e migliaia di altre persone

E migliaia di altre persone.
Cioè, oltre a Anta de Laporta che capitana, ci sono altre migliaia di persone al seguito che hanno laicato lo stesso post IG, la stessa immagine, lo stesso video.
Nulla da aggiungere a riguardo, se ne prende atto.
Però non spiega nulla. E a meno di essere sempre inclini a prendere atto di qualsiasi status quo – che vita del cazzo – magari almeno una curiosità potrebbe venirci.

In primis: siamo disposti a ritenere Instagram il luogo social per eccellenza di accoglienza del pianeta fotografia comunque la si declini?
Al punto per esempio di ritenerlo, il pianeta, sostitutivo del proprio sito come alcuni fotografi hanno detto?
Non so se poi siano passati dalla dichiarazione ai fatti, e se sì sarebbe interessante sentirne la ragione.
O forse no.

Ogni tanto sfoglio l’offerta iconografica del catalogo IG.
E a fronte di alcuni stop, prodotto di un effettivo interesse per l’immagine che ho davanti, il resto è uno scorrere rapido e indistinto.
Salvo la riga Piace a Anta de Laporta e migliaia di altre persone.
Che ha una sua grafica riconoscibile e densa di aspettative…
Disinteressarmi delle premesse quali che siano – se i numeri che vanti siano un pacco o meno… se sei famoso/sa… se… se tutto.
Guardare solo il prodotto iconografico visto che IG è un luogo iconografico dove la parola sembra bandita e per tutto questo tanto apprezzato.
Esattamente di ciò che mi occupo, è il mio lavoro produrre fotografia, relazionarmi direttamente col prodotto visibile.
E allora che prodotto sia.

Anche a sforzarsi di prendere tutto sul serio mi sembra emergere un distinguo fondamentale tra ciò che è stile e ciò che è linguaggio.
Tanto stile, poco linguaggio.
Dove per stile intendo alla maniera di.
Di ciò che detta il costume; di ciò che è di immediata fruibilità; di ciò che è fresco – fresco?; di ciò che è nel mood. Nel mood…

Di ciò che è facilmente replicabile.
Di ciò di cui a me non frega un cazzo.

E il punto è esattamente questo: Instragram è solo un luogo di accoglienza.
Che proprio nel conforto dell’accoglienza prevarica il peso specifico dei contenuti qualsiasi essi siano.
Dove semmai i contenuti, estetici per ciò che mi riguarda, si mischiano alle mutande o alle tette della qualsiasi o a qualsiasi altra cosa.
E se è alla fotografia che miriamo, occorre mirare bene per districarsi da una produzione mainstream di bassa, bassissima lega. Nella migliore delle ipotesi aggrappata, appunto, allo stile.

IG ha un contenuto, una qualsiasi visione, un solo elemento intellettuale di distinzione?
Zero. Il suo numero perfetto: zero. Che è tutto.
E così ti accoglie.
E così mi accoglie.
Ma non penso che sia alcun strumento.
Molto semplicemente vedo gente. A volte faccio cose.
Ogni tanto intercetto un fiore che urla.
Per il resto siamo un po’ tutti muti.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

E migliaia di altre persone…
Ognuno tragga le conseguenze che vuole da questa sintesi visiva.
Che è tutto dire affiancata a Anta de Laporta e le altre migliaia di persone.

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Fotografia e Caos

New York 2006 by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedNew York, Chelsea – Dicembre 2006

La fotografia… quella maiuscola, quella minuscola.
Bisogna misurarsi con la fotografia se intendi usarla.
Non come un’etichetta, una dichiarazione di intenti delusi, una ricerca di collocazione.

Proprio usarla e che non sia la declinazione stemperata di un qualsiasi mercato al quale ambire.
Se invece non ti misuri, non la usi, rischi di essere solo UN fotografo.
Come un dattilografo vieni superato dalla frase che sempre, proprio sempre, ti precede.
E tu a rincorrere.
E a me non interessi. Se non ti esponi, non mi interessi.

Perché non riconosco alcuna autenticità.
Non la vedo.
Preferisco di gran lunga distonia e contraddizione alla sintonia mainstream.
Alla quale diversi ambienti hanno ceduto.
Risultato: come passare dall’arbitrio del linguaggio alla certezza, tombale, della decorazione. Che riempie – la parete, la pagina, il monitor – e non impegna.


La fotografia è per me essenzialmente un luogo di conforto.

Lì tutto trova ordine. Il mio caos trova forma.
E questa è l’unica misura che mi riguarda.
L’unica risposta concreta alla fatidica domanda: perché fotografi?
Che poi, davvero, sembra la domanda di ammissione a chissà quale cerchia.
A chissà quale altare.

Cazzate. A me serve solo redimere il caos.
Per questo serve disciplina.

Perché diventa accettabile, anzi no… a f f r o n t a b i l e anche la miseria.
La propria.
La propria caducità.
E lo sgomento di fronte all’idiozia della morte.

La fotografia, la nostra, si misura coi nostri limiti, non con quelli degli altri.
Col nostro essere imperfetti, prerogativa del linguaggio.
Senza affanno. Non è una gara. Nessuna competizione.

Una dialettica incessante. Un flusso.
Che si interrompe solo nel momento in cui davvero ti accorgi che sì, adesso fotografi.
Adesso comincia il ballo. Quindi balla. Non pensare.
Poi riprendi il flusso. E non importa dove ti porterà.
Vale per tutto: assignment, progetti cosiddetti personali, foto ricordo e istantanee al seguito.
Nessuna zona franca. Nessuna fotografia aliena al mercato.

Non ho bisogno di fotine che arredino il tinello…
Ma di una fotografia che esprima visivamente pensiero.

Non c’è da star lì a contorcersi per evincere alcunché: forma e contenuto coincidono.
E si vedono.

Se non si vedono non c’è stampella che tenga. Nemmeno verbale.
Qualcuno sa spiegarmi una certa deriva cromatica dal sapore sensazionalistico?
Una sorta di glassa spessa quanto basta che avvolge come una garza.

Il filtro identitario per l’ammissione al mercato visivo ancor prima che monetario.
Una giostra: c’è chi sale c’è chi scende.

Ma il prodotto è sempre lo stesso: piatto.

Tutto concorre alla definizione di una identità.
Nulla è eludibile e la dialettica tra gli elementi definisce il piano espressivo.
L’impressione che ricavo nel vedere certi, molti lavori, anche alcuni recenti zona Covid di grande risalto mediatico, è quello di uno scollamento secco tra forma e contenuto.
Dove la forma perde qualsiasi declinazione estetica. Appannata da un estetismo fine a sé stesso.
Un po’ come il contenitore Instagram, che pare essere il vero punto di riferimento culturale. E se così, non è più un semplice contenitore dove ognuno si esprime come gli pare.
Ma un luogo forte per un pensiero povero che detta le regole del successo.

E non esiste altro che questo: il successo. Che diventa ideologia del traguardo.
La dittatura del numero vuoto. Mera espressione quantitativa.

Tutto ciò non delinea una fotografia cambiata, ma la supremazia del gusto sul linguaggio. Una robetta di costume. Una scorreggia.
Questa non è fotografia ma solo il luogo markettaro per eccellenza.
La cosa più immediatamente commerciale che abbia visto.
Proprio supina al marketing di bassa lega.

Una retroguadia culturale ha preso in mano il megafono. Urla a piene pile e ha un grande riscontro. E esercita un potere tipicamente discriminatorio nei confronti delle competenze. Tutto si mischia affinché nulla emerga.
In ogni ambiente.
Perché un potere mediocre ha il fascino dell’accessibilità.

E non mi stupiscono le accondiscendenze intellettuali, presunte o reali.
Le convivialità giovanilistiche mainstream…
Non mi stupiscono gli ammiccamenti sprezzanti, la gioia neanche tanto celata per l’estromissione di qualsiasi reale pensiero estetico: meno la fotografia si esprime e più è fruibile. Cioè merce.
Oggetto d’arredo se va bene.


La defenestrazione della competenza non riguarda affatto il piano artigianale, la tecnica, l’esperienza e tutto quanto può essere inteso come mestiere, la professione.
Tutto ciò viene ancora riconosciuto. Sul mero piano esecutivo al minor costo possibile.
E infatti non è questa l’attenzione, la mira, degli intellettuali di cui sopra.

Invece riguarda la capacità di declinazione espressiva che ha nel linguaggio il suo centro.
E il linguaggio richiede competenza. Manipolazione grammaticale.

Insomma la consapevolezza del talento. E l’imprescindibilità del dubbio come forza motrice.
Questa la mira: la messa al bando dell’autorialità.

Partecipante a chiacchierata social:
Sta succedendo che non si vuole accettare un cambiamento. Molto banalmente.
Anch’io partecipante. Con domanda a riguardo:
Sto cercando di capire… per cui la mia è una domanda per nulla retorica: quale cambiamento?
Nessuna risposta che fosse d’aiuto.
Cosa significa cambiamento? Che poi, ma chi lo dice che di per sé sia foriero di positività.

Prima però, per favore prima di esprimersi, sapere di che cambiamento si parla.
La fotografia si occupa dell’invisibile.
La fotografia è utopia.
Guardiamo due cose diverse, è chiaro?

Non ho parlato di me. Ma della fotografia che amo e dei fotografi nelle cui vene scorre sangue.
E si vede.

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Portandomi dietro due fotocamere

Sono giornate così, sostanzialmente in rete.
E non c’è nulla di virtuale.

Due interventi due. Diversi.
Per Maledetti Fotografi, magazine fondato da Enrico Ratto.
Solo audio, due minuti: Quella volta che tutto è cambiato.
Che per me sono state due. Più una terza, forse, che ci riguarda tutti.

Per AFIP International nella rubrica ESERCIZI PER FOTOGRAFI IN PANTOFOLE.
Io no pantofole. Non fosse altro che per un fatto estetico.
Una chiacchierata con Giuseppe Biancofiore, una diretta sul canale Instagram di AFIP, un’ora e un quarto.
Non avevo mai fatto una diretta. Mi ha fatto molto piacere.
Per la prossima a chissà quando. Non vedo l’urgenza: le cose che avevo da dire nella circostanza, le ho dette qui.

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Grande Boh

Grande Boh è l’entità più contemporanea che esista.
La maxi pozzanghera dello sguazzo pop.
E del galleggiamento forzato che non molla neanche un millimetro dello spazio guadagnato a suon di scorregge in multicolor.
Così almeno si può dire con certezza che è un luogo maleodorante.
Ma variopinto…

Se però volessimo andare oltre la constatazione sarebbe opportuno lasciare la pozzanghera al suo perimetro. E chi ne ha voglia, altrove. Giusto per verificare alcuni punti cardine del Grande Boh da una prospettiva altra.
Magari per dare un peso specifico all’indignazione.
Che non è il lamento, in genere chiassoso e alla fine connivente, ma proprio la necessità vitale di prendere le distanze.
Non a parole, coi fatti.
Ristabilendo l’arbitrio e la presunzione come valori inalienabili dell’autore chiunque sia.

E che ha un solo luogo per esprimerli: l’opera.
Quindi rimettere l’opera al centro.
Mentre nel Grande Boh al centro c’è l’autore – alias l’artista.

© Efrem Raimondi - Self portrait 2012 - All Rights ReservedPhoto Booth 2012

Non si tratta di una contrapposizione retorica.
Ma strutturale per stabilire l’ordine delle priorità.
Il che prevede una certa alfabetizzazione nel primo caso – un’opera non vale l’altra e chi se ne frega del variopinto piumaggio dell’artista – mentre nel secondo al centro il variopinto piumaggio e l’opera è un dettaglio, il supporto – non il medium, proprio il supporto – di una kermesse che dura finché i riflettori non si spengono. Un fatto mediatico sostanzialmente.
Dove vale tutto e il suo contrario.
E Avedon oppure Diane Arbus a braccetto con Steve McCurry o Salgado…
Insomma decidi da che parte stare.

Ne sei capace?

A margine: sai che posso dire con precisione quando hai acquistato il Huawey P20 PRO solo guardando il tuo profilo Instagram?
Bel Rinascimento eh? Come fai a non accorgerti che qualcosa è cambiato?

Se lasci che tutto sia com’è, tu chi sei?
Ma del rapporto con la tecnologia ne riparleremo.
Après…

In un certo senso invece ne parliamo adesso.
In modo decisamente impopolare.

La riconoscibilità dell’opera è il fondamento di tutta la storia dell’arte.

Lei – non essa, proprio LEI – riconduce all’autore. Non il contrario.
E suo è il peso determinante.

In fotografia l’alterazione s’è data con l’avvento del digitale nel momento in cui questo è stato posto come forma espressiva sostitutiva. In sé bastante e a sé riconducibile.
Ma tutti questi cieli da tregenda sparsi per un mondo indefinito… ma qual’è il tuo?
Tutti questi occhi retroilluninati a qualsiasi latitudine, che schizzano dalla faccia, ma di chi sono?

Non esiste alcuna dicotomia tra analogico e digitale. Conta sempre e solo il prodotto.
Cioè l’opera.
Io non distinguo: n
é l’uno né l’altro percorso hanno in sé le stigmate della nobiltà.
E non è il caso di immolarsi su nessun altare.

Perché non c’è altare.
Semmai si incontra del pregiudizio dall’una e dall’altra parte.
Il punto vero della faccenda, il vero bivio, è la consapevolezza.

Siamo di fronte a due postulati nativi: la realtà dell’analogico e l’iperrealtà del digitale.
Nessuna delle due ha significato in sé espressivo. Nulla insomma da sbandierare se l’obiettivo che ci riguarda è dare forma alla visione che abbiamo del mondo.

Tenendo sì conto che la tecnologia ottica, qualsiasi, ha una sua matrice.
E però quella digitale ha una presunzione congenita subdola: dimostrare di poter vedere meglio dei nostri occhi.
Arrivare là dove noi non immaginiamo. Letteralmente così.

Peccato… quanto sforzo tecnologico sprecato: la fotografia, almeno quella alla quale penso, non ha alcun obbligo dimostrativo. Non una galleria di performance.
Ne ha un altro ben più ambizioso: ridurre la distanza tra l’intenzione e l’opera.
I nostri occhi al pari di qualsiasi altro strumento ottico: senza stomaco, senza cuore, senza cranio, senza pelle, son ciechi. Muti.

La fotografia non esiste. Senza di noi è zero.

È così che mi aggrappo al mio postulato: la fotografia si occupa dell’invisibile.
Il nostro percorso è quello di renderlo visibile.

Come non Perché, il differenziale.
Per chiunque abbia un linguaggio il perché risiede nell’urgenza di esprimerlo.
Il come lo identifica.
È sorprendente che un sistema accompagnato da un software nato per distinguere crei omologhi.
È sorprendente la mia ingenuità indignata di fronte a certi parterre cinguettanti.

Ognuno intercetta solo ciò che lo riguarda. Dovunque si annidi, la visione è questo.
La manipolazione di tutti gli strumenti in subordine alla mira.
Ma cosa si crede che faccia un artista?
Alla faccia di tutte le superpippe contemporanee, da sempre l’artista è votato all’opera. Intimamente sa che questo è l’unico successo.
Qui la sua potenza.

Pena la dannazione, una volta che quel faretto mediatico si spegne, di trovarne un altro.
E quella luce lì non sarà mai sua. Non lo è mai stata.

Non c’è nessuna buona luce. C’è solo la tua. E sta altrove.
Boh…

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Would you like us to stabilise it?

ROUGH ONE ©Efrem Raimondi

Would you like us to stabilise it?
No thanks… I do the same in photography. It’s a disease.

Lo standard è indubbiamente altro. Anche l’attualità.
Ma quanto mi piace a volte essere altrove in compagnia di una folaga…
Ma quanto mi piace, sempre più spesso, essere altrove e shakerare il mondo che mi capita…

Gliel’ho detto a YouTube che non è un inciampo tecnico, non un raptus emotivo… che invece è proprio una malattia congenita che all’occasione si manifesta. Così senza preavviso, senza apparente causalità.
Da un bel po’ shakero…
Senza motivo comincio a sbattere tutto.
E ti giuro che sbatterei anche te, sempre alla ricerca del senso e del messaggio.

Non ti posso aiutare… non ho la minima idea di cosa faccia. 

Qui ROUGH ONE, video 2012… fatto con una compattina Ricoh.

ROUGH ONE ©Efrem Raimondi

INSTA 77 ©Efrem Raimondi

Qui INSTA 77, una iPhonata 2016 piazzata ieri su Instagram. Dedicata ai seguaci della bella calligrafia.

Qui davvero tutto il mio disagio quando vedo e non capisco.
Mi rifiuto di capire…
Perché le conseguenze del capire non riguardano la fotografia.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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La matrice


La matrice è una.
Il soggetto un pretesto.
La mia fotografia, sempre la stessa.
Ti piace. Bene.
Non ti piace. Bene.

 

Randa 149 ©Efrem Raimondi - All Rights Reserved

     Randa 149, 2016
     From the series INSTARANDA

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Instagram terapia. Giovanni Picchi interview

 

Giovanni Picchi by Efrem Raimondi - All Rights Reserved

           Giovanni Picchi, aprile 2016. © Efrem Raimondi – All Rights Reserved           

Giovanni Picchi e io ci conosciamo da una quindicina d’anni.
Forse di più. Dai tempi dell’agenzia Grazia Neri.
Co-fondatore dell’agenzia LUZ Photo, che mi rappresenta, ha un rapporto diretto con la produzione fotografica da un ventennio.
È persona solare, lo stimo molto, e nutro del vero affetto nei suoi confronti.
Tutto ciò non è per nulla scontato, soprattutto se è di fotografia che parliamo.

Un bel giorno sul suo account Instagram vedo la sua faccia, diversa… un selfie si direbbe, che mi fa letteralmente saltare dalla sedia: rasato e dimagrito, modello punk… solo è evidente che non può essere.
Gli scrivo e poi lo chiamo.
Chemio…

E tutto quanto a seguire. Più o meno all’inizio di quest’anno.

Ho cominciato a monitorare – il termine è esatto – la sua produzione Instagram. 
Per accorgermi a un certo punto che stava facendo un percorso fotografico su sé stesso. Senza chiamarlo Progetto
In mezzo a tanta produzione confusa e inutile, manieristica e brutta, questa ha per me un senso. 
Che è terapeutico, ma anche fotografico.
A me interessano entrambi.
Ed è il motivo per cui siamo qui.
Gli ho chiesto se gli andava di parlarne usando la formula dell’intervista: sì.
Allora la pubblico integralmente.

Insieme abbiamo fatto anche una piccola selezione delle immagini che ha pubblicato sul suo account Instagram.
Non aggiungo altro a riguardo: dall’intervista emerge tutto.

Prima di attaccare il registratore, l’ho ritratto.
Non potevo evitare… è sempre da lì che parto. Per tutto.
Quasi tutto…
Poi abbiamo mangiato una zuppa di lenticchie gialle.
Una signora zuppa, con curcuma e zenzero.
Quindi, Play

ER – Partiamo dall’inizio: la cosa che mi ha scosso guardando il tuo account INSTAGRAM è che il tuo rapporto con l’immagine, la fotografia per meglio dire, a partire da un momento preciso è cambiato. Violentemente direi. E coincide con l’approccio terapeutico alla malattia… ci puoi dire cos’è successo, o per meglio dire, cosa ti è successo per aprire pubblicamente il tuo sguardo rispetto a ciò che stavi, e stai, affrontando?
Giovanni Picchi – Dunque… questa è la seconda recidiva della malattia…
Possiamo dire di che malattia si tratta?
Assolutamente sì. È un sarcoma, un tumore quindi, la cui prima manifestazione è stata nel 2001, avevo 28 anni, e l’ho vissuta tenendomi un po’ dentro questo problema. Forse anche perché era ancora un periodo in cui la parola tumore, cancro, non si esprimeva con grande facilità e poi…

Scusa Giovanni, allora ti eri comunque posto il problema di esternarlo e hai fatto una scelta di chiusura o… anzi diciamola tutta: ti eri posto il problema di usare un medium come la fotografia per esternare il percorso clinico e personale, o no?
No, assolutamente no. Proprio non ci ho minimamente pensato.
Ne erano a conoscenza soltanto gli intimi.
Diciamo che però la malattia è tornata in maniera importante lo scorso autunno e lì, visto il ritorno, ho fatto la scelta di cambiare approccio… ho proprio deciso di esternarlo.
Perché?
Be’ intanto c’è da dire che a causa della malattia, della sua ricomparsa in questa forma più aggressiva, ho deciso di cambiare tanti approcci della mia vita… perché questa è una recidiva… la malattia che ritorna… in qualche modo ce l’ho dentro, non l’ho mai tirata fuori e quindi… insomma non posso dire con certezza che questo suo ritorno sia dovuto al fatto che io non abbia esternato, ma è certo che ho sentito fortemente il bisogno di sputarla fuori.

Perché hai deciso di usare la fotografia?
Perché mi risulta più semplice… c’è da dire che ho iniziato con l’idea di fare un diario personale, a partire dal primo intervento che è stato l’ottobre scorso, ma non con l’intenzione di pubblicare… pensavo che mi servisse per guardarmi un po’ dentro… e anche fuori.
Poi quasi come un processo di maturazione e precisazione di un percorso che ho ritenuto subito terapeutico, ho deciso di buttare tutto fuori, di esternare. E quindi Instagram e il social network più in generale.
La fotografia è immediata… e poi è la forma di comunicazione che più mi appartiene pur non essendo un fotografo… sono vent’anni che lavoro con la fotografia e di fotografie ne vedo proprio tante, quotidianamente… la fotografia mi piace e mi piace farla amatorialmente e per una volta ho pensato che volessi usarla, proprio usarla in prima persona.

©Giovanni Picchi - All Rights Reserved

Sfogliando questo tuo album ho immediatamente pensato a due cose.
La prima: pur usando uno strumento come l’iPhone ed essendo tu stesso autore e soggetto, non ci troviamo di fronte al selfie tradizionale. Sembra tutto più prossimo all’autoritratto, che è strumento di un’indagine più intima.
La seconda, in qualche modo più importante se si intende fare fotografia, e cioè che la ragione, il cosiddetto perché, è davvero una reductio ad unum: raccontare la propria storia.
Ed è esattamente l’esigenza primaria per chi fa fotografia. Indipendentemente dal soggetto.
Quando hai iniziato col diario, ti sei posto dei limiti e una eventuale meta, o hai semplicemente fatto e poi si vedrà… una sorta di work in progress così com’era, senza alcuna pianificazione…
No, non c’è stata alcuna pianificazione.
È iniziata per documentare il primo intervento chirurgico, poi si è delineato quello che sarebbe stato il percorso terapeutico, inclusa della chemio piuttosto pesante e lì, proprio a partire da lì osservavo il cambiamento fisico della persona. Che volevo documentare, anche a scopo terapeutico dove per terapeutico intendo proprio la volontà di esternare il mio cambiamento…
Scusa se ti interrompo: ha un destinatario questo percorso iconografico che hai deciso di rendere pubblico?
Direi di no… poi sai, per come tecnicamente funziona il social network… per esempio ho evitato hashtag particolari per andare a raccogliere all’esterno di quello che invece è il mio network. Quindi forse se un destinatario c’è è proprio una precisa cerchia di persone.
Dalle quali ricevo una energia positiva…
In che modo?
È proprio nel principio della comunicazione, nell’esigenza direi primaria che ho di raccontare l’esperienza che sto vivendo. Anche attraverso il cambiamento della mia persona, del mio fisico, della mia immagine più immediata. E sapere, avere testimonianza del fatto che c’è chi raccoglie… che poi non è la pacca sulla spalla, ma proprio il fatto che davvero c’è qualcuno che intercetta questa mia esigenza di esternazione. Già solo questo mi aiuta e mi fa stare meglio.

Dunque… la prima volta che si è manifestato il tumore avevi ventotto anni e non hai pensato neanche lontanamente di esternare un bel niente. Adesso ne hai quarantatré e l’atteggiamento è opposto. Una sorta di estroversione… Trovi che questo passaggio brusco sia positivo? Ma anche pensando a una terapia più ampia, non conclusa insomma in quella medica…
Assolutamente positivo, non fosse altro che a differenza di allora non ho alcun problema a parlare del mio problema… non ho nessun problema [ride] non ho vergogna. A differenza di allora, che però ero molto più giovane e forse va messo in conto.
Be’ certo, anche perché non si può certo trascurare che in qualche modo questa attualità può avvalersi della precedente esperienza, quella nella quale ti sei rifugiato in una comprensibile introspezione e nel silenzio
Ecco appunto, adesso so che il silenzio non ha fatto bene. Non in termini assoluti chiaramente, non voglio generalizzare: so che non ha fatto bene a me

Vedo distintamente il percorso del tuo Instagram… adesso, proprio adesso andando a memoria: un percorso piacevole, lineare, le vacanze… e quelle con un chiaro intento fotografico: tutto piacevole… tutto compreso direi simile ad altri, di quelli con gusto e senza strappi. Poi, me lo ricordo bene, improvvisamente uno shock… tu rasato con gli occhi piantati nell’obiettivo. Ti ho telefonato
Sì ricordo. Io abbastanza disinvolto a parlarne e tu un po’ rigido
Davvero in questo non c’è come la fotografia… uno shock.
Derivato anche dalla conoscenza diretta della persona che vedevo e che non lasciava alcun dubbio… non ho pensato insomma a una improvvisa nostalgia punk.
Ecco, da quel momento il tuo Instagram ha una cifra precisa, che non comprende praticamente altro… sì ogni tanto compare qualcosa, ma è come sfumato, risucchiato da una nuova e netta centralità: il tuo rapporto con questo tumore di merda… dove ti porterà? Fotograficamente intendo, fin dove ti spingerai? Dove deciderai di interrompere?
Anche perché molte immagini sono piuttosto forti.

Ipotesi splendida: decorso positivo, tutto risolto e fine del diario?
Cosa succede a questo percorso fotografico?
Ehhh… in realtà non ci ho pensato. Adesso è difficile pensare a questa ipotesi splendida che tu tratteggi [risate robuste] perché il percorso sarà piuttosto lungo. Be’, può essere sicuramente uno start per continuare a raccontarsi in maniera molto diretta, senza eccessive mediazioni. Questa recidiva, che è certamente più tosta dal punto di vista clinico, e proprio l’aver pensato a un certo uso della fotografia, come dicevo prima anche terapeutico nel modo più ampio, che cioè coinvolge l’interezza della persona, la mia vita e gli atteggiamenti, questa recidiva dicevo mi ha dato l’opportunità di riflettere su molte cose. E di cambiarle. Quindi non escludo affatto che anche in assenza della malattia possa avere un seguito. Come, in che forma, non sono in grado di definirlo adesso. Quello che so è che adesso, questo percorso fotografico, questa tranquillità nell’esporlo, mi fa bene.
E mi fa davvero bene. Perché il fatto di raccontare, senza voler essere necessariamente new age, mi restituisce un’energia positiva che mi serve molto.

Non c’è assolutamente un uso esibizionistico del social network… parlo di qualcosa di profondamente vero… e forse è il pretesto per raccontarsi, un modo di mettersi in gioco per ciò che realmente si è.
La malattia, per me, è una opportunità di cambiamento e se si riesce a viverla così forse… forse anche questo è parte del percorso della guarigione.

I tuoi figli hanno accesso al tuo account?
No. Ma puramente per una questione anagrafica, sono ancora piccoli…
Quindi non hanno mai visto queste immagini…
No… però mi vedono di persona! E devo dire che l’atteggiamento di condivisione ce l’ho anche con loro: mi vedono esattamente così, cambiato a seguito di questa malattia e delle cure che sto affrontando.
Sì vero Giovanni, però un conto è vederti in camicia e in movimento, un conto è vedere alcune delle immagini che hai pubblicato… la staticità, fermezza descrive meglio, della fotografia amplifica l’impatto emotivo
Certo, però da questo sono protetti, non hanno accesso ai social network.
E non credo che abbiano un altro modo di vederle, tipo l’amico dell’amico… no, non credo proprio. Comunque se dovesse accadere non credo sarebbe traumatico proprio per come anche con loro ho affrontato questo percorso clinico…
Ma anche per quello che potrebbe riguardare la mia famiglia, sinceramente il problema non me lo sono posto, perché fa parte prorprio del voler buttar fuori… è insomma davvero un fatto terapeutico che mi fa stare bene. E che quindi serve così com’è

©Giovanni Picchi - All Rights Reserved

Più in generale dal punto di vista fotografico, in questo percorso c’è stato un qualche riferimento o no?
No, alcun riferimento… sai, poi è tutto iniziato come diario, come una raccolta di istantanee e quindi mi fotografavo pronti via… senza neanche pensarci troppo
E c’è una cadenza? Da cosa è determinata?
I momenti terapeutici a partire dall’intervento chirurgico, prima e appena dopo. Poi durante i vari cicli. E assolutamente post ciclo, perché è il momento di maggiore caduta fisica e psicologica… poi sai, c’è anche l’effetto accumulo e mentre i primi cicli li reggi meglio man mano diventa sempre più pesante. E a pensarci è proprio in questo apice che diventa per me importante documentare… mi aiuta davvero molto

Non è possibile prescindere dalla conseguenza del gesto… l’immagine che ti viene restituita, la tua immagine, ti aiuta?
Mi aiuta sì. In consapevolezza… però c’è anche da dire che a volte c’è l’effetto sorpresa perché in fondo conservo ancora una memoria del me precedente… insomma un certo effetto straniante…
Quasi ci fosse una distanza della quale prendi davvero consapevolezza nel momento della restituzione dell’immagine?
Sì, un po’ sì pensandoci adesso. Però mi serve molto perché mi certifica una attualità rispetto alla quale devo rimanere molto vigile.
Anche perché la sto prendendo un po’ come una battaglia…
In effetti perdonami, alcune tue immagini sanno di ”guerriero” e a proposito: hai anche qualche t-shirt con in mezzo la tua dichiarazione di guerra: #attack

©Giovanni Picchi - All Rights Reserved

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[ride di gusto] Sì sì… quella con l’hashtag me l’hanno regalata i colleghi, poi una dai cugini e altre… è diventato anche un gioco divertente tutto sommato. È una vera battaglia insomma, e come in tutte le battaglie occorre avere una certa lucidità… e forse guardarsi restituito ha anche questo scopo: non perdere di vista l’obiettivo
Prima ti ho ritratto… molto tranquillamente, niente computer tutto in macchina. Però le immagini le abbiamo guardate sul display, non abbiamo evitato, e soprattutto non hai evitato tu. Immagini dirette, qualcuno potrebbe anche dire violente… tranne i mossi le altre hanno una certa coerenza con alcune tue, eppure guardandole hai avuto un sobbalzo che ho avvertito istantaneamente e mi ha sorpreso: cos’è è successo? Cosa cambia rispetto ai tuoi autoritratti? Di fatto stiamo parlando di immagini parenti…
Bah… sì vero, ho avuto un sussulto… ma forse perché come dicevo rispetto alla memoria che ho di me… insomma non sempre sono così agganciato all’attualità… o forse è un po’ l’effetto specchio perché mentre mi sto fotografando con l’iPhone mi vedo e mi concentro forse di più sullo scontro col tumore e anche quando prima si diceva del guerriero, non escludo che un po’ di recitazione ci sia da parte mia. Mentre quando mi hai fotografato tu non avevo alcun controllo
Ma può essere che mentre ti stai ritraendo, tu trascuri alcuni elementi che al momento reputi marginali? Se ci penso ti focalizzi molto sul tuo sguardo… mentre l’immagine poi è tutta quanta, tutto dentro quel perimetro. E a proprosito dello specchio, sinceramente penso che sia una autoriflessione parziale, perché quello sguardo sembra invece essere rivolto a qualcuno o qualcosa che è altro, che è esterno
Ma in effetti rimanendo sulla metafora della battaglia, mi è chiaro che nella circostanza io tendo a caricarmi, a darmi maggiori munizioni nell’affrontare il nemico che ho di fronte. E che però è anche dentro. Tu sei l’unico che mi ha ritratto, non ho precedenti, forse anche questo…
D’accordo l’immagine del guerriero e la metafora della battaglia, comprendo perfettamente… esagerando un po’ una figura epica e …
Be’ a me piacciono molto i Supereroi, così nella letteratura… così mi sono anche divertito a usare certe magliette, che però indossavo anche prima… Credo che consciamente o anche no, affiancarsi all’immagine dell’eroe in qualche modo mi aiuti a combattere questa battaglia

©Giovanni Picchi - All Rights Reserved

Ti sei mai posto il problema della reazione di altri, estranei allo stretto giro che ti appartiene, e che magari potrebbero essere inclini a pensare a un atteggiamento voyeuristico?
Francamente non è questo e quindi non mi sono mai neanche posto il problema

Se sfogliamo le pagine nobili o per nulla della fotografia, ogni tanto incontriamo autori/autrici che si sono ritratti in condizioni poco ortodosse diciamo, con l’intento di interpretare il proprio malessere restituendo immagini inclini all’autocommiserazione.
Invece guardando le tue immagini non trovo alcuna interpretazione del malessere, e anzi è l’esatto contrario: l’interpretazione di un combattimento
Assolutamente sì per quello che mi riguarda. Io cerco il positivo di questo percorso
Io però voglio scavare un po’. Alcune tue immagini sono violente.
O forti se vogliamo usare un eufemismo… e un conto è produrle, un altro pubblicarle. Davvero non ti sei mai posto alcun problema?
No… sinceramente no. Ribadisco poi la convinzione di rimanere entro i confini del mio network, che è fatto di conoscenze dirette
Questa perdonami è un’illusione. Le immagini circolano liberamente in rete…

Allora diciamo che non ho ricevuto alcun ritorno da parte di altri, di persone insomma con le quali non ho rapporto diretto. Però nell’eventualità non avrei alcun problema ad affrontare la questione.
Quindi no, non mi sono mai posto il problema

Così d’emblée: come trovarsi di fronte a un bivio… se uno decide di raccontare sé stesso, a questo livello, lo fa senza schermo alcuno. Altrimenti diventa solo la parodia di un racconto.
Può essere che proprio la criticità della condizione abbia sciolto qualsiasi ritrosia da parte tua? In fondo è come oltrepassare un confine avendone piena coscienza. E controllo. Anche di fronte all’estremo di certe scelte iconografiche ci si autolegittima, indipendentemente dal grado di accetabilità, sociale in generale ma dei social in particolare. A me sta bene eh… solo per capire
Anche a me sta bene… se posso dire mi starebbe bene anche da fruitore. I social network sono strumenti un po’ omologanti, è proprio nelle regole: se il 50% pubblica ciò che mangia anche io mi adeguo. Nulla da scardinare, però da fruitore mi piacerebbe vedere qualcosa di più sincero, diretto e anche umanamente coinvolgente.
In che misura secondo te questa produzione ha una valenza fotografica? Ti interessa che l’abbia? Perché oltre qualsiasi discorso, una scelta estetica l’hai fatta
Mah… in un certo senso mi interessa anche… nella misura che si diceva prima e cioè di uscire da una certa omologazione, da certi cliché, anche comportamentali nei confronti della fotografia sui social. Però non c’è altro… non ricerco consenso.

Tu sei co-fondatore di Luz Photo, e hai una abitudine professionale all’immagine. Questa tua produzione, che non ha nessuna pretesa se non quella di riguardarti intimamente, è secondo te in qualche modo in conflitto con la tua figura professionale?
No… non c’è conflitto… a me la fotografia piace e mi piace farla anche se non sono un fotografo. Sono una persona di questo tempo e con questo tempo mi misuro… uso la fotografia, questa fotografia per ottenerne un beneficio. E poi per me è un tutt’uno… non vedo conflitto con la mia figura professionale… anzi direi che c’è coerenza.
Vediamo e produciamo tantissima fotografia anche inutile e…
Ecco qui scusami ti interrompo perché se no dimentico una cosa per me importante. Forse vediamo e produciamo tantissime fotografie e poca fotografia. Spesso ciò di cui sento la mancanza in ciò che vedo, forse anche superficialmente ammetto, è il gesto: vedo bei compitini – ma anche no – assolutamente privi di gesto. Come rimanere sempre a una distanza dalle cose, da ciò che accade.
Forse abbiamo anche perso il soggetto, cioè noi e ciò che intimamente ci riguarda e che poi dovrebbe essere il vero motivo per cui si fotografa.
Qui vedo invece una persona che si appropria davvero della propria soggettività e la traduce con un linguaggio che gli appartiene…
Che mi è famigliare… sì, in qualche modo è così

In alcune tue immagini noto un certo cinismo, proprio nel trattarti e mi riferisco a quelle che almeno a me hanno immediatamente evocato la morte, poi per pudore possiamo tutti far finta che non è così e non se ne parla…
No, parliamone
Per esempio quel video che sembra quasi un GIF animato, nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna col sottofondo del Requiem di Mozart… più che una modulazione ironica mi è parsa cinica
Vedere la morte e raffigurarla è anche un modo per esorcizzarla… sai, saperla sempre presente e non vederla perché si nasconde… insomma se la vedi ne prendi una immediata consapevolezza e provi a difenderti, in qualche modo rapportandoti
Questo cinismo, o meglio, una certa saltuaria rappresentazione cinica, in qualche modo mi ha evocato una dialetticca con la morte, una dialettica per nulla evitata
Ne ho semplicemente preso atto. Del resto la trasformazione fisica, un certo deperimento, questo asciugarsi… insomma un’immagine sinistra, indubbiamente. E allora questa dialettica che dici è stata inevitabile: se lei, la morte, si nasconde ma è presente, voglio stanarla… far finta, nascondermi a mia volta, non è utile alla causa.
Poi ci sono circostanze casuali… per esempio mi sono trovato davanti a La vita e la morte di Klimt e mi sono messo in mezzo… un gesto che ritengo semplicemente ironico

Stai in qualche modo didascalizzando, anche? Non so, alcune immagini le sento decisamente più intime e tue, altre, forse le più facili, mi sembrano più a uso esterno, rivolte a altri mi viene da dire
Non c’è una premeditazione, però sì, è vero. Questa di Klimt certamente lo è. Quelle che invece mi appartengono intimamente, come dici tu Efrem, sono quelle relative ai momenti di solitudine, in genere post-terapia, quando sono lì da solo un po’ a rimuginare, con però la determinazione a resistere… vale sempre la metafora bellica. Se mi viene detto, come mi è stato detto, che la settimana post chemio è quella nella quale ci si lascia un po’ andare, non si ha voglia di far niente, anche perché oggettivamente indebolito, ecco questa è la settimana nella quale lotto di più. Proprio per evitare…
Un fattore reattivo insomma
Assolutamente sì

Ci sono due aspetti di questo percoroso INSTAGRAM… di quello terapeutico abbiamo detto. C’è poi un fatto di linguaggio estetico che tu comunque non trascuri. E che io riconduco a una matrice espressiva punk: diretta, non leziosa, di glam manco a parlarne… insomma con un suo peso specifico. Secondo te Giovanni, potrebbero queste immagini fare testo a sé? Cioè indipendentemente dalla malattia…
Ma in effetti anche questo, moderatamente ovviamente. Però se vuoi il percorso clinico è stato anche questo: cioè l’opportunità di affrontare in prima persona un’altra fotografia, e di misurarmi anche da questo punto di vista sulle mie intenzioni espressive… intorno a una questione che mi riguarda profondamente.
Volendo esternare con l’immagine, ho dovuto necessariamente farmi carico anche del modo espressivo.
A ben pensarci il motivo iniziale è terapeutico, poi però ho cominciato a immaginare che potevo avere in mano anche un qualcosa con una valenza iconografica… che avesse una certa coerenza

Ultima domanda: perché hai accettato questo confronto, qui sul mio blog?
Be’ innanzitutto perché quando ci siamo sentiti le cose che mi hai detto, poche ma chiare, ho sentito che proprio mi riguardavano e riguardavano quello che sto facendo sia di fotografico e anche come gesto diciamo poco consueto. Per quanto esiste una ricca letteratura a riguardo, cioè di protagonisti di storie simili che ne scrivono e parlano pubblicamente, più o meno come sto facendo io. E poi mi interessava molto sia parlarne sia essere fotografato da te, da un’altra persona con una visione diversa, esterna.
E sento già esserci un beneficio, un momento di arricchimento di questo mio percorso di vita. Perché è di vita che abbiamo parlato, e per questo ti ringrazio molto.

Milano, aprile 2016
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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So che ho dimenticato di chiedere qualcosa.
E forse Giovanni di rispondere.

Questo lo scrivo adesso. A due anni di distanza…
Giovanni ci ha lasciato. Stamattina.
Lunedì 21, presso la basilica di Sant’Eustorgio, Milano, il saluto.
Alle 9.
Un grande dolore. Non aggiungo altro.

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INSTAGRAM BUTTERFLY

 

© Efrem Raimondi. RANDA 122bis

 

INSTAGRAM era una roba, e adesso è un’altra.
Ma come tutti i social, chi se ne frega del contenitore: sei tu che gli dai forma.
Talvolta anche contenuto.
In Fotografia le due questioni concorrono all’unisono.
Nei casi migliori coincidono.
Poi c’è stato l’avventarsi di grandi marchi e di aziende particolarmente inclini a una comunicazione iconica…
Risultati deludenti per alcuni di loro.
Che l’equazione TOT follower = TOT prodotti venduti non è direttamente proporzionale.
Certo marketing se n’è accorto. Dopo. Giusto a flop sancito…
Girovagando: si vedono acccount coreani, qualsiasi, con 4-500 mila follower. E 100 mila like a botta.
E allora? E adesso?
Gli facciamo fare un’autobiografia?
Indossare degli zainetti?
Sprayare profumo al vento?
Messi così, i numeri esprimono solo una quantità vuota.
Messa così è solo una bolla.
Il numero ha una sua complessità non riducibile alla sola espressione formale e quantitativa.
Ma non è di questo che intendo parlare.
Non m’interessa né mi riguarda.

© Efrem Raimondi - odio il concettuale

                           La prima pubblicata non è una fotografia.157 settimane fa

Cosa non è INSTAGRAM per me:
– uno spazio alla ricerca di consenso,
– un luogo competitivo,
– un diario quotidiano,
– un luogo di convenevoli,
– un Twitter fotografico,
– un parametro socioeconomico,
– una fede,
– una pozione magica per fotine occasionali.

Cos’è instagram per me?
Un muro dall’altezza rigida e dalla lunghezza indefinibile dove appendere il mio sguardo in duplice formato.
Al netto di qualsiasi filtro.

Prefisso INSTA: la continuazione della serie Appunti per un viaggio che non ricordo. Interrotta col decesso della Polaroid.
Stessa allucinazione, stesso disagio, stessa intangibilità.
Un viaggio sulla precarietà umana.
Mosso e sfuocato uguale. Solo in iPhone.

© Efrem Raimondi - Instagram account

                           INSTA 10. 156 settimane fa. le prime nove sono altrove. spero

Dieci INSTA

© Efrem Raimondi. INSTA 41

INSTA 41

© Efrem Raimondi. INSTA 42

INSTA 42

© Efrem Raimondi. INSTA 48

INSTA 48

© Efrem Raimondi. INSTA 50

INSTA 50

© Efrem Raimondi. INSTA 51

INSTA 51

© Efrem Raimondi. INSTA 53bis

INSTA 53bis

© Efrem Raimondi. INSTA 55

INSTA 55

© Efrem Raimondi. INSTA 57

INSTA 57

© Efrem Raimondi. INSTA 59

INSTA 59 – una delle rarissime non mosse

© Efrem Raimondi. INSTA 63

INSTA 63

Prefisso RANDA: espressione gergale. Milanese della mala… quella delinquenza che non c’è e non si canta più.
Randagio…
Cioè dove capiti e sei proprio lì. Solo lì. Col piacere di starci.
Non sono un operatore turistico. Sono un fotografo e il godimento lo trovo nel linguaggio. Che mi riguarda o che riguarda altri e che riconosco.
Quindi non previsto alcun appeal dovuto alle semplici coordinate geografiche: New York e le Seychelles sono come Metanopoli e il Lambro.
Ovunque fermo.
E ciò che si vede è.

© Efrem Raimondi - Instagram account

                                                  RANDA 1. 154 settimane fa

Qualsiasi luogo, qualsiasi dettaglio, è il pretesto per una visione immediatamente emotiva.
A scanso di equivoci, anche questo puro iPhone.

Dieci RANDA

© Efrem Raimondi. RANDA 4

RANDA 4

© Efrem Raimondi. RANDA 192

RANDA 92

© Efrem Raimondi. RANDA 97

RANDA 97

© Efrem Raimondi. RANDA 108

RANDA 108

© Efrem Raimondi. RANDA 119

RANDA 119

© Efrem Raimondi. RANDA 122bis

RANDA 122bis

© Efrem Raimondi. RANDA 126

RANDA 126

© Efrem Raimondi. RANDA 142

RANDA 142

© Efrem Raimondi. RANDA 143

RANDA 143

© Efrem Raimondi. RANDA 144

RANDA 144

Il resto che pubblico, qualsiasi resto estraneo ai due prefissi, è un po’ il quotidiano che capita. Souvenir inclusi. E potrebbe essere dovunque a caso.
Qualsiasi social. Qualsiasi medium.
Due prefissi quindi per una galleria a ingresso libero.
Chiunque entra è ben accetto.
Non c’è messaggio, non c’è effetto, non si urla, non c’è nulla da spiegare.
Nessun pro-getto circoscritto. Solo visioni.
A margine: le immagini che più mi riguardano sono spesso quelle col minor consenso.

Vero… era una roba e adesso è un’altra.
Ma tutto era una roba e adesso è un’altra.
Si tratta di capire dove a noi interessa stare.
In che punto.

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Energy for Creativity

ITALO ROTA by Efrem Raimondi

Energy for Creativity…
Cioè la Mostra-Evento che INTERNI magazine organizza quest’anno… Milan Design Week. A breve.
Intanto io sto seguendo una serie di incontri.
Conferenze direi…
C’è chi le snobba. Sì, le snobba: mi chiedo il perché…
Eppure sono un ambito stimolante per fare fotografia, proprio perché succedono sempre le stesse cose.
C’è un moderatore che in genere anche introduce… ci sono dei relatori, degli ospiti, fotografi, un pubblico, video, slideshow, domande e risposte, applausi, drink e selfie.
Poi tutti a casa.
La confezione è questa.
Indipendentemente dall’argomento e dal grado di interesse.
Indipendentemente dall’acqua minerale.

In vistadel Salone Internazionale del Mobile, che parte il 14 di questo mese, mi è stato chiesto appunto dalla rivista INTERNI di seguire l’intero ciclo. Che si sta svolgendo all’Expo Gate, Milano.
Proprio tra lo statuario Garibaldi e il Castello Sforzesco.
Il mandato è semplice: visto che sono sempre uguali e fatte due fotografie fatte tutte, vediamo di raccontarle diversamente.
Ecco… diversamente. Cioè?
Ma diversamente da cosa… diversamente?
Ho guardato la lista delle conferenze mirando ai relatori, tutti architetti che hanno realizzato alcuni padiglioni Self Built e Corporate di Expo Milano 2015.
Alcuni famosi famosissimi anche extra ambiente, altri ben ambientati.

Così ho pensato di fare un servizio di pubblica utilità. Spero.
E faccio le facce. Di tutti. Identico approccio a creare un percorso.
E i relatori sono sistemati…
Poi c’è il resto da raccontare… perché non fare un backstage?
Proprio col senso del rapporto tra formale e informale.
Non rompendo il ritmo che la confezione prevede, questo non ci riguarda, noi siamo tutti dei fruitori in qualche modo.
Però manipolarlo è possibile.
La confezione è quella, proviamo a entrarci davvero cercando la traccia che riguarda più l’emotività e meno il fatto.
Questo mi son detto.

Il tutto, nell’immediato, è concentrato sulla pagina Instagram Internimagazine. Poi si dipana anche sul resto del social della rivista. Facebook in primis nell’album Fuorisalone 2015, quindi Twitter.
Ci sarà poi un editing per il cartaceo. Questo a giugno.
Leggero: no assistente, un 28 mm s’una Nikon impugnata con la mano destra e un piccolo flash che muovo con la sinistra. Talvolta cambio. Questo per il ritratto.
Impugnato come capita un iPhone 4s per tutto il resto.
Il lavoro non è ancora finito. Anzi è appena iniziato.

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MICHELE DE LUCCHI by Efrem Raimondi

Michele De Lucchi

DAVIDE RAMPELLO by Efrem Raimondi

Davide Rampello

MARCO BRANDOLISIO by Efrem Raimondi

Marco Brandolisio

Sergei Tchoban by Efrem Raimondi

Sergei Tchoban

ITALO ROTA by Efrem Raimondi

Italo Rota

Italo Rota by Efrem Raimondi

Energy for Creativity by Efrem Raimondi

Energy for Creativity by Efrem Raimondi

Energy for Creativity by Efrem Raimondi

Energy for Creativity by Efrem Raimondi

Energy for Creativity by Efrem Raimondi

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Football l’alter side

Football by Efrem Raimondi

Football… o futbal, come dicevano i miei nonni e tutta quella generazione lì.
Solo che qui è femminile… cosa cambia?
Nulla. Se non alcune sfumature nello spogliatoio, dove la complicità e il senso di reciproca appartenenza sono più evidenti.
Qui nello spogliatoio, qui in campo, e occasionalmente altrove in streaming, tipo l’ultimo mondiale giocato nel 2011.
Dove ho registrato un altro calcio. Che nell’atteggiamento generale è davvero molto distante da certa parodia gladiatoria, espressione di un’iconografia maschile tutta concentrata sulla rappresentazione del potere.
Questa iconografia a me fa schifo, mentre amo il calcio.
E non c’è come vedere un maschio in mutande che rincorre una palla per capire di che pasta è fatto.
Perché è vero, il calcio è una metafora della vita.
Lo è indipendentemente dal tuo grado di affezione o dall’abitudine a parlarne: chi ha giocato e bazzicato lo spogliatoio sa di che parlo.
Quindi… altro che nulla! Cambia tutto: il gioco è lo stesso, ma le sfumature di cui sopra sono un discrimine.
La minore esposizione delle atlete fa sì che ci si concentri sul merito sportivo e il fair play.
E di palloni mediatici alla Balotelli, al momento, non ce n’è.
Mi sembra un po’ come in fotografia versante Instagram: vi piace tanto Chiara Ferragni?  Godetevela! Poi spiegate a tutti quelli che hanno deluso lei e Mondadori non comprando la sua fatica letteraria The Blond Salade che devono ricredersi e correre in libreria – luogo improprio. Spiegateglielo…

Fiamma Monza, che in questo anno calcistico duemila.zero, militava in serie A.
Allenata da Giancarlo Padovan, allora prima firma sportiva del Corriere della Sera… e da Raffaele Solimeno, ex calciatore… questo lavoro è un reporatge. Lo è a tutti gli effetti. Anche se privo di disperazione e volti scavati dalla sofferenza.
Che per essere lirica e emozionale dev’essere altrui. Mica tua… tu guardi, piangi, fai la coda per la mostra, raccatti il libro e un souvenir e torni a casa contento. Con tua figlia per mano.
Forse è il caso che la pianti di dire che il reportage mi è estraneo, perché poi qualcuno vagamente distratto ci crede, e non appena accenno a parlarne vengo zittito da uno sguardo che dice ma tu che ne sai?
E infatti è una vita che non ne faccio, con una struttura così intendo, che nasce destinata ai magazine. E che poi magari, in qualche singola immagine, trova asilo anche altrove.
Per GQ Italia, quindi un maschile. Quindi si può pensare a una qualche morbosità nascosta nelle pieghe. Ma nascosta bene, perché io non ne vedo. Però fosse stato fatto per un femminile il dubbio non ci sarebbe stato.
Mi chiedo però come mai un femminile non ci pensi oggi a produrre un lavoro così.
Che sia una femminilità non condivisibile? Forse non condivisa da chi i femminili li fa… va be’, che c’entra… non è che quella che viene generalmente prodotta, come idea di femminilità dico, sia poi così condivisa dal pubblico femminile a giudicare dai resi in edicola.
E allora? Ma non è che i femminili si siano invaghiti di un concetto virtuale di donna? Una figura piallata che s’aggira confusa tra le pagine del giornale… un fumetto. Un fumetto magro.

Ricordo la lectio magistralis che mi fece una grande fashion editor molti anni fa guardando le mie donne ben ordinate in un portfolio: le donne amano vedere la proiezione di sé in una figura che le affascini e le faccia sognare: se tu odi le donne non fotografarle.
Ma come? Ma se io le amo! Ci ho messo anni a riprendermi.
Nel frattempo ho continuato a fotografarle.
L’ho rivista recentemente… ingrassata. Le sue donne, quelle che deambulano tra le pagine, sempre più magre.
Le mie stanno bene. E altrove.

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Football by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem RaimondiFootball by Efrem Raimondi

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Questa è una sintesi del lavoro, realizzato in due step: il dittico in notturna esterna durante l’allenamento. Che in realtà è un posato con tutto ciò che comporta, generatori, flash e corredo assortito. E una Pentax 67 col 105 mm.
Stessa sera, spogliatoio con una Pentax 645N.
Entrambe le situazioni con una AGFA APX 100.
Il secondo step la partita, Pentax 645N col 75 mm e una TRI-X PAN 320 PROF.

Assistenti: Fabio Zaccaro e Nicole Marnati.
L’articolo di GQ, firmato da Emanuele Farneti.