Sottrazione è il leitmotiv della fotografia che mi riguarda.
Tutta quanta: la mia più quella nella quale mi rifletto, fatta da chiunque.
Fatta…
Quindi non strafatta.
Sottrazione è un dato percepibile. Una condizione iconografica imprescindibile.
Non si vede. Eppure è la struttura portante.
Ed è forse questa sua condizione di scheletro che la rende impercettibile.
Ma regge tutta l’impalcatura.
Vive di un paradosso: non è data dagli elementi mancanti, ma da quelli presenti.
Dalla dialettica che questi hanno con lo spazio che gli appartiene e che coincide col nostro perimetro fotografico sia esso fotogramma o file.
Come si fa a spiegare…
Abbiamo il nostro spazio predeterminato: non è evitabile, non è modificabile.
Possiamo solo prendere atto del formato.
Che è vuoto. Se non interagiamo tale resta.
Ed è lì che tutto succede.
Non altrove, non a parole. Lì e basta.
Possiamo anche chiamarla composizione.
Che altro non è che la presa di possesso di questo vuoto.
E dell’interazione tra questo e ciò che aggiungiamo.
Come lo aggiungiamo determina l’esito di questa relazione.
Ciò che si vede è, ciò che non si vede non esiste.
Tutto qui.
Sottrarre in una operazione di somma significa occuparsi solo di ciò che serve dal punto di vista espressivo.
Tutto il resto è un surplus.
Sottrazione è anche la parola d’ordine a ISOZERO Lab – il laboratorio iniziato a febbraio di quest’anno.
Ed è qui, in questo spazio creativo e didattico, che nel confronto coi lavori che si stanno producendo – o con le intenzioni di lavoro – che è emersa prepotentemente la necessità di sottolinearne l’importanza.
Con alcuni – siamo una trentina – questa sottolineatura è superflua.
Con altri invece occorre lavorarci.
Non è grave, c’è di molto peggio nel mondo.
Ma se è di fotografia che parliamo, capire cosa vuol dire sottrarre cambia l’esito del percorso.
Non è facile. Ma è semplice: basta riconoscere alcune convenzioni, passate ma anche attuali, e spazzarle via. Ricominciare.
E ricominciare è una bella sensazione.
Perché ci si è fermati. Ci si è guardati attorno… cos’è che non funziona? Com’è che non riesco a definirmi nella fotografia che produco? Ma cos’è tutta ‘sta roba che non avevo notato…
E ti accorgi di quanto vedere sia importante.
E per vedere, occorre in primis leggere lo spazio e ciò che contiene.
Il nostro spazio.
Ad alcuni ho dato un esercizio: l’analisi oggettiva della fotografia che hanno davanti. Propria o di altri.
Un inventario di tutto ciò che c’è.
Ed è incredibile come certe cose, alcune presenze, belle evidenti, non si vedano.
Motivo per cui non si distingue una fotografia da un fumetto, da una figurina.
E si fraintende sulla semplicità, pensando che sia una roba facile.
Sì? Allora falla.
E ti rendi conto di quanto LA maledirai.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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Grazie per le riflessioni, interessanti e profonde,, che condivido. D’altronde quello che conta è già li, presente nello spazio, come per Michelangelo la statua era già nel marmo. Lui diceva che in fondo toglieva solo il di più, nient’altro. Sottrarre.
Fosse facile.
infatti Arturo non è facile. però è semplice. basta mollare e vedere l’invisibile. quindi procedere.
Michelangelo è di un altro pianeta :)
L’origine della parola “vuoto” riconduce a vacare che significa ‘esser libero’. Se sottrarre significa occuparsi di ciò che conta dal punto di vista espressivo, credo che non bisogna aver paura del vuoto e che esser liberi, senza zavorre e senza incrostazioni, giovi al nostro modo di esprimerci e allo sguardo.
Un pensiero che è più una suggestione nata leggendo questo tuo testo.
Buon pomeriggio, Efrem
in effetti Giusi, nessuna paura del vuoto. che però non è la sottrazione.
il nulla, questo sì che sarebbe il desiderio impossibile.
Anche l’architettura e la pittura moderne hanno lavorato molto di sottrazione, almeno fino all’avvento delle bulimia progettuale degli ultimi decenni, proponendo all’inizio del ‘900, con Wrigth, van Der Rohe, con gli artisti della Scuola del Pacifico una visione spaziale senza precedenti nella storia dell’architettura prima delle contaminazioni con quella orientale. Lao Tse per primo, cinquecento anni prima di Cristo, dichiara che “la realtà di un edificio non consiste in quattro pareti e un tetto, ma nello spazio racchiuso, nello spazio entro cui si vive” . Al centro della progettazione c’è lo spazio cavo interno vuoto, uno spazio in attesa che aspetta di divenire altro grazie alla “presa di possesso di questo vuoto”, e che “se non interagiamo tale resta”.
Alcuni artisti hanno scelto questa via, Rauschenberg con i suoi White Paintings, Cage con la sua composizione musicale “4 minuti e 33 secondi” di silenzio….
“Sottrarre fino a dove?”
Si può fotografare il vuoto?
spesso il sentire e a seguire l’esprimere, sono trasversali. e la matrice la stessa.
si può fotografare il vuoto… se documento no. ma se evocazione assolutamente sì.
torno a ringraziare quest volta per quel “Sottrarre in una operazione di somma significa occuparsi solo di ciò che serve dal punto di vista espressivo.
Tutto il resto è un surplus.”
Come tanti altri che ti scrivono, trovo ciò che scrivi eccezionalmente chiaro, essenziale . Lavori di sottrazione anche con le parole . Insomma una dichiarazione di intenti coerente. Risuona in me. Una cosa non ho capito . Quando dici: ciò che non c’è , non esiste . Penso alla foto della bicicletta di bambino con una strisciata di sangue , credo fatta in Palestina subito dopo L esplosione di una bomba, dalla Leibovitz. Ecco, quello che non c’è , esiste eccome . Quello che si è scelto di escludere diventa L oggetto dei tuoi pensieri. Oppure come una tua foto di ina parete e di un quadro che non c’è . Solo L ombra . Io vedo la foto e mi ostino a pensare al quadro. Voglio dire: non è che L escludere a volte elementi , sia invece ciò che li fa vivere di più ? Non hai forse fatto questo tu o la Leibovitz in quei due esempi? Ci sta anche che non abbia capito una cippa. A volte il mio cervello lavora per sottrazione :-) . Un abbraccio Efrem .
certo che la fotografia è evocativa, e che quindi esiste anche su un altro piano. quindi tutto bene Claudio, tranquillo :)
ma non su quello immediatamente visibile. l’accento però lo pongo su ciò che c’è. e che spesso essendo a margine non si coglie. invece è lì.
è proprio un semplice, banale, inventario. e ti assicuro che serve. un abbraccio
Lo spazio predeterminato, nel perimetro all’interno del quale ci muoviamo, o tentiamo di muoverci, è il nostro e di nessun altro. Una roba esclusiva, quindi di per sè eccezionale. Il formato che, se non aggiungi/sottrai, resta vuoto, mi fa fa venire in mente il foglio bianco dello scrittore…Penso alla fotografia come a una sintesi. La sottrazione non è una sintesi?
GrazieEfrem!!! Ciao.
credo che la sottrazione sia proprio la forma. bella compiuta. che va a coincidere col contenuto. forse, in questo, anche sintesi. ciao Stefania
Caro Efrem , per quanto io possa percepire dalla tua fotografia , il tuo arrivare all’essenziale e’ per me evidente.
è che non ho alternativa Eliana. grazie!
Invidia per quei 29 privilegiati.
Sei un bel manuale di fotografia e di vita. Buon proseguimento di lavoro Efrem!
a dire il vero un filo oltre la trentina. escluso me.
no dai, manuale no :)
comunque Luciana non disperare: c’è sempre l’anno prossimo.
Non capisco come tu Efrem riesca a affrontare questioni tecniche in modo così semplice e discorsivo: complimenti, non è facile
non facile ma semplice. basta avere chiara la fotografia che si fa. e/o che interessa. e farla. poi il resto va’ da sé.
sì, anch’io nel mio design tolgo tutto quello che non serve….
e in effetti è capire cosa non serve. conosco bene il tuo percorso “minimalista” – mi concedi il termine un po’ così?
sottrarre, minimalismo. Dicotomia minimal, ancora più difficile da realizzare.
Grazie delle pillole di saggezza.
Ciao
mica saggezza Federica. prodotto del lavoro. ciao