Oh!! Non ha piovuto.
A memoria d’uomo, o almeno da quando il Salone Internazionale del Mobile si svolge a aprile, è la prima volta che c’è un sole così.
Ecco… a me personalmente non sarebbe cambiato niente: fisso in Statale, alias Università degli Studi di Milano. Per me un ritorno. E un conto ancora aperto che non si salderà mai.
Così ha voluto chi sovrintende… perché l’anno scorso non si sapeva bene cosa stessi facendo. E iPhone alla mano ho scorrazzato per il Fuorisalone, sostenuto da Michelangelo Giombini che segue i Progetti Speciali di INTERNI mag, e che ci ha creduto subito.
Poi visti i dati e l’utilità, questo percorso social in qualche modo è stato istituzionalizzato.
E mi sono trovato con il badge STAFF al collo.
E i badge hanno un peso specifico, che sul collo si sente.
Non sempre è un vantaggio.
Ho fatto in modo che pesasse il giusto, così la verità è che mi sono affezionato e mentre sto scrivendo lo indosso… questione di continuità.
Questo è un lavoro fotografico trasversale, un reportage vero, di quelli che di solito alcuni snobbano. E mi spiace per loro.
Ogni tanto invece, io ne avrei bisogno.
Perché è come resettare il cranio e azzerare certe abitudini: qui non si può nulla!
Non cambi la luce che c’è… non cambi l’ordine del programma… non interagisci mai direttamente con le persone, né con gli oggetti. L’unica cosa è aggrapparti al tuo sguardo, alla capacità di lettura che hai, chessò, di una conferenza, di uno spettacolo, di una installazione, di una poltrona incollata a una pedana.
Io ho fatto così: mi sono ricavato una nicchia e ho usato la visione periferica. Quella che si occupa del margine, con solo un’allerta sulla scena principale. Che se fosse stato il caso, c’ero.
Ma la mia attenzione vitale era dove la luce non c’era, cioè dove gli sguardi non focalizzano: stemperare la scena madre… due passi indietro ed è fatta. E la visione è altra.
È stato anche il festival del selfie… non avevo bisogno di dire niente, mi allontanavo, alzavo la macchina e scattavo nel mucchio, come con Fabio Novembre: era molto più interessante uscire dalla scena e godersi la via crucis. Con un Alessandro Mendini che guardava e sorrideva paterno.
Sono stato un fotografo silenzioso…
Anche quando si è trattato di Marina Abramovic… non le ho mai chiesto nulla, l’ho preceduta, ben piazzato davanti e a ritroso scattavo. Fino al palco. Ma siccome m’interessava e non mi bastava, l’ho letteralmente spiata. E quando l’ho vista allontanarsi prima che tutto iniziasse, sono andato a vedere: era tranquillamente sola in un corridoio.
È qui che serve il badge, non per fare il figo al bar di fronte.
Prima ho scattato e poi, ma dopo, le ho chiesto solo la cortesia di girare il viso.
Full flash diretto… paparazzata. Stop.
I Phone e Nikon.
Non ho mai ritratto la Abramovic. E questa non era la condizione.
Stessa cosa con Gillo Dorfles. Anzi a lui non ho chiesto proprio niente. L’ho solo puntato e ho aspettato… sapevo che avrei trovato quello che in quella circostanza aspettavo.
E volevo.
Niente ”venga di qui e si sposti di là”. Tra l’altro era il suo 104° compleanno… grande cranio, grande presenza. Grandissimo senso della scena. L’ho ringraziato e salutato.
In entrambi i casi, questo non è fare ritratto. Malgrado siano due ritratti, Abramovic e Dorfles. Ambientati?
Questo è reportage dentro il caos mediatico.
Per ritrarre bisogna essere gli unici sulla scena armati di fotocamera e possibilità di eloquio… non in mezzo a centomila smartphone e compagnia assortita. Questo almeno per me. Che ho bisogno del mio silenzio; che non metto mai musica sul set… successo un paio di volte… mica ho a che fare con le modelle. E ho bisogno di un’attenzione privilegiata. Inequivocabile.
Non è una considerazione di merito, è una constatazione: le immagini hanno habitat propri difficilmente intercambiabili.
E non si può far finta che tutto sia spalmabile ovunque. Non è così.
Ho anche inquadrato spesso i colleghi coi quali condividevo la scena.
Perché della scena noi eravamo parte.
Senza di noi non c’è scena.
Oggi, senza di noi non c’è nulla.
Anche se siamo ricattabili e deboli come non mai.
Mica si può credere all’accumulo di smartphonate e casualità iconografica assortita!
Chi lo professa fa della demagogia pro domo sua. O ignora e parla a vanvera.
Ciò che qui pubblico è un lavoro… una selezione delle 517 immagini che compongono Interni Photo Diaries 2014, per il fronte social di INTERNI, incluso il sito e in questo specifico usate da Danilo Signorello nei suoi articoli.
E che poi, ulteriore selezione, verranno pubblicate sul numero di giugno, cartaceo questa volta.
Tranne un’immagine che ho realizzato in concomitanza di un evento di Grazia Casa, per il quale mi sono spostato, tutte le altre sono realizzate tra le mura della Statale.
Salvo tre immagini che ho ripreso per questo post, le altre sono esattamente quelle postate in corso d’opera: nessuna postproduzione. Di inedite ne ho aggiunte solo un paio circa.
Ogni tanto mi concedevo una pausa. Per fatti miei con un caffè e una meravigliosa Lucky, quelle di cui un giorno ci si potrebbe pentire.
E lì dov’ero, ritraevo ciò che mi faceva compagnia.
In religioso silenzio.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
In queste immagini, tra gli altri:
Gillo Dorfles, Gilda Bojardi, Marina Abramovic, Michele Molè, Paola Navone, Ernesto Mauri, Philippe Daverio, Piero Lissoni, Patricia Urquiola, Andrea Branzi, Michele De Lucchi, Philippe Nigro, Fabio Novembre, Alessandro Mendini, Moritz Waldemeyer, Massimiliano Fuksas, Lia Bosch, Lavazza, Domus Academy, Cosentino Group, Audi, AgustaWestland, Expo Milano 2015, Designing China Exhibition, Università degli Studi Milano. Il cavo della corrente.
le immagini delle persone, la gente che riflette il suo vociare, i selfie, si intersecano agli scatti che hai preso al di fuori della scena principale, al silenzio delle opere, e soprattutto di quel cavo solo soletto…tranquillo…
adoro le foto delle scarpe, quando posso le ritraggo sempre a chi suona ai concerti che amplifichiamo, come i cavi, i loro lunghi e sinuosi tragitti…
“Ogni tanto mi concedevo una pausa. Per fatti miei con un caffè e una meravigliosa Lucky, quelle di cui un giorno ci si potrebbe pentire.
E lì dov’ero, ritraevo ciò che mi faceva compagnia.
In religioso silenzio.”
si!
e quando ho visto le sue scarpe io ho capito tutto di lei…
nanni moretti. bianca
yes!
-trasversale
-visione periferica
-occuparsi del margine
-stemperare la scena madre
mi sembrano queste le chiavi di lettura del tutto, operano una sorta di unificazione della possibile frammentazione del discorso, che scorre veloce dal Gillo Dorfles monumento di se stesso al mitico Mendini (è stato mio insegnante al politecnico!) con qualche pausa di riflessione che, personalmente, apprezzo molto (qualche finestra illuminata, l’infilata del colonnato……).
Bravo, lo sai già, che te lo dico a fare?
non trascurerei il cavo della corrente però… mi ha confortato nella pausa sigaretta, non sai quanto vilma!
mendini al politecnico tuo insegnante? l’hai più incontrato?
No, ai tempi faceva parte, con altri gloriosi assistenti-insegnanti, del gruppo di Ernesto Nathan Rogers.
Era una persona molto timida, si dilettava a produrre piccole composizioni grafiche molto delicate che qualche volta esponeva alla libreria Salto, un altro luogo storico della cultura milanese che mi hanno detto recentemente non esista più.
ps: giuro che al cavo della corrente ci avevo pensato……..
apperò! nathan rogers… domus, casabella… confesso, ricordavo qualcosa ma non precisamente: sono andato a vedere… mio articolo su myriam tosoni: tu hai avuto nathan rogers come docente! una grande fortuna credo
Davvero interessante vedere come ognuno abbia il proprio registro! Ho visto altre immagini di ció che è successo in Statale: le tue sono molto diverse. Una domanda Efrem: ma il primo piano in bianco e nero alla fine è Fuksas vero?
sì, fuksas. che tra l’altro questa paparazzata la devo a un bicchier d’acqua. una storia lunga. evito adesso.
Un bicchier d’acqua? No racconta per piacere :-)
prima che iniziasse lo show, fuksas si aggirava con un bicchiere in mano nella hall dell’aula magna… aveva una gran sete ma il fanciullo addetto al rinfresco post tutto non cedeva… aveva ordini tassativi di non elargire niente a nessuno. passavo di lì per andare di là… così ho preso una bottiglia d’acqua da dietro il tavolone imbandito… grave violazione!!!! ma dai… quindi grande riconoscenza. e mentre era lì l’ho puntato secco, flash aperto e direttissimo. contro il tendone e ho scattato. due scatti secchi. questo è uno. tutto qui diletta.
Molto divertente! Grazie Efrem :-)
Ciao Efrem,il tuo incipit col sole:negli ultimi anni, davvero, mai si era visto una Salone così luminoso.E mai come quest’anno mi sono ritrovata a rimanere in un unico showroom.Nulla ho visto di quello che succedeva all’esterno,nessuna inaugurazione,ma come sempre tanta frenesia,ansia per la press,e tanto social!’bisogna stare sul pezzo,costantemente’.E tu lo hai fatto come voce silenziosa fuori dal gruppo. Una riflessione personale sul Design.Ti ringrazio perchè mi ha fatto pensare.Pochi sono i fotografi che si occupano di design, cosî come scrivi, ma forse, e parlo soprattutto a titolo personale, bisognerebbe uscire dalle dinamiche puramente commerciali e proporre percorsi narrativo-visuali più indipendenti.
ah, ma allora non è una mia fantasia! un sole così non l’avevamo mai visto durante il salone… anche se chiusi si gode di riflesso. con me ha funzionato: tu pensa una settimana d’acqua e in più fermi nello stesso posto!
paradossalmente, nicole, credo che quello della fotografia applicata o meglio, interessata al design, sia tra quelli che maggiormente potrebbero esprimersi con un linguaggio meno costretto. dipende anche da noi. non è semplice ovviamente, perché il rapporto legato a un assignment è anche condizionante. eppure trovo che sia le aziende sia i magazine che di design si occupano credano più di altri nella fotografia e nei fotografi. è un fatto culturale. di abitudine al linguaggio. anche puro. la verità è che qui, tutti, dipendiamo da un marketing e da un management che mediamente sembra aver perso le coordinate. se così non fosse, l’editoria per esempio, non verserebbe nello stato di angoscia in cui invece palesemente versa. è difficile definire, credo, il termine “indipendente”. soprattutto quando parliamo di fotografia che per poter essere vista, da qualcosa sempre dipende. fosse anche di ritratto. credo però, messo a punto, che il tema di cui parli sia quello centrale.
magari varrebbe la pena di parlarne e di trovare il modo di confrontarsi con interlocutori meno confusi e istituzionalizzati.
d’accordo, questo è solo un reportage, reso possibile da quello super iPhonato dell’anno scorso… eppure se non l’avessi proposto allora, e in quel modo, oggi non ci sarebbe neanche questo. dei margini ci sono e qualcosa dipende anche da noi.
Assolutamente concordo con te nel vedere che aziende,magazines e chi si occupa di design sia meno condizionato nell’utilizzo del linguaggio fotografico soprattutto quando non pretende di diventare fashion! Da cui forse il marketing ed un management caotico! Sarebbe SI un ottimo spunto per parlarne con interlocutori che vi gravitano attorno. Sull’idea di INDIPENDENZA spero ne parleremo presto, il mio forse è stato più uno sfogo auspicando che tra fotografi e art direction (qualunque essa sia) ci sia più interazione, scambi di idee e soprattutto intraprendenza. Ma questo dipende da noi:)
ne parliamo :)
A parte il ritratto non ritratto a Gillo Dorfles che è stupendo in qualsiasi caso, ho apprezzato molto la disinvoltura, la leggerezza con la quale hai affrontato un tema tutt’altro che facile fotograficamente: complimenti!
è complesso. ma semplice alessia