Carlo Petrini è morto due giorni fa, a 64 anni. È stato attaccante anche del mio Milan, col quale ha vinto una Coppa dei Campioni nel 1969.
Non voglio parlare di lui, della sua vicenda calcistica e dei libri che ha scritto (tra tutti Nel fango del dio pallone, Kaos Edizioni).
Sono grato a quest’uomo. Perché ritrarlo mi ha rimesso in piedi.
Ero appena tornato da un periodo tosto, faticoso, stressante e pieno di luci. Di quelle che abbagliano. Ero rientrato da Los Angeles cinque giorni prima, davvero disfatto.
Trovarmi lì, in quella situazione, è stato un ceffone. Di quelli che fanno male. E d’emblée ti svegliano.
A Monticiano, fuori Siena… fuori da tutto, in un buco di una stanza e mezza più una piazza: la mia storia è tutta qui.
Ho un solo modo di ricordare le persone: il mio. E passa attraverso la fotografia. E la voce.
Qui piazzo le foto. Che mi permettono di dire un paio di robe…
Questo è un lavoro per GQ Italia, numero di gennaio 2001.
Ci credereste? Eppure… articolo del torinista Marco Mathieu.
Non è un reportage, cos’è allora che lo rende simile di primo acchito… cos’è che fa stridere, persino a pensarla, la parola shooting?
Com’è che un patinato come GQ, per il quale mi occupavo del ritratto, ‘ste cose le produceva? E perché proprio io? Ma soprattutto, perché no? Non è che se per caso bazzichi per una sera il jet set, ti dimentichi del treno dal quale sei sceso. O sì?
Per chi il treno non ha mai avuto il bisogno di prenderlo non vale.
Questo è per me un lavoro importante. Che ho lasciato nel cassetto per tanti anni.
L’importanza di un lavoro non si misura sulla base della visibilità o appunto dell’importanza del soggetto. Né il numero di tacche sulla fotocamera fa di per sé curriculum.
So per certo che più d’una photo editor, una in particolare, non direbbe che è mio.
I cliché in fotografia sono diffusi, a tutti i livelli, e essere obliqui non è detto che sia un plus (si legge come è scritto).
Queste fotografie sono dei posati a tutti gli effetti, e concordo, il reportage è un’altra cosa. Forse… perché non vedo cos’abbiano di meno questi ritratti. Non vedo a cosa servisse raccontare altro.
A volte basta una foto, a volte no. Ma ricamarci sopra è gratuito.
E io non sono un buon ricamatore.
In ricordo di Carlo Petrini, R.I.P.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Assistente fotografia: Fabio Zaccaro.
Fotocamere: Polaroid 600 SE con Seiko 75 mm, Pentax 645N con 55 mm.
Luce ambiente e flash Profoto + luce ambiente.
Film: Polaroid 665, AGFAPAN 100
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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Questo lavoro mi ha immediatamente fatto pensare al lavoro di Lisetta Carmi sui travestiti di Genova. Ricordi che te ne avevo parlato? E mi ci ha fatto pensare per una sorta di mood comune (non del soggetto), ma soprattutto per questa “contrapposizione” reportage-posato. Gli scatti di Lisetta Carmi sono anche dei posati, ma di quel lavoro ho sempre sentito parlarne come di un reportage. E non potrebbe essere altrimenti. Poi si, in effetti chi se ne frega. Da questi scatti viene fuori tutto, ma proprio tutto. Sono di una naturalezza “devastante”, non possono lasciare indifferenti. Roba che si il reportage dovrebbe fare, ma a guardar bene lo fa spesso molto male.
ricordo andrea che me ne avevi parlato, e li avevo anche poi visti. a memoria credo ci siano delle similitudini, forse gli interni scarni
se non ricordo male… andrò a rivederli.
il reportage al quale ci siamo abituati adesso forse soffre di ciò che dici, oppure per contro eccede in lirismo compiaciuto.
qui credo, in questo posato di petrini, di autocompiacimento ci sia zero. eppure è posato posato.
misteri del percorso fotografico, o della banda critica che ha bisogno di collocare sempre ogni cosa?
Esatto, gli interni. Proprio a quelli mi riferivo.
Direi lirismo compiaciuto, assolutamente. Da quello che si vede soprattutto dai reportage dei fotografi più “pompati” e premiati dalla pseudo critica, che spesso sono si “devastanti”, ma in un altro senso.
Questi scatti quindi sono dei posati, ma hanno tutto di un reportage. Per come lo intendo io. Però se anche così non fosse…beh, non è un problema. ;)
infatti andrea, non è un mio problema… né di chi ha occhi per guardare.
Qui siamo proprio su un altro pianeta. Ho letto i diversi commenti e a me non interessa tanto sapere se questo è o no reportage, se ti è o no antipatico il reportage. Quello che ci tengo a dire è che questa fotografia è veramente forte e mi ha emozionata. Non so come tu riesca a fotografare certi personaggi, tanto celebrati e noti e poi fare queste immagini, ma ci riesci benissimo e riconosco lo stile: complimenti!
sì… be’ è vero, è una polemicuccia tutta mia quella sul reportage. anche dana in effetti sottolineava.
sul come si riesca a passare dalle luci della ribalta alle ombre della vita quotidiana direi che è semplice: io non
cambio. grazie per i complimenti valeria, sono sempre graditi.
“Io non cambio” mi piace molto!
ciao raimondi che tuffo nelle emozioni passate, che viaggio assurdo! le immagini sono così evocative che mi torna in mente quel buco di cucina con l’acquaio scheggiato. la camera praticamente vuota, l’intonaco scrostato, la sua voce che rimbomba nel vuoto e la tristezza.. l’amaro in bocca nell’uscire da casa petrini e la felicità di aver fatto delle immagini forti, crude, diverse. la SUA rabbia nelle TUE foto.
ciao zaccaro! già, un bel tuffo. hai ottima memoria vedo… del resto è stata nella sua semplicità un’esperienza forte.
hai detto una cosa importante, che spesso non si dice, ma non per pudore. forse per ritrosia ad ammettere che si può essere felici,
sinceramenete e beatamente felici nel fare la fotografia che piace. non capita spesso.
è vero, l’amaro in bocca e la felicità di aver fatto quete immagini. ti ringrazio per averlo ricordato.
Paul Fusco, fotografo della Magnum, ha dovuto aspettare la bellezza di 30 anni prima di vedersi pubblicato il suo lavoro , oggi considerato un capolavoro, RK funeral train…
non lo sapevo… ma perché così a lungo?
seconda domanda dana: c’è una relazione con ciò pubblicato?
giusto per cogliere come funzionano i magazines, che non è solo un fenomeno nazionale. e poi tu parli di come la validità di un lavoro non si basi sulla visibilità: ecco per me questa storia di Fusco è aneddotica. La validità l’aveva in sé ma non hanno saputo coglierla, non gli hanno dato la visibilità, ma il suo valore ontologico non si è perso.
o come dici tu, non apparteneva a quei lavori trend della durata di una scoreggia…:)))
vero… uso spesso anch’io la metafora della scorreggia.
be’, innanzitutto parli di un grande lavoro. realmente ficcato nel cassetto. ma la cui carica, il cui sguardo anticipatorio, restano evidenti.
io mi riferivo al fatto che prima un patinato come gq avesse non solo pubblicato, ma proprio prodotto questo lavoro su petrini. e che adesso forse nessuno
lo farebbe. anzi, fino a smentita, non ricordo niente. perché acquistare un servizio già fatto non è come produrlo.
ma ce l’hai con il reportage?
…:)
non ce l’ho col reportage… perché dana?
ahah:))… voleva essere una battuta provocatoria, anche se mi è parso di cogliere intuitivamente (totalmente soggettivo ed instabile, quindi ) qui ma anche in altri post, un confronto fra l’approccio reportagistico e quello posato
in effetti! tutt’altro che soggettivo! ma questo perché si fa del reportage in quanto tale, quasi a prescindere, la vera essenza fotografica. quella che racchiude le
proprietà morali e intellettuali dell’arte fotografica, per dirla alla vecchia maniera. e il resto sì va be’… robetta per patinati. vuoi mettere
pubblicare sulla carta vetrata? tutte panzane! quindi la mia curiosità in merito a questo lavoro era dove sarebbe stato collocato dai sacerdoti.
ma solo giusto per un po’ di polemica da osteria. poi, chi se nefraga.
Ho guardato queste foto subito, ma ho aspettato a scrivere. Ho compreso all’istante che avrebbero continuato a parlarmi, anche se avessi ascoltato musica, oppure fatto due passi, o fatto qualunque altra cosa apparentemente lontana. L’ho visto subito dal tono, dalla morbidezza di quei duri bianconero, da quella sequenza del dopo, del dopo tutto, ogni scatto un capitolo, un gesto meditato, lunghissimo, fino all’ultimo, quello più alto, sul letto, con un’espressione finale, coraggiosa, in linea con quella del Cristo in croce. E non ho detto niente, ma ho capito abbastanza. Grazie, Efrem….
la morbidezza di quei duri bianconero… intesi come strong? belli forti?
ha dodici anni ‘sto lavoro. mi sembra ieri. e invece…
ma perché mi ringarzi claudio?
certo, duri per forza e umanità che trasmettono…
ti ringrazio perché credo che la fotografia vera sia qualcosa di vivo, che prosegua a vivere negli altri…
spero in questo senso di dare il mio piccolo contributo…
interessante…una sorta di autocensura preventiva (è solo un’ipotesi, ovviamente).
potrebbe essere.
tu dici che non dipende dal potere degli inserzionisti, che magari temono che certa roba ricordi alla gente che l’uomo è mortale e l’eterna giovinezza è una balla?
credo che sia prevaricante la paura degli inserzionisti da parte dei gestori di mags, che il filtro reale di chi acquista pagine adv…
recente recente ho un caso emblematico: per un mag produco un lavoro, all’interno del quale c’è una foto decisamente poco convenzionale (è di una celebrity che parlo),
sul set era presente anche il maggiore inserzionista, che vede ‘sta immagine. sul pubblicato non c’è traccia… l’inserzionista mi chiama per capire come mai
visto che la riteneva splendida. gli ho detto di rivolgersi alla rivista, perché io non avevo risposta, solo dubbi.
Lo dico a rischio di retorica: in questi ritratti c’è molta verità. Da ex consumatrice assidua sempre più disamorata, mi sembra questo l’elemento progressivamente messo al bando dalle riviste (andrò a rivedere se avevo questo numero di GQ, a volte lo compravo).
ho l’impressione laura, che sia un problema di persone, di ricambio che c’è stato all’interno dei mags. e che mediamente non
mi sembra adeguato. qui si tratta sia di contenuti che di come affrontarli.
ma non è un cazzo difficile fare una bella rivista! com’è che è raro vederne una?
oltretutto l’andazzo fa sì che invece non si crei un adeguato ricambio tra i fotografi, ma questo è discorso lungo.
Shooting (parola alquanto strana per me quanto meno per la sua traduzione, che ho scoperto da un annetto, iniziando ad occuparmi in qualche modo di fotografia), reportage, beauty, ritratto, glamour e via discorrendo, sono tutte belle parole, spesso estere, che riempono la bocca e non dicono nulla.
Passata la fase c’è l’ho più lungo, l’obbiettivo, passata la fase vecchio al porto e tramonti romantici, passata la fase foto trash che fanno tanto tendenza e passata la fase riuscirò a distinguere un foto di beauty da una glamour e iniziando a studiare questo linguaggio (o medium, perchè sono convinto che sia anche un mezzo di comunicazione potentissimo) mi sono reso conto che probabilmente le fotografie si possono dividere in due grandi gruppi, quelle con le persone e quelle senza.
Perchè oggi purtroppo c’è un’invasione di immagini, fatte col cellulare, fatte con l’hasselblad da 50.000 euro, che vengono digerite da internet e dai giornali allo stesso modo, tanto è vero che trovo davvero difficile l’idea di farne un lavoro.
Per cui tutto sommato trovo difficile dividere le fotografie in categorie, secondo me sono troppo mischiati i generi, dal reportage di guerra fatto col teleobiettivo a quello fatto col cellulare, quale dei due ha più valore, entrambe fanno il loro lavoro.
Idem per il ritratto, ha più valore un ritratto fatto da un maestro della fotografia come Efrem Raimondi o Settimio Benedusi (per citare i primi due che mi vengono in mente) oppure quello fatto dalla fidanzata al ragazzo (rigorosamente con iphone) su facebook, probabilmente il discriminante è uno, forse due, ovvero, i primi vengono pagati profumatamente per farlo e probabilmente tra 20 anni saranno ricordati sui libri, ma affettivamente tra 20 anni anche quella foto “a cazzo” avrà un valore molto grande, anche se solo per 3 persone, forse.
So di essere in parte molto distruttivo e me ne scuso, probabilemente tra un mese avrò cambiato idea, ma è questo, ad oggi il mio pensiero.
perché distruttivo stefano? la parola glamour per me non ha significato. è vuota, come dici tu. al pari di tante altre che
dovrebbero dichiarare una collocazione. ma glamour mi sta proprio sul culo… più delle altre. forse solo perché non capisco di cosa diavolo si stia parlando.
per cui è certamente un mio limite. la leggerezza non è da confondere con l’evanescenza.
indipendentemente dal mezzo ciò che conta è ciò che alla fine si ha davanti, cioè il prodotto. ed è vero che la fotografia è un medium potente.
la roba con la quale ci confrontiamo oggi e che descrivi bene, non so dire bene cosa sia. ma il mezzo c’entra poco. che sia fatta col cellulare o con la super fotocamera
può essere un’eguale insignificante schifezza. ed è assolutamente vero che il valore di certe immagini è anche assolutamente relativo, per cui anche la foto del fidanzato ha valore. ma il distinguo c’è, e sta proprio nella capacità intrinseca di una fotografia di trascendere dal legame con l’autore, indipendentemente da chi sia.
ho visto splendide fotografie fatte da sconosciuti e tante schifezze fatte da chi sconosciuto non è.
quello che intendo dire è che è vero che la scala dei valori è anche soggettiva, ma esiste da parte di alcune fotografie la capacità di essere trasversali.
l’invasione di immagini, come dici tu, non ci aiuta. e ci ubriaca la vista.
Non penso Efrem che è così fondamentale sapere se queste immagini sono più reportage o più altro: sono quello che sono, cioè molto forti, commoventi e bellissime!
Carlo Petrini R.I.P.
infatti diletta, in fondo non è importante per niente…
Che dire… Riletto piu’ volte e da rileggere ancora, tanta roba. Di quella che ti fa pensare, non solo riflettere. Grazie Efrem.
grazie a te per la tua presenza stefano… a cosa pensi guardando queste immagini?
Ad un vinto, ma con molta dignità, descritto magistralmente.
Questo senza tenere presente le contaminazioni informative: considera che non seguo il calcio, ho saputo da te che è mancato e brevemente chi era e cosa ha fatto.
Da figlio credo vorrei avere delle foto così di mio padre e da padre lasciare delle foto così a mia figlia.
R.I.P. Carlo Petrini
in effetti hai ragione stefano, queste fotografie non hanno diretta connessione col calcio.
pensa che suo figlio, calciatore a sua volta, è morto a 19 anni nel ’95… niente, una storia terribile tutta.
sono molto contento di averlo ritratto. dico davvero.
davvero terribile…
ti credo, sono quel genere di fotografie che credo, tutti i fotografi vorrebbero fare.
non ne sarei così sicuro stefano, anche perché qui si è lontani dai riflettori.
se penso che fu fatto per gq italia, un patinato condé nast… per il quale facevo altro…
chissà se qualcuno adesso produrrebbe un lavoro così, ma anche non un patinato, chissà.
qui confondi il desiderio di fare la fotografia “fine a se stessa” che può avere un valore affettivo, e la possibilità di vederla pubblicata su una rivista patinata, ma del resto ci campi. E’ pienamente condivisibile da parte mia, anche con invidia… leggi il mio commento sotto…
in che senso?
Intendevo dire che vorrei avere fatto delle fotografie oggettivamente belle ed emozionanti, a prescindere dalla pubblicazione, non so se mi spiego.
adesso ho capito, scusami ma sono un po’ rallentato… concordo sul fatto che il media
è a prescindere: uno le cose le fa, poi si vede. succede, non credere, che a bocce ferme tutti a delineare un percorso.
poi tu torni con altro, certamente non stravolgente, ma altro: lo guardano, e chi è in grado di decidere, approva.
quindi mai fasciarsi la testa. e pensare a ciò che si vuole fare, non a ciò che ci si aspetta che noi si faccia.