Ogni fotografia ha una sua vita, indipendente dall’autore.
Indipendente da noi.
Anche prima quando non c’era il Web. Giuro.
E questo ha avuto il grande merito di riesumarne davvero tante dal passato, anche quello lontano, quasi dando loro nuova luce. Forse a dispetto delle recenti e recentissime che invece, mediamente, tende a eclissare rapidamente: questione di mole, di similitudine, di sovraesposizione e conseguente rigetto.
Che se frequenti un qualsiasi forum, o un social esplicitamente dedicato alla fotografia, è un bombardamento.
La longevità di un’immagine non mi è chiarissimo da cosa dipenda.
E forse non è neanche individuabile o restringibile a qualche elemento preciso valido in assoluto.
È un fatto di DNA… di qualcosa che possiede già alla nascita e che non ha una logica. Altrimenti qualsiasi autore produrrebbe solo immagini longeve. Tutte quante a sopravvivergli. O a sopravvivere almeno alla contingenza del gusto, del trend (brutta parola) e della morale condivisa.
Invece non è così: sono rare le fotografie in grado di attraversare le epoche e le mode e di presentarsi indenni agli occhi dei posteri.
E di diventare così un classico.
Cos’è che hanno?
E non è da confondersi col successo, che è solo una questione di applausi, magari anche uno scroscio, magari apoteosi ma che ha un tempo ben definito: il successo si misura con l’epoca di appartenenza. Qui stiamo parlando di chi va oltre… diremmo mai che il Don Giovanni di Mozart è un’opera di successo? E anzi, giust’appunto, non è che avesse riscosso tutto questo plauso all’epoca. E invece, eccolo rappresentato in tutti i continenti.
Paragone che non evoca alcuna similitudine, ma rende bene l’idea.
Io sarei felice di attraversare il decennio con qualche mia foto.
Qualcosa che ogni tanto qualcuno riprende da chissà dove… una fotografia che si presti magari all’equivoco temporale e che faccia pensare sia stata scattata ieri.
Con questo ritratto a Adriana Zarri è successo.
Realizzato nel 1984, che ero un pischello e armeggiavo sudando.
Nell’eremo dove viveva, fuori Ivrea.
Ricordo ancora la chiacchiera per convincerla crocefissa a terra.
Che non è un gesto gratuito, non un famolo strano… si veda la sua biografia.
Quella donna mi aveva molto colpito e era davvero speciale.
Una semplicità disarmante e un pensiero forte in un corpo esile.
Un godimento assoluto ascoltarla.
Di recente è stata aperta la sua pagina Facebook.
Il suo amministratore ha postato l’immagine, trovata in rete, e mi ha contatto.
Io ne sono davvero contento.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Fotocamera: Nikon FE con ottica Nikkor 20mm f/3.5
Film: Kodachrome 25.
Per PM, anno 1984, neonato magazine della Mondadori che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’editoria periodica italiana perché aveva un respiro internazionale. E al centro c’era l’immagine.
Il suo art director era Romano Ragazzi, una persona molto importante per la mia crescita. E che tutt’ora vedo.
Secondo me una fotografia diventa “famosa”, dopo essere sopravissuta oltre il decennio, in qualche modo diventa, forse, nostalgia, esprime meglio di altre il periodo storico, urla qualcosa che voleva dire il fotografo in quel momento, insomma, va oltre… cosa non lo so proprio, però…
si può vivere senza essere famosi?
Be io vivo anche senza essere famoso, a differenza delle tue fotografie e tua…
cinico elusivo…
… anche un po’ ironico, però la tua domanda è molto complessa sul piano fotografico. Ci saranno sicuramente tante fotografie che vivono non essendo famose, magari più significative di alcune icone, però restano nell’ombra e probabilmente non vedranno mai la luce, salvo casi fortunati come l’americana Vivian Maier.
se non vedono la luce son morte :)
Credo che la vita di una foto dipenda dai pensieri, dalle idee che riesce a contenere. Il bravo artigiano produce immagini che non durano e si consumano al primo sguardo. L’artista invece crea forme nel tempo.
sai che non lo so, claudio? dico davvero. un’alchimia strana…
per quel che riguarda specificatamente questa foto e la sua possibilità di essere una ‘forma nel tempo’ o, se vogliamo, di trasmettere un messaggio atemporale, credo che un ruolo determinante lo giochi la scelta (operata dal fotografo) di proporre l’idea della croce, uno dei simboli di maggior suggestione iconica in tutte le culture, anche quelle non cristiane.
Nella fattispecie, è in perfetta relazione con una sorta di misticismo sacrificale emanato dal personaggio, non privo di una certa teatralità.
Però Vilma il palcoscenico è importante e credo che la stessa croce , così piccola e persa non avrebbe reso con la medesima forza in un altro contesto. Voglio dire che questa immagine va presa nel suo insieme e a me coinvolge guardandola tutta: 1984! Però!
Il tuo ‘però’ mi fa pensare, Francesca, che tu attribuisca un valore negativo alle mie ultime parole. Al contrario, non voglio affatto sottovalutare l’importanza della mise-en-scene, la teatralità è una scelta che conferisce solennità ad un gesto indubbiamente plateale (anche questo termine non ha senso negativo) enfatizzato dal grande spazio nella parte superiore, dove la foto prende respiro, dove gli alberi spogli spingono lo spazio e lo sguardo in verticale, verso il cielo.
Ma certamente no Vilma! Era solo per dire che tutto il contesto era per me molto significativo, come hai ben descritto :-)
questa foto che crocifigge alla terra un esile corpo galleggiante in procinto di sprofondare nell’erba è una sorprendente premonizione dell’epitaffio che la protagonista stessa scriverà per sé:
“……. E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.”
Forse questo è l’equivoco temporale più intrigante.
non conoscevo l’epitaffio, vilma.
in che senso è l’equivoco più intrigante?
l’equivoco temporale (l’aggettivo è fondamentale) più intrigante è che una tua foto contenga gli stessi riferimenti simbolici di uno scritto che all’epoca non era ancora stato scritto.
allora avevo intuito bene. solo, sai com’è…
credo, torno un po’ temporalmente indietro anche se il ricordo è vivido, che il suo rapporto con la terra, il suo modo di vivere e di pratica della povertà, non mi abbia lasciato scampo. che poi la croce, che avevo un po’ insistito, mi disse appena dopo che era il suo modo di pregare. ma dopo dopo. forse per questo in realtà accondiscese. io a questa immagine sono molto affezionato.
Non conoscevo Adriana Zarri, spunto per farlo, leggendo il tuo blog a lei dedicato.
Guardando la foto su fb, prima di aprire il blog, pensavo fosse una foto recente, e invece no…quindi, ha quel qualcosa in più, come dici tu, è sopravvissuta.
Credo che le foto sopravvivano, come è sopravvissuta questa perché chi l’ha scattata
si, è andato oltre, magari inconsapevolmente, quando si scatta si scatta…di pancia, magari non sempre per successo, per gli altri, ma per se stessi, per la pura passione che si ha della fotografia, normale, artistica, pensata, spontantea, che sia, però…
Efrem…credo che le tue fotografie vivano…non sopravvivano…sempre attuali.
sei molto cortese lucia… questa credo sia una fotografia “fortunata”.
me lo ricordo, un po’, PM…
Di Adriana Zarri non ho mai letto niente, confesso. L’ho conosciuta vedendo questa foto – che non si dimentica – sul tuo sito, e associandola alle citazioni che di lei leggevo in giro. Poi proprio pochi giorni fa in una libreria di usato ho trovato un libro con una sua intervista…ero quasi per comprarlo, poi però sfogliandolo ho beccato il passo dove le chiedevano della sua alimentazione in rapporto alla sua vita ascetica e lei spiegava come dal suo punto di vista l’essere umano sia eticamente legittimato ad uccidere animali per cibarsene, e non l’ho comprato :-)
lei stessa sosteneva che fosse una sua contraddizione, quella del suo rapporto con i “suoi” animali…
era estremamente rispettosa, ma li uccideva lei stessa. a parte questo aveva un cranio e una sensibilità straordinari.
personalmente mi fa piacere che il mio sito a qualcosa serva :)
Una fotografia che davvero non si dimentica per una donna che è stata anima del dissenso e della teologia della liberazione: anche io l’ho vista sul tuo sito :) Ma anche da qualche altra parte su una rivista che però non ricordo :(
ci si dimentica il dove, mi capita spesso… ma se un’immagine ti ha in qualche modo rapita, valeria, è certo che ritorna.
a me funziona così.
Questa fotografia la conosco! E sapevo che era tua Efrem anche se non l’avessi letto: è la tua mano che è riconoscibile! Però non sapevo che fosse del 1984!!! Adriana Zarri è stata una grande teologa e questa fotografia la racconta proprio bene, poi è vero quello che dici: ci sono fotografie che vivono e altre no e a me questa sembra vivissima!
eh già… 1984! orwelliana…