James Nachtwey a Palazzo Reale, Milano, sino al 4 marzo 2018.
Una mostra che va vista.
Che non lascia indifferenti.
Che è totalmente coerente con un certo modo di intendere la fotografia dedicata al reportage.
E che mi trova solidale pur non frequentando.
Tranne per una cosa che dirò dopo. Come un dubbio…
Non ho idea di quanti modi ci siano per vedere una mostra, qualsiasi mostra.
Questa ha però intrinsechi motivi e letture che si muovono su più piani. Più che altrove.
Nessuno facile da affrontare.
Occorre un grande rigore. E coerenza.
Perché il soggetto, tutta la mostra, si regola anche sul piano estetico. E s’una idea del rapporto che questo ha con un contenuto che è tosto.
Mai e poi mai può essere trascurata l’estetica.
Anche se reportage, per me cambia nulla… non è il genere che fa la distinzione.
Solo l’opera. Solo ciò che è lì da vedere.
E questo è il mio modo di affrontare le mostre.
E tutta la fotografia a dire il vero.
Privo di patente, questo il mio rapporto.
Perché è così che leggo l’essenza dialettica di qualsiasi autore.
La misura espressiva.
Qui un equilibrio delicato.
Perché quando vedi dolore, morte, disperazione, la tentazione al rifiuto è forte.
Su due pannelli proprio all’inizio Roberto Koch – che ha curato la mostra insieme all’autore – dice: Da quarant’anni Nachtwey fotografa il dolore, la violenza, la morte e a sostenerlo nella discesa nella ”città dolente” della condizione umana è sapere che il buon fotogiornalismo può ancora incidere sull’opinione pubblica, come una prima stesura di un futuro libro di storia.
Non so se sia ancora in grado di incidere sull’opinione pubblica, davvero non lo so.
Però mi sa di no. Con rammarico.
Semmai ci sarebbe da chiedersi: e poi? Poi cosa fa l’opinione pubblica?
Ma capisco perfettamente il senso, e probabilmente l’auspicio di Koch.
Quella che è immediatamente chiara è l’onestà.
E la coerenza dello sguardo di Nachtwey lungo questi quarant’anni: Cisgiordania, Haiti, Guatemala, Libano, El Salvador, Berlino, Bosnia, Kosovo, Albania, Cecenia, Somalia, Sudan, Romania, Zaire, Ruanda, Sudafrica, Stati Uniti, Afghanistan, Iraq, Germania Est, Cecoslovacchia, Indonesia, Nepal, Vietnam, Pakistan, Zambia, India, Cambogia, Croazia, Macedonia, Grecia… un viaggio con al centro un’umanità esposta a tutto.
Compreso ciò che non vogliamo sapere. Ma che qui trova forma.
E con garbo ti viene sbattuto in faccia.
Sei qui e non puoi sottrarti…
Se decidi di venire qui, sappi che devi farci i conti.
Solo che non è come altrove, come per altri: Nachtwey è secco, pulito, diretto, essenziale e potente con quel suo bianco e nero.
Assolutamente da affrontare come una sequenza l’installazione riguardante gli ospedali militari in Iraq: 60 fotografie sapientemente addossate che ti arrivano addosso come una bomba. Uguale.
Se ti avvicini partendo dalla sala che la precede, dritto senza esitare, uguale.
Una carneficina.
Ma sempre con questo sguardo pulito, non incline ad alcun prurito: nessuna sbavatura. Non è per nulla facile.
Mentre ho trovato del tutto boh le parole di Wim Wenders.
Vagamente pretesche nel suo accomunare tutti: Nachtwey, i suoi soggetti, noi che siamo lì a guardare.
Oltre alla firma sul pannello, chi ci passa davanti si fermi e legga.
Dopodiché prosegua.
E adesso il mio dubbio.
Che riguarda gran parte del colore: tutto si muove con le priorità del bianco e nero, solo che la cromia è un’altra. Ed è come incollata.
Brillantemente incollata.
Tanto da sembrarmi un artificio.
Intendiamoci, anche qui nulla a che vedere con certe note derive da carrozzeria, però…
Insomma un dubbio.
Che in qualche modo mi fa pensare a un diverso orientamento del gusto. E che prima o poi ci vorrebbe qualcuno, un cranio vero e ben attrezzato, che affronti la questione.
Al momento resto qui col mio dubbio che è tale perché è magistrale lo sguardo di James Nachtwey. Che va be’, lo affronteremo altrove.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Nota: tutte le immagine in iPhone 6.
Memoria, James Nachtwey mostra.
Palazzo Reale, Milano 1 dicembre 2017 – 4 marzo 2018.
105 opere esposte.
Curatela: Roberto Koch, James Nachtwey,
Organizzata da: Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale, Civita, Contrasto e GAmm Giunti.
Digital Imaging Partner: Canon.
Con il supporto di: Fondazione Cariplo e Fondazione Forma per la Fotografia.
Questa la pianta della mostra data unitamente al biglietto – € 13,00.
Volendo è disponibile anche l’audioguida.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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Avevo visto e mi sono rivisto il documentario per l’occasione, non potendo probabilmente assistere alla mostra per motivi “geografici”.
Nel filmato viene mostrata anche una certa maniacalità per la stampa. Vedendo le foto del colore riportate da te Efrem, tranne l’ultima, sembra che siano effettivamente state concepite in bianco e nero in fase di scatto e poi in un secondo momento deciso per il colore.
Probabilmente Nachtwey vede solo in bianco e nero ;)
Saluti
ma no dai Alessandro… semplicemente mi sembra un colore iper perfetto. tutto qui. ciao!
Ciao Efrem,
Innanzitutto grazie per la sequenza che ci avvicina alla sala operatoria. Una composizione emozionante quasi quanto essere stati lì presenti. Oserei dire un’opera a sé.
Ho visto la mostra e vorrei dare un contributo, ovviamente personale, per quel poco che vale.
La ritengo la mostra più importante che io abbia visto nel 2017. E per molti motivi. Anche per questo mi interessa scriverne qualche cosa.
Nachtway in varie interviste dice di essere stato spinto a diventare fotografo di guerra dalle immagini che giungevano del Vietnam negli Anni Settanta. Immagini che smentivano l’atmosfera sdrammatizzante che l’allora governo americano voleva trasmettere. Immagini che cercavano di dare un resoconto realistico a ciò che accadeva in quei luoghi.
Mi sembra, da ciò che ho visto, che Nachtway sia stato coerente con la sua ambizione.
Va, scatta, si mette in gioco e vuole che questo suo mettersi in gioco venga visto dal mondo.
Questo intento così diretto, secondo me (almeno fino ad oggi) pienamente riuscito, rende queste foto potenti e in un certo senso uniche nel loro corpus integrale.
Non riesco a vedere in lui freddezza, perché tutto tranne freddezza penso ci voglia per sostenere questo orrore. Della serie: “ci voleva qualcuno che facesse questo, e questo qualcuno ero io”.
Se penso che la fotografia di denuncia serva? Ne sono convinto e ancora di più penso che sia un’ottima cosa che una mostra così venga esposta in un luogo così prestigioso di Milano e mi piacerebbe venisse visita da persone giovani.
Dire che non serve è come – per fare un esempio – voler metter in dubbio il ricordo di quello che è accaduto con il Nazismo e lo sforzo che ancora oggi i sopravvissuti fanno per mantenere viva la memoria con le loro testimonianze.
Detto questo, è giusto porsi delle domande estetiche sul B/N e sul colore perché siamo fotografi e l’estetica e la tecnica hanno ovviamente il loro ruolo.
A me personalmente il colore così carico non ha dato fastidio. Anzi ti confesso (con un po’ di vergogna) che ho dovuto andare a riguardarmi il catalogo per vedere quali erano tutte le foto a colori e tutte quelle in b/n.
Penso che il motivo sia che in una mostra di Nachtway – al di là del colore o del b/n – ciò che arriva (e che probabilmente Nachtway desidera che arrivi) è il messaggio di denuncia.
E se il colore può essere più efficace per veicolare il “messaggio” di una bomba molotov che parte, ben ci sta il colore.
Preciso che il mio è un collegamento molto stretto tra ciò che ho visto e l’uso formale del b/n-colore: non sono in grado di aprire una discussione più ampia sull’uso del colore oggi, perché non ne ho gli strumenti.
Un ultimo accenno devo farlo a proposito dell’allestimento. Raramente ho visto un allestimento così efficace nell’illuminazione e nell’esposizione. Le luci sembrano calare da un luogo imprecisato ma valorizzano le grandi stampe in modo perfetto, molto emozionante.
Se devo trovare un difetto, direi che Nachtway è meno efficace quando l’argomento è meno “forte”, come nelle parti sulle carceri americane. Ma forse solo perché l’argomento più “ordinario” scompare rispetto alla potenza del resto della mostra.
In conclusione, se non l’avete visto, consiglio il bellissimo documentario WAR PHOTOGRAPHER, dedicato a Nachtaway dal regista Christian Frei (musica di Arvo Part!), che sviscera bene (in modo per altro molto emozionate e con l’uso di una rudimentale steady-cam) le aspirazioni del fotografo. E’ un ottimo compendio alla mostra.
https://en.wikipedia.org/wiki/War_Photographer
passavo di qua Adolfo. e ho visto questo commento – ancor prima di leggerlo. e mi son detto: lo leggo subito e commento subito.
sono concorde su quasi tutto. infatti sono solidale. come solidale? quasi tutto non è solidale!
già… ma condivido la struttura, l’approccio, la restituzione di uno sguardo. di questo. non c’è nessun compiacimento, zero estetizzazione.
ma c’è una grande estetica. che coincidendo con tutto il percorso, un po’ si nasconde. ma c’è. e va benissimo. fuori da qualsiasi demagogia va detto.
il mio punto sul colore, il dubbio, mi resta. e perdonami, non è solo un punto “estetico”. ma in qualche modo una visione.
e vero, l’allestimento è assolutamente all’altezza… immersi in un buio pesto.
però non dico che non serve questa fotografia… ho purtroppo l’impressione che non sia utile come si auspica Roberto Koch. e mi spiace ovviamente.
dall’avvento della fotografia, ma soprattutto dei media, magazine in primis, tutte queste perle umane si sono ripetute. e anche con maggiore violenza.
tutto qui. ma non sai come mi dispiace.
grazie per il consiglio sul documentario. personalmente andrò a pescarlo.
e davvero grazie per il tuo intervento. ne riparleremo con più agio.
Siccome non capita urti i giorni di avere un commento estemporaneo di un curatore di una mostra così importante ne approfitto.
Ha ragione Roberto Koch a sostenere l’interezza dell’esposizione e, certo, non potrebbe essere diversamente. Primo perché il corpo è uno e indivisibile e secondo perché mette un punto sull’estetica e il fotogiornalismo. Come del resto, a tuo modo Efrem, hai fatto anche tu. Questo è un punto oltremodo importante e non andrebbe preso alla leggera ma anzi evidenziato.
Sull’uso che viene fatto del colore invece nutro lo stesso dubbio di Efrem e che come lui non so risolvere. Ma che come lui mi farebbe piacere venisse affrontato.
Anche sulla reale capacità che la fotografia di reportage ha di influenzare e di destare le coscienze sarebbe interessante sentire più voci.
Nonostante questi dubbi ho la certezza di andare a vedere una bella mostra e lo farò con la mia famiglia. Grazie per avermi dato l’opportunità di dire anche la mia opinione.
grazie a te Elio per il contributo. con la famiglia? bene!
Caro Efrem, grazie infinite di aver voluto condividere questo tuo commento ragionato e molto interessante. La mostra di Jim è per me molto importante, e ci abbiamo lavorato molto, un’infinità di tempo.
C’è un punto che vorrei sottolineare. Chi è appassionato di fotografia a volte tende a pensare che in una mostra così i visitatori siano soprattutto gli appassionati di fotografia. Questa mostra ha la pretesa di rivolgersi a un pubblico molto più ampio. La mia ambizione è che sia visitata soprattutto dagli studenti, dai giovani, che questa “prima stesura di un futuro libro di storia” (per usare parte della citazione che hai voluto ripetere) sia una opportunità per riflettere sul mondo come è stato recentemente e come è. Dici che il fotogiornalismo non è più in grado di incidere sull’opinione pubblica, ma io invece penso che il fotogiornalismo, quello di James Nachtwey, sia tuttora un linguaggio potente e che i fatti, gli eventi che testimonia, obblighino chi vede a prenderne parte e a farsi un proprio giudizio, ed eventualmente evitare di ripetere errori – gravi – del passato. Questo è l’auspicio che muove Nachtwey e tanti fotoreporter, che le fotografie possano consentire agli osservatori di vedere, sapere quel che c’è da sapere.
Provate a cercare anche il minimo elemento di retorica nelle sue fotografie, non lo troverete. Nachtwey è lucidamente asciutto, non lascia nulla di improvvisato quando fotografa, e rischia prima di tutto di persona. L’installazione delle foto di chirurgia medica nascono dalla sua esperienza personale, per esserci stato, in quei luoghi, prima da paziente (per le conseguenze di una grave ferita), e poi tornato da fotografo,e per aver voluto testimoniare che le vittime – in quei luoghi – non sono solo di una parte, ma di qualunque parte. Ed è la spinta etica per Nachtwey, anche nel colore e non solo nella sintesi e rigore del bianco e nero, che lo porta a non tralasciare nessun dettaglio, per il rispetto che si deve e che lui sente di dovere alle persone che ha voluto fotografare. Nulla deve distrarre da quello che è il punto della fotografia, la sofferenza di chi è fotografato; per questo tutto punta lì.
Tra i testi in mostra ci sono (ed è forse il più importante) alcune citazioni dell’autore, e una sua affermazione è che vuole realizzare delle fotografie eloquenti e per essere eloquenti devono essere precise. ben composte e realizzate. Non diffida della bellezza e dell’estetica in sé, se possono aiutare le sue fotografie ad essere più intense, se possono attirare chi guarda con maggior forza.
Andate a vedere questa mostra, anche grazie alle parole di Efrem, e ditelo poi a chi conoscete, fate che il passa parola aiuti ancor di più la visione di una mostra che è stata realizzata interamente in Italia e che Milano ha l’orgoglio e il privilegio di poter offrire agli italiani e ai visitatori stranieri, l’opportunità di vederla qui prima di altrove. È una mostra attesa da quasi vent’anni e farà un tour internazionale molto ampio. Mi auguro che la potenza di queste fotografie faccia breccia nella testa e nel cuore di chi le ha viste e le vedrà.
caro Roberto, mi fa molto piacere sentire la tua voce. e ti ringrazio davvero per il commento.
sullo sguardo di nachtwey non ho alcun dubbio, e anzi come ho scritto…
resta la questione del colore. ma è un dubbio mio… come qualcosa che mi ha fatto pensare altro. qualcosa che andrebbe affrontato nei termini di una riflessione ampia. sul “gusto” e le sue dinamiche mi è venuto da dire, proprio perché è di un autore così rigoroso. quindi a maggior ragione mi ha sollecitato. ma potrebbe benissimo chiudersi qui come una percezione del tutto personale.
vero, ho il dubbio che il fotogiornalismo non sia più in grado di avere ruolo nelle coscienze. ma questa è per me una considerazione amara.
è proprio una considerazione più generale che non intacca minimamente la potenza espressiva dell’autore, di nachtwey e di altri che un linguaggio ce l’hanno. l’imputato per me è la coscienza. e certa colpevole latitanza. infatti come ho scritto, capisco perfettamente il tuo auspicio. al quale mi associo. perché non potrebbe essere diversamente, almeno per un fotografo. ciao!
non del tutto a margine: grande mostra! complimenti a entrambi.
O se non sia semplicemente un fatto estetico, un bisogno di chiarezza o pulizia e definizione dell’immagine che sembra aver avuto il sopravvento in quest’epoca…ci siamo fatti prendere la mano da i fotografalindi … ? :D va beh ..scherzo ..non troppo.
Ovviamente i linguaggi mutano, come ogni cosa viva, subiscono influenze e/o influenzano in relazione all’ambiente in cui muovono, e inoltre ci sono linguaggi differenti a seconda di quello che si vuole comunicare e come lo si vuole comunicare, non esiste un linguaggio che vada bene per tutto. Il dubbio semmai è se sia un linguaggio efficace o che conserva una sua autenticità, se abbia una precisa finalità o se sia invece un gusto del momento…difficile stabilirlo ora, bisognerebbe fare un analisi sociologica , i soggetti che sembrano incollati, come se… come se, potessero essere estratti e inseriti in qualsiasi sfondo o luogo, chissà se inconsciamente non ci sia comunque un messaggio, o una percezione. E’ vero, qualcosa nelle foto a colori può sollevare dei dubbi, una sorta di volontà di dare una luce diversa o di mettere in evidenza staccando forse in modo poco naturale vari piani…ma non so, non credo di essere così esperta per capire esattamente. C’è una foto decisamente potente dal punto di vista simbolico http://www.bjp-online.com/wp-content/uploads/2015/04/James-Nachtwey_New_York_2001-1024×690.jpg, la croce sembra un po’ come dici tu messa in evidenza non solo dalla scelta dell’inquadratura…i suoi contorni netti sembrano staccarsi dal quelli del cornicione e dallo sfondo…cosa un po’ meno evidente qui https://images.curiator.com/images/t_x/art/32af4c18c9deb7153a34579486a627c1/james-nachtwey-untitled-9-11.jpg . Ma non voglio fare un analisi tecnica, non ne ho le capacità e le competenze, magari è solo una diversa realizzazione di stampa – non ho avuto modo purtroppo di vedere una sua mostra . La foto è come ho detto potente, simbolica, degna di un grande fotografo, la bandiera americana sull’angolo a destra in alto, la croce e dietro un mondo simbolico che crolla, esplode e i frammenti che quasi raggiungono o stanno per raggiungere il simbolo religioso… evidentemente la foto riprende con il suo taglio un fatto, resta il tuo dubbio e se dietro ci sia una volontà per indirizzare lo sguardo e la riflessione non solo con l’inquadratura ma anche con la volontà di staccare e mettere in risalto qualcosa rispetto al resto, in modo quasi isolato attraverso quella nitidezza dei contorni…boh. :D solo lui potrebbe illuminarci.
biosgnerebbe intendersi su cosa si pensa che sia il linguaggio, Janes. per me è un codice. la cui struttura riconduce a un autore. poi potremmo andare avanti un bel po’.
ecco, forse è proprio questo nella circostanza: non lo riconduco, questo colore, a un codice di stretta appartenenza. come se in fondo non fosse necessariamente nachtwey. questo è parte del dubbio. l’altra parte del dubbio ha a che fare con l’altro tuo commento: non so se ci ha preso la mano, ma l’impressione, almeno la mia, è che il peso della visione nel suo insieme abbia perso peso rispetto al dettaglio, alla parcellizzazione degli elementi. come una sorta di destrutturazione poi ricomposta. sulle cause un’idea ce l’ho. e non riguarda questo singolo caso ma proprio un “ambiente”. mi aspetto di vedere un’analisi tosta da parte di chi ha cranio e strumenti per affrontarla. dal mio angolo penso che il digitale nel suo insieme ci abbia un po’ preso la mano. e annacquato la relazione tra percezione e produzione. così eh! proprio al volo.
Sembra molto bella e forte .
Pensa che a 18- 20 anni pensavo di fare il cameraman nelle zone di guerra come mestiere , ma non sapevo come arrivarci. Con il senno di poi mi sembrava una scelta un po’ troppo drastica …
Bell’ articolo come al solito .
anche senza il senno di poi Federica. come sempre: se si intende fare una cosa, la si fa. se non la si fa ci sarà un motivo comunque valido.
Sappiamo, Efrem, che il discorso autoriale è da farsi in altra sede, tendenzialmente informale, con supporto di bevande alcalinizzanti (limonata, per chi è a dieta) e birra. Alla prossima.
Scianna una volta sosteneva, con mio plauso, che quando si va a vedere una mostra di Salgado: si esce e si parla di fotografia e di fotografo. Con altri fotogiornalisti si esce e si parla del soggetto. È la capacità di regolare la giusta distanza dal soggetto, nell’equazione di uno e trino che si tova a vivere il fotografo.
Le identità ipertrofiche e verticali sono un prodotto, come tutto, della cultura che viviamo, del percorso, del viaggio. Nacthway ha intrapreso da anni un percorso nell’inferno, per ricordarci la nostra mortalità, diventando un testimone assoluto di ciò che è il nostro mondo. “Le cose come sono” – “Things as they are”, titolava un libro di fotogiornalismo. A chi crede di essere veramente il centro attorno cui ruota l’universo (ovvio, dio lo siamo tutti: senza di me l’universo non esiste, il mio) consiglio una buona lettura:
https://www.ibs.it/strutture-antropologiche-dell-immaginario-introduzione-libro-generic-contributors/e/9788822002440
Assieme ad altri, volendo. Le cose sono come sono – things as they are – per una parte della mela, e rimando al link della popolazione mondiale: ad oggi l’identità è quotata 1 a 7.594.642.880.
Vogliamo davvero continuare a credere di essere gli unici esseri senzienti che possono dare una definizione della realtà? Fuor di polemica, credo l’umiltà debba permettere di porsi alcune domande. Ricordandoci, come fa Nachtway, che siamo mortali e abbiamo una colpa da scontare.
A bien.
nessuna polemica Fabiano, anzi, se ne parla con grande tranquillità…
a proposito di identità ipertrofica: è stata di fatto pensiero dominante per secoli, millenni, ponendo proprio al centro l’uomo.
non funziona più. e più in generale trovo urgente sganciarsi da un antropocentrismo che è suicida.
non del tutto a margine.
ciao!
L’estetica è una questione complicata.
Di filosofi che ne hanno scritto e parlato ce n’è una lista lunga lunga, ma esiste un’idea condivisibile e universale del significato dell’Estetica?
“Non è il genere che fa la distinzione” concordo.
La mia idea di estetica è legata all’eliminare dal mio lavoro ciò che è superfluo.
O che addirittura può rivelarsi controproducente, portare fuori strada, allontanare l’opera da quello che l’opera dovrebbe essere, secondo me.
Tu parli di onestà, nessuna sbavatura e nessuna speculazione in un commento poco più sotto. E aggiungi anche “metterci se stesso.”.
Io lo leggo come un riassunto del senso che posso dare all’estetica.
Un’operazione di sottrazione di tutto ciò che allontana da questi elementi appena citati.
Forse dire “Estetica”.. “Bellezza”.. confonde un po’ le idee?
Forse stiamo parlando appunto di dialettica, misura espressiva, in realtà.
Sarà che dire “Bella” “Estetica” di fronte ad un’opera che racconta qualcosa di molto doloroso diventa complicato. Perché, al di là del genere, mi viene (sempre) da preferire l’aggettivo “Onesta”?
Forse inciampo solo tra i termini e le definizioni.
è sì complesso Roberto. ma solo se ci si fa prendere da una serie di sovrastrutture morali. o pseudo. l’onestà sta anche nel fatto di non sottrarsi e di affrontare senza demagogia alcuna certi percorsi dove inciampare è invece facile. sia in un senso che nell’altro. ed è vero, usare il termometro della bellezza in certe circostanze…
però è così, si può fare se non c’è compiacimento. questa è una misura estetica. e non estetizzante. per me forma e contenuto devono coincidere… poi naturalmente liberi tutti.
anche perché, e hai ragione, a volte termini e definizioni convergono ma non si capisce.
dimenticavo Fabiano: grazie per i link.
Stiamo parlando del fotografo e non del soggetto. Potrebbe essere definito “epic fail” nella stortura comunicativa contemporanea.
Sono convinto nel fotogiornalismo si debba parlare di soggetti e non di autori, o dei padri della nostra visione, qual è Nachtway.
I soggetti: non dimentichiamoli.
Ovvio che troviamo uno sguardo, un punto di vista nelle immagini di Nachtway, ma teniamo a mente che è uno sguardo occdentale, cristiano, paternalistico.
Riflette la nostra cultura, sicuramente, condizionata negli anni da impianti comunicativi propagandistici di differenti parti della mela, o della fishbowl.
Se fai un libro che si chiama Inferno o Genesi (Salgado) o altri nomi descritti nella cultura cristiana posso credere tu sia ateo? No: sei consciamente/inconsciamente cristiano, non si cambia pelle. Fai parte del mio mondo.
(cfr. James Hillman “Un terribile amore per la guerra”, Adelphi. Un gran libro, catalizzatore di rivelazioni, come molti di questo autore: Fuochi Blu sopra tutti)
https://www.lafeltrinelli.it/libri/james-hillman/un-terribile-amore-guerra/9788845919541?utm_source=Google-shopping&utm_campaign=comparatori&utm_medium=cpc&utm_term=9788845919541&zanpid=2386800172081945600&gclid=Cj0KCQiAs9zSBRC5ARIsAFMtUXH5TnUycqVy_Fc9PhZkItwTIJEZ5L_VpDRcq29idKUfymfULM510WkaAjpoEALw_wcB
Senza nulla togliere a Nactway (e chi sono io?) personalmente trovo più franco e diretto Don McCullin e Gilles Peress lo trovo meno retorico/ridondante. Parlo da spettatore, fruitore crasso e ignorante. McCullin ha sempre fotografato guerre, dove fossero coinvolti gli interessi britanici, Peress ha fatto opere come “farewell to Bosnia” o “the Silence” sul Rwanda che tolgono letteralmente il fiato (anche the Graves). Nachtway è stato nei quattro angoli dell’inferno, a fotografare la condizione umana disagiata, la violenza, la punizione dell’uomo dannato da Dio per aver mangiato la mela. La colpa. Con la distanza dell’occhio alieno, del divino che tutto presenzia e documenta, come non fosse visibile ai soggetti, come non modificasse la realtà solo con la sua presenza.
Si può percepire la distanza estetica, asettica, del fotografo. Di colui che si è dannato a raccogliere la sua testimonianza dello smarrimento dell’uomo, per dare una forma al caos. È un autore, si, assoluto. Tra i migliori. Gli sono grato per il suo punto di vista. Nella verticalità dell’io.
http://www.worldometers.info/
Quando guardo una foto penso sempre a Barthes e ai suoi tre fruitori della fotografia: l’autore, il soggetto e lo spettatore. Noi siamo spettatori, più o meno avvertiti dai rispettivi percorsi culturali, più o meno autori, soggetti o spettatori.
E mi alterno sempre in un gioco di ipotesi di ruolo: mi diverte.
Il colore di Nachtway è fuoriposto, vibra, non trova l’assonanza con il resto della foto, non si ferma: rimane punctum attivo nella totalità dell’immagine. Personalmente preferisco il reportage a colori di Luc Delahaye, nella fattispecie Winterreise:
https://youtu.be/7xJ9bSoJLcs
https://www.amazon.com/Winterreise-Luc-Delahaye/dp/0714843393
Che credo abbia ridefinito, a modo suo, con questo libro, la distanza del fotogiornalista dal soggetto.
Buona giornata.
f.
P.s. Poi parliamo di memoria.
sei sempre il prodotto di un percorso lungo, Fabiano. anche nella contraddizione esprimerai questo. anche nella violenza. non può che funzionare così.
quanto al discorso autoriale ci vorrebbe una seduta lunga per parlarne. molto sinteticamente: non attribuisco nessuna stigmate in sé, solo la capacità di offrirci appunto il suo punto di vista. che per me resta un discrimine. e non è un io verticale, dai.
Neppure io credo che il buon fotogiornalismo possa ancora incidere sull’opinione pubblica, ormai abbiamo visto di tutto e di più, la nostra sensibilità visiva ha metabolizzato sangue, dolore, morte, violenza portati dentro le nostre case dallo schermo di ogni innocuo apparecchio tecnologico presente nella nostra quotidianità. E basta ricordare i ‘Death and Disaster’ fotografati da Andy Warhol, precursore anche in questo, per capire che sarebbe accaduto.
‘incollata’ nel senso di ‘sovrapposta, aggiunta, per questo artificiosa’?
Che dipenda da ‘un diverso orientamento del gusto’? Forse dire ‘del gusto’ è riduttivo, ma quella potrebbe essere la via, “la visione non è una registrazione meccanica di elementi, ma l’afferrare strutture significanti”, la psicologia dell’arte (psicologia della Gestalt) individua due distinti e diversi schemi percettivi, secondo le categorie di ‘forma’ e ‘colore’, due principi generali che i sensi afferrano e concettualizzano, forse per alcune persone più che per altre.
Potrebbe essere così, non per volontà manipolatoria dell’autore, ma per la reale artificiosità del colore, il quale è di fatto una un’invenzione sensoriale del cervello che trasforma in sensazioni colorate i segnali di variazione della energia luminosa.
Sembrerebbe un paradosso, dato che la realtà che ci circonda è a colori e quindi la foto a colori dovrebbe essere più ‘veritiera’ del b/n….. è possibile che un fotografo del livello di Nachtwey si sia posto il problema, anche se la sua (deludente) lectio magistralis (dice di sé “Non sono un uomo di parole”) pare non abbia svelato nulla di più.
non credo possa incidere vilma, perché concretamente non cambia le posizioni. neanche delle coscienze. altrimenti saremmo di fronte a un altro mondo. e sì, possiamo anche aggiungere come dici tu, che in fondo tutto è stato digerito. soprattutto quando riguardav gli altri. sembriamo degli spettatori… sembra che nulla ci riguardi.
incollata è per dire che è un colore talmente brillante e preciso nel riempire lo spazio che lo riguarda. ecco, sembra appunto una registrazione meccanica di elementi tra loro separati. in questo il mio dubbio.
non ho assistito alla sua lectio: davvero? che strano…
Dalle tue foto ho notato un dettaglio, forse banale, sulla luce ovvero l’ombra riportata dalle cornici. In alcuni scatti sembra che tu abbia fotografato non delle stampe ma delle immagini su schermi. Non so se questa cosa si percepisca di presenza ma un tale effetto visivo illusorio lo troverei potente e in linea con quello che è oggi la rappresentazione del dolore e l’assuefazione data dal mezzo televisivo. Chissà che non sia una scelta, un filtro, per indirizzare la fruibilità della mostra!?
La dovrò visitare, per dipanare ogni dubbio e carpire tante altre cose, pugni allo stomaco compresi! Ciao Efrem.
in effetti SALVATORE di primo acchito, cornici a parte, l’impressione che ho avuto sul colore è che fossero come retroilluminate. cosa che ovviamente non sonono. ed parte del mio dubbio. ciao!
Vista e piaciuta tantissimo, condivido tutto anche il dubbio… fra diabolico/divino ci sta proprio l’oggettività del reporter. W lo smartphone!
Grazie Efrem!
grazie di cosa Vincenzo? l’hai già vista :)
un abbraccio.
Interessante riflessione Efrem. Inclusa quella sul colore. Ho anche una domanda: ho notato che anche in altre occasioni simili cioè le mostre, usi l’iPhone, mi chiedo come fai perché poi c’è da dire che sono sempre bellissime. Come in questo caso e lo dico a proposito avendo visto la mostra: buio pesto!
lo smartphone lo trovo comodissimo in questi – e anche altri – casi. non ho nessuna allergia Alberto. poi se si ha un’idea di cosa si sta vedendo e il contesto, basta applicare. esattamente come qualsiasi altro strumento. il vantaggio è che passi inosservato, non c’è alcun rumore d’otturatore, ti muovi leggerissimo.
quando è buio basta fotografare anche quello. tutto qui. certo qualche limite in certe condizioni c’è. ma tutto è proporzionato: non devo fare delle stampe da un metro…
Grazie per la dritta Efrem! Già da qui sembra tosto, poi la tua capacità di farci precipitare dritto dritto su quella parete senza paracadute… è dura!
vale la pena vederla. consiglio: con qualche ammortizzatore Nicola.
Lo hai trovato uno sguardo umano? Quale umanità si cela nello sguardo di chi ruschia l’anima, nei luoghi del dolore degli altri, per vivisezionarme l’equilibrio estetico e descrivere le forma archetipiche del dolore?
Amo il lavoro di Natchway, da una vita, non ho visto la mostra ma ho sempre il dubbio: il suo è uno sguardo divino o diabolico?
Perché di cristianità comunque si tratta. In a fishbowl, year after year.
ho trovato semplicemente uno sguardo, una paternità Fabiano. ed è molto. ho trovato una grande onestà e nessuna sbavatura. nessuna speculazione insomma: non dimentichiamoci che è il suo lavoro il reportage, non un passatempo. e a mio avvisvo lo fa aggiungendo molto: se stesso.
quindi non mi trovo davanti al bivio divino/diabolico. questo per me. senza alcuna presunzione.
ma perché è di cristianità che si tratta?