione.
la stragrande maggiornza dei ritratti che faccio sono assolutamente dei posati. ma direi per il 98%. semplicemente intercetto il gesto e lo riproduco. ha solo le sembianze rapaci. ma non è così.
lo so… delusione.
però, sinceramente, sai che non vedo la differenza?
Col cuore
tu o io Roberta? ma anche entrambi…
un organo ineludibile per me. da solo non basta, ma senza si vede
Questa foto a Laura mi fa impazzire!
Geniale i segni sul pavimento in quella di Zanardi… il testo come dici è la logica, raffinata conseguenza. Ti adoro Efrem
urca Fedigrafa! grazie
La più bella forma di una dichiarazione d’ amore, caro Efrem!
piero: nei confronti di? perché non cononosco altro modo nel relazionarmi quando ritraggo. intendo in modo davvero pregnante per me
bello bello bello
grazie
grazie francesca
Prezioso ogni tuo scritto, per me
è semplice Paolo: guardo la fotografia – una certa fotografia e non solo la mia – e trascrivo
amo quest uomo!
addirittura damiano :)
Significativo e al tempo stesso poetico.
Ho intravisto questi contenuti nel workshop fatto insieme, e ti ringrazio.
Troppo breve, ma una bella botta evolutiva.
Lo sto digerendo e torno a seguirti per mostrarti i progressi e continuare ad esplorare.
Complimenti e grazie.
eh Davide… un giorno o l’altro affronterò un percorso didattico più lungo del ws. mi ci sono già misurato. e funziona
Sei stato questa volta, più che mai, chirurgico , preciso, sintetico , ma non ermetico. Una sintesi meravigliosa che contiene tutto circa l atteggiamento verso quella roba che si fa quando si punta una macchina fotografica in faccia a un esserne vivente.
hai detto bene Claudio: a un essere vivente. chiunque sia. oltre il genere e la specie
wow che musica…
il riconoscersi e il ritrovarsi nelle stesse parole negli stessi gesti è sublime
poi si tratta di affrontare la vera verifica: la fotografia.
grazie alfredo