La matrice è una.
Il soggetto un pretesto.
La mia fotografia, sempre la stessa.
Ti piace. Bene.
Non ti piace. Bene.
Randa 149, 2016
From the series INSTARANDA
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Condividi/Share
Giovanni Picchi, aprile 2016. © Efrem Raimondi – All Rights Reserved
Giovanni Picchi e io ci conosciamo da una quindicina d’anni.
Forse di più. Dai tempi dell’agenzia Grazia Neri.
Co-fondatore dell’agenzia LUZ Photo, che mi rappresenta, ha un rapporto diretto con la produzione fotografica da un ventennio.
È persona solare, lo stimo molto, e nutro del vero affetto nei suoi confronti.
Tutto ciò non è per nulla scontato, soprattutto se è di fotografia che parliamo.
Un bel giorno sul suo account Instagram vedo la sua faccia, diversa… un selfie si direbbe, che mi fa letteralmente saltare dalla sedia: rasato e dimagrito, modello punk… solo è evidente che non può essere.
Gli scrivo e poi lo chiamo.
Chemio…
E tutto quanto a seguire. Più o meno all’inizio di quest’anno.
Ho cominciato a monitorare – il termine è esatto – la sua produzione Instagram.
Per accorgermi a un certo punto che stava facendo un percorso fotografico su sé stesso. Senza chiamarlo Progetto…
In mezzo a tanta produzione confusa e inutile, manieristica e brutta, questa ha per me un senso.
Che è terapeutico, ma anche fotografico.
A me interessano entrambi.
Ed è il motivo per cui siamo qui.
Gli ho chiesto se gli andava di parlarne usando la formula dell’intervista: sì.
Allora la pubblico integralmente.
Insieme abbiamo fatto anche una piccola selezione delle immagini che ha pubblicato sul suo account Instagram.
Non aggiungo altro a riguardo: dall’intervista emerge tutto.
Prima di attaccare il registratore, l’ho ritratto.
Non potevo evitare… è sempre da lì che parto. Per tutto.
Quasi tutto…
Poi abbiamo mangiato una zuppa di lenticchie gialle.
Una signora zuppa, con curcuma e zenzero.
Quindi, Play…
ER – Partiamo dall’inizio: la cosa che mi ha scosso guardando il tuo account INSTAGRAM è che il tuo rapporto con l’immagine, la fotografia per meglio dire, a partire da un momento preciso è cambiato. Violentemente direi. E coincide con l’approccio terapeutico alla malattia… ci puoi dire cos’è successo, o per meglio dire, cosa ti è successo per aprire pubblicamente il tuo sguardo rispetto a ciò che stavi, e stai, affrontando?
Giovanni Picchi – Dunque… questa è la seconda recidiva della malattia…
Possiamo dire di che malattia si tratta?
Assolutamente sì. È un sarcoma, un tumore quindi, la cui prima manifestazione è stata nel 2001, avevo 28 anni, e l’ho vissuta tenendomi un po’ dentro questo problema. Forse anche perché era ancora un periodo in cui la parola tumore, cancro, non si esprimeva con grande facilità e poi…
Scusa Giovanni, allora ti eri comunque posto il problema di esternarlo e hai fatto una scelta di chiusura o… anzi diciamola tutta: ti eri posto il problema di usare un medium come la fotografia per esternare il percorso clinico e personale, o no?
No, assolutamente no. Proprio non ci ho minimamente pensato.
Ne erano a conoscenza soltanto gli intimi.
Diciamo che però la malattia è tornata in maniera importante lo scorso autunno e lì, visto il ritorno, ho fatto la scelta di cambiare approccio… ho proprio deciso di esternarlo.
Perché?
Be’ intanto c’è da dire che a causa della malattia, della sua ricomparsa in questa forma più aggressiva, ho deciso di cambiare tanti approcci della mia vita… perché questa è una recidiva… la malattia che ritorna… in qualche modo ce l’ho dentro, non l’ho mai tirata fuori e quindi… insomma non posso dire con certezza che questo suo ritorno sia dovuto al fatto che io non abbia esternato, ma è certo che ho sentito fortemente il bisogno di sputarla fuori.
Perché hai deciso di usare la fotografia?
Perché mi risulta più semplice… c’è da dire che ho iniziato con l’idea di fare un diario personale, a partire dal primo intervento che è stato l’ottobre scorso, ma non con l’intenzione di pubblicare… pensavo che mi servisse per guardarmi un po’ dentro… e anche fuori.
Poi quasi come un processo di maturazione e precisazione di un percorso che ho ritenuto subito terapeutico, ho deciso di buttare tutto fuori, di esternare. E quindi Instagram e il social network più in generale.
La fotografia è immediata… e poi è la forma di comunicazione che più mi appartiene pur non essendo un fotografo… sono vent’anni che lavoro con la fotografia e di fotografie ne vedo proprio tante, quotidianamente… la fotografia mi piace e mi piace farla amatorialmente e per una volta ho pensato che volessi usarla, proprio usarla in prima persona.
Sfogliando questo tuo album ho immediatamente pensato a due cose.
La prima: pur usando uno strumento come l’iPhone ed essendo tu stesso autore e soggetto, non ci troviamo di fronte al selfie tradizionale. Sembra tutto più prossimo all’autoritratto, che è strumento di un’indagine più intima.
La seconda, in qualche modo più importante se si intende fare fotografia, e cioè che la ragione, il cosiddetto perché, è davvero una reductio ad unum: raccontare la propria storia.
Ed è esattamente l’esigenza primaria per chi fa fotografia. Indipendentemente dal soggetto.
Quando hai iniziato col diario, ti sei posto dei limiti e una eventuale meta, o hai semplicemente fatto e poi si vedrà… una sorta di work in progress così com’era, senza alcuna pianificazione…
No, non c’è stata alcuna pianificazione.
È iniziata per documentare il primo intervento chirurgico, poi si è delineato quello che sarebbe stato il percorso terapeutico, inclusa della chemio piuttosto pesante e lì, proprio a partire da lì osservavo il cambiamento fisico della persona. Che volevo documentare, anche a scopo terapeutico dove per terapeutico intendo proprio la volontà di esternare il mio cambiamento…
Scusa se ti interrompo: ha un destinatario questo percorso iconografico che hai deciso di rendere pubblico?
Direi di no… poi sai, per come tecnicamente funziona il social network… per esempio ho evitato hashtag particolari per andare a raccogliere all’esterno di quello che invece è il mio network. Quindi forse se un destinatario c’è è proprio una precisa cerchia di persone.
Dalle quali ricevo una energia positiva…
In che modo?
È proprio nel principio della comunicazione, nell’esigenza direi primaria che ho di raccontare l’esperienza che sto vivendo. Anche attraverso il cambiamento della mia persona, del mio fisico, della mia immagine più immediata. E sapere, avere testimonianza del fatto che c’è chi raccoglie… che poi non è la pacca sulla spalla, ma proprio il fatto che davvero c’è qualcuno che intercetta questa mia esigenza di esternazione. Già solo questo mi aiuta e mi fa stare meglio.
Dunque… la prima volta che si è manifestato il tumore avevi ventotto anni e non hai pensato neanche lontanamente di esternare un bel niente. Adesso ne hai quarantatré e l’atteggiamento è opposto. Una sorta di estroversione… Trovi che questo passaggio brusco sia positivo? Ma anche pensando a una terapia più ampia, non conclusa insomma in quella medica…
Assolutamente positivo, non fosse altro che a differenza di allora non ho alcun problema a parlare del mio problema… non ho nessun problema [ride] non ho vergogna. A differenza di allora, che però ero molto più giovane e forse va messo in conto.
Be’ certo, anche perché non si può certo trascurare che in qualche modo questa attualità può avvalersi della precedente esperienza, quella nella quale ti sei rifugiato in una comprensibile introspezione e nel silenzio
Ecco appunto, adesso so che il silenzio non ha fatto bene. Non in termini assoluti chiaramente, non voglio generalizzare: so che non ha fatto bene a me
Vedo distintamente il percorso del tuo Instagram… adesso, proprio adesso andando a memoria: un percorso piacevole, lineare, le vacanze… e quelle con un chiaro intento fotografico: tutto piacevole… tutto compreso direi simile ad altri, di quelli con gusto e senza strappi. Poi, me lo ricordo bene, improvvisamente uno shock… tu rasato con gli occhi piantati nell’obiettivo. Ti ho telefonato
Sì ricordo. Io abbastanza disinvolto a parlarne e tu un po’ rigido
Davvero in questo non c’è come la fotografia… uno shock.
Derivato anche dalla conoscenza diretta della persona che vedevo e che non lasciava alcun dubbio… non ho pensato insomma a una improvvisa nostalgia punk.
Ecco, da quel momento il tuo Instagram ha una cifra precisa, che non comprende praticamente altro… sì ogni tanto compare qualcosa, ma è come sfumato, risucchiato da una nuova e netta centralità: il tuo rapporto con questo tumore di merda… dove ti porterà? Fotograficamente intendo, fin dove ti spingerai? Dove deciderai di interrompere?
Anche perché molte immagini sono piuttosto forti.
Ipotesi splendida: decorso positivo, tutto risolto e fine del diario?
Cosa succede a questo percorso fotografico?
Ehhh… in realtà non ci ho pensato. Adesso è difficile pensare a questa ipotesi splendida che tu tratteggi [risate robuste] perché il percorso sarà piuttosto lungo. Be’, può essere sicuramente uno start per continuare a raccontarsi in maniera molto diretta, senza eccessive mediazioni. Questa recidiva, che è certamente più tosta dal punto di vista clinico, e proprio l’aver pensato a un certo uso della fotografia, come dicevo prima anche terapeutico nel modo più ampio, che cioè coinvolge l’interezza della persona, la mia vita e gli atteggiamenti, questa recidiva dicevo mi ha dato l’opportunità di riflettere su molte cose. E di cambiarle. Quindi non escludo affatto che anche in assenza della malattia possa avere un seguito. Come, in che forma, non sono in grado di definirlo adesso. Quello che so è che adesso, questo percorso fotografico, questa tranquillità nell’esporlo, mi fa bene.
E mi fa davvero bene. Perché il fatto di raccontare, senza voler essere necessariamente new age, mi restituisce un’energia positiva che mi serve molto.
Non c’è assolutamente un uso esibizionistico del social network… parlo di qualcosa di profondamente vero… e forse è il pretesto per raccontarsi, un modo di mettersi in gioco per ciò che realmente si è.
La malattia, per me, è una opportunità di cambiamento e se si riesce a viverla così forse… forse anche questo è parte del percorso della guarigione.
I tuoi figli hanno accesso al tuo account?
No. Ma puramente per una questione anagrafica, sono ancora piccoli…
Quindi non hanno mai visto queste immagini…
No… però mi vedono di persona! E devo dire che l’atteggiamento di condivisione ce l’ho anche con loro: mi vedono esattamente così, cambiato a seguito di questa malattia e delle cure che sto affrontando.
Sì vero Giovanni, però un conto è vederti in camicia e in movimento, un conto è vedere alcune delle immagini che hai pubblicato… la staticità, fermezza descrive meglio, della fotografia amplifica l’impatto emotivo
Certo, però da questo sono protetti, non hanno accesso ai social network.
E non credo che abbiano un altro modo di vederle, tipo l’amico dell’amico… no, non credo proprio. Comunque se dovesse accadere non credo sarebbe traumatico proprio per come anche con loro ho affrontato questo percorso clinico…
Ma anche per quello che potrebbe riguardare la mia famiglia, sinceramente il problema non me lo sono posto, perché fa parte prorprio del voler buttar fuori… è insomma davvero un fatto terapeutico che mi fa stare bene. E che quindi serve così com’è
Più in generale dal punto di vista fotografico, in questo percorso c’è stato un qualche riferimento o no?
No, alcun riferimento… sai, poi è tutto iniziato come diario, come una raccolta di istantanee e quindi mi fotografavo pronti via… senza neanche pensarci troppo
E c’è una cadenza? Da cosa è determinata?
I momenti terapeutici a partire dall’intervento chirurgico, prima e appena dopo. Poi durante i vari cicli. E assolutamente post ciclo, perché è il momento di maggiore caduta fisica e psicologica… poi sai, c’è anche l’effetto accumulo e mentre i primi cicli li reggi meglio man mano diventa sempre più pesante. E a pensarci è proprio in questo apice che diventa per me importante documentare… mi aiuta davvero molto
Non è possibile prescindere dalla conseguenza del gesto… l’immagine che ti viene restituita, la tua immagine, ti aiuta?
Mi aiuta sì. In consapevolezza… però c’è anche da dire che a volte c’è l’effetto sorpresa perché in fondo conservo ancora una memoria del me precedente… insomma un certo effetto straniante…
Quasi ci fosse una distanza della quale prendi davvero consapevolezza nel momento della restituzione dell’immagine?
Sì, un po’ sì pensandoci adesso. Però mi serve molto perché mi certifica una attualità rispetto alla quale devo rimanere molto vigile.
Anche perché la sto prendendo un po’ come una battaglia…
In effetti perdonami, alcune tue immagini sanno di ”guerriero” e a proposito: hai anche qualche t-shirt con in mezzo la tua dichiarazione di guerra: #attack
[ride di gusto] Sì sì… quella con l’hashtag me l’hanno regalata i colleghi, poi una dai cugini e altre… è diventato anche un gioco divertente tutto sommato. È una vera battaglia insomma, e come in tutte le battaglie occorre avere una certa lucidità… e forse guardarsi restituito ha anche questo scopo: non perdere di vista l’obiettivo
Prima ti ho ritratto… molto tranquillamente, niente computer tutto in macchina. Però le immagini le abbiamo guardate sul display, non abbiamo evitato, e soprattutto non hai evitato tu. Immagini dirette, qualcuno potrebbe anche dire violente… tranne i mossi le altre hanno una certa coerenza con alcune tue, eppure guardandole hai avuto un sobbalzo che ho avvertito istantaneamente e mi ha sorpreso: cos’è è successo? Cosa cambia rispetto ai tuoi autoritratti? Di fatto stiamo parlando di immagini parenti…
Bah… sì vero, ho avuto un sussulto… ma forse perché come dicevo rispetto alla memoria che ho di me… insomma non sempre sono così agganciato all’attualità… o forse è un po’ l’effetto specchio perché mentre mi sto fotografando con l’iPhone mi vedo e mi concentro forse di più sullo scontro col tumore e anche quando prima si diceva del guerriero, non escludo che un po’ di recitazione ci sia da parte mia. Mentre quando mi hai fotografato tu non avevo alcun controllo
Ma può essere che mentre ti stai ritraendo, tu trascuri alcuni elementi che al momento reputi marginali? Se ci penso ti focalizzi molto sul tuo sguardo… mentre l’immagine poi è tutta quanta, tutto dentro quel perimetro. E a proprosito dello specchio, sinceramente penso che sia una autoriflessione parziale, perché quello sguardo sembra invece essere rivolto a qualcuno o qualcosa che è altro, che è esterno
Ma in effetti rimanendo sulla metafora della battaglia, mi è chiaro che nella circostanza io tendo a caricarmi, a darmi maggiori munizioni nell’affrontare il nemico che ho di fronte. E che però è anche dentro. Tu sei l’unico che mi ha ritratto, non ho precedenti, forse anche questo…
D’accordo l’immagine del guerriero e la metafora della battaglia, comprendo perfettamente… esagerando un po’ una figura epica e …
Be’ a me piacciono molto i Supereroi, così nella letteratura… così mi sono anche divertito a usare certe magliette, che però indossavo anche prima… Credo che consciamente o anche no, affiancarsi all’immagine dell’eroe in qualche modo mi aiuti a combattere questa battaglia
Ti sei mai posto il problema della reazione di altri, estranei allo stretto giro che ti appartiene, e che magari potrebbero essere inclini a pensare a un atteggiamento voyeuristico?
Francamente non è questo e quindi non mi sono mai neanche posto il problema
Se sfogliamo le pagine nobili o per nulla della fotografia, ogni tanto incontriamo autori/autrici che si sono ritratti in condizioni poco ortodosse diciamo, con l’intento di interpretare il proprio malessere restituendo immagini inclini all’autocommiserazione.
Invece guardando le tue immagini non trovo alcuna interpretazione del malessere, e anzi è l’esatto contrario: l’interpretazione di un combattimento
Assolutamente sì per quello che mi riguarda. Io cerco il positivo di questo percorso
Io però voglio scavare un po’. Alcune tue immagini sono violente.
O forti se vogliamo usare un eufemismo… e un conto è produrle, un altro pubblicarle. Davvero non ti sei mai posto alcun problema?
No… sinceramente no. Ribadisco poi la convinzione di rimanere entro i confini del mio network, che è fatto di conoscenze dirette
Questa perdonami è un’illusione. Le immagini circolano liberamente in rete…
Allora diciamo che non ho ricevuto alcun ritorno da parte di altri, di persone insomma con le quali non ho rapporto diretto. Però nell’eventualità non avrei alcun problema ad affrontare la questione.
Quindi no, non mi sono mai posto il problema
Così d’emblée: come trovarsi di fronte a un bivio… se uno decide di raccontare sé stesso, a questo livello, lo fa senza schermo alcuno. Altrimenti diventa solo la parodia di un racconto.
Può essere che proprio la criticità della condizione abbia sciolto qualsiasi ritrosia da parte tua? In fondo è come oltrepassare un confine avendone piena coscienza. E controllo. Anche di fronte all’estremo di certe scelte iconografiche ci si autolegittima, indipendentemente dal grado di accetabilità, sociale in generale ma dei social in particolare. A me sta bene eh… solo per capire
Anche a me sta bene… se posso dire mi starebbe bene anche da fruitore. I social network sono strumenti un po’ omologanti, è proprio nelle regole: se il 50% pubblica ciò che mangia anche io mi adeguo. Nulla da scardinare, però da fruitore mi piacerebbe vedere qualcosa di più sincero, diretto e anche umanamente coinvolgente.
In che misura secondo te questa produzione ha una valenza fotografica? Ti interessa che l’abbia? Perché oltre qualsiasi discorso, una scelta estetica l’hai fatta
Mah… in un certo senso mi interessa anche… nella misura che si diceva prima e cioè di uscire da una certa omologazione, da certi cliché, anche comportamentali nei confronti della fotografia sui social. Però non c’è altro… non ricerco consenso.
Tu sei co-fondatore di Luz Photo, e hai una abitudine professionale all’immagine. Questa tua produzione, che non ha nessuna pretesa se non quella di riguardarti intimamente, è secondo te in qualche modo in conflitto con la tua figura professionale?
No… non c’è conflitto… a me la fotografia piace e mi piace farla anche se non sono un fotografo. Sono una persona di questo tempo e con questo tempo mi misuro… uso la fotografia, questa fotografia per ottenerne un beneficio. E poi per me è un tutt’uno… non vedo conflitto con la mia figura professionale… anzi direi che c’è coerenza.
Vediamo e produciamo tantissima fotografia anche inutile e…
Ecco qui scusami ti interrompo perché se no dimentico una cosa per me importante. Forse vediamo e produciamo tantissime fotografie e poca fotografia. Spesso ciò di cui sento la mancanza in ciò che vedo, forse anche superficialmente ammetto, è il gesto: vedo bei compitini – ma anche no – assolutamente privi di gesto. Come rimanere sempre a una distanza dalle cose, da ciò che accade.
Forse abbiamo anche perso il soggetto, cioè noi e ciò che intimamente ci riguarda e che poi dovrebbe essere il vero motivo per cui si fotografa.
Qui vedo invece una persona che si appropria davvero della propria soggettività e la traduce con un linguaggio che gli appartiene…
Che mi è famigliare… sì, in qualche modo è così
In alcune tue immagini noto un certo cinismo, proprio nel trattarti e mi riferisco a quelle che almeno a me hanno immediatamente evocato la morte, poi per pudore possiamo tutti far finta che non è così e non se ne parla…
No, parliamone
Per esempio quel video che sembra quasi un GIF animato, nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna col sottofondo del Requiem di Mozart… più che una modulazione ironica mi è parsa cinica
Vedere la morte e raffigurarla è anche un modo per esorcizzarla… sai, saperla sempre presente e non vederla perché si nasconde… insomma se la vedi ne prendi una immediata consapevolezza e provi a difenderti, in qualche modo rapportandoti
Questo cinismo, o meglio, una certa saltuaria rappresentazione cinica, in qualche modo mi ha evocato una dialetticca con la morte, una dialettica per nulla evitata
Ne ho semplicemente preso atto. Del resto la trasformazione fisica, un certo deperimento, questo asciugarsi… insomma un’immagine sinistra, indubbiamente. E allora questa dialettica che dici è stata inevitabile: se lei, la morte, si nasconde ma è presente, voglio stanarla… far finta, nascondermi a mia volta, non è utile alla causa.
Poi ci sono circostanze casuali… per esempio mi sono trovato davanti a La vita e la morte di Klimt e mi sono messo in mezzo… un gesto che ritengo semplicemente ironico
Stai in qualche modo didascalizzando, anche? Non so, alcune immagini le sento decisamente più intime e tue, altre, forse le più facili, mi sembrano più a uso esterno, rivolte a altri mi viene da dire
Non c’è una premeditazione, però sì, è vero. Questa di Klimt certamente lo è. Quelle che invece mi appartengono intimamente, come dici tu Efrem, sono quelle relative ai momenti di solitudine, in genere post-terapia, quando sono lì da solo un po’ a rimuginare, con però la determinazione a resistere… vale sempre la metafora bellica. Se mi viene detto, come mi è stato detto, che la settimana post chemio è quella nella quale ci si lascia un po’ andare, non si ha voglia di far niente, anche perché oggettivamente indebolito, ecco questa è la settimana nella quale lotto di più. Proprio per evitare…
Un fattore reattivo insomma
Assolutamente sì
Ci sono due aspetti di questo percoroso INSTAGRAM… di quello terapeutico abbiamo detto. C’è poi un fatto di linguaggio estetico che tu comunque non trascuri. E che io riconduco a una matrice espressiva punk: diretta, non leziosa, di glam manco a parlarne… insomma con un suo peso specifico. Secondo te Giovanni, potrebbero queste immagini fare testo a sé? Cioè indipendentemente dalla malattia…
Ma in effetti anche questo, moderatamente ovviamente. Però se vuoi il percorso clinico è stato anche questo: cioè l’opportunità di affrontare in prima persona un’altra fotografia, e di misurarmi anche da questo punto di vista sulle mie intenzioni espressive… intorno a una questione che mi riguarda profondamente.
Volendo esternare con l’immagine, ho dovuto necessariamente farmi carico anche del modo espressivo.
A ben pensarci il motivo iniziale è terapeutico, poi però ho cominciato a immaginare che potevo avere in mano anche un qualcosa con una valenza iconografica… che avesse una certa coerenza
Ultima domanda: perché hai accettato questo confronto, qui sul mio blog?
Be’ innanzitutto perché quando ci siamo sentiti le cose che mi hai detto, poche ma chiare, ho sentito che proprio mi riguardavano e riguardavano quello che sto facendo sia di fotografico e anche come gesto diciamo poco consueto. Per quanto esiste una ricca letteratura a riguardo, cioè di protagonisti di storie simili che ne scrivono e parlano pubblicamente, più o meno come sto facendo io. E poi mi interessava molto sia parlarne sia essere fotografato da te, da un’altra persona con una visione diversa, esterna.
E sento già esserci un beneficio, un momento di arricchimento di questo mio percorso di vita. Perché è di vita che abbiamo parlato, e per questo ti ringrazio molto.
Milano, aprile 2016
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Giovanni Picchi. All rights reserved.
So che ho dimenticato di chiedere qualcosa.
E forse Giovanni di rispondere.
Questo lo scrivo adesso. A due anni di distanza…
Giovanni ci ha lasciato. Stamattina.
Lunedì 21, presso la basilica di Sant’Eustorgio, Milano, il saluto.
Alle 9.
Un grande dolore. Non aggiungo altro.
Condividi/Share
La biografia non è un animale intelligente.
Non è roba seria…
Finché sei in vita almeno, che il più delle volte sei tu a fartela.
Quindi cominciamo col chiamarla autobiografia.
Inizia forse ad avere un minimo senso quando te ne vai, che se proprio se ne sente la necessità, sono altri a occuparsene.
Accada o meno non lo saprai mai.
E questo è il vero vantaggio: non avere notizie di sé…
La prima cosa che faccio quando intercetto un autore che non conosco è vederne l’opera.
La biografia dopo. Decisamente dopo.
Quasi un fatto marginale.
Ed è più una curiosità legata alla notorietà o alla sua assenza.
Che magari non mi spiego in entrambi i casi.
Se invece me la spiego rapidamente, e basta davvero poco, non mi affanno e la mollo lì.
Perché poi di una biografia m’interesserebbero più le ombre.
Gli inciampi… le cadute secche: a muso duro sull’asfalto.
M’interesserebbero i salti nel vuoto senza paracadute.
Invece ‘sta pappa autoprodotta nella sala dei trofei – tinelli spesso – somiglia a un qualsiasi profilo Linkedin.
E mi intristisco… mi annoio: misuro l’interesse per le persone per ciò che fanno!
E per come lo fanno, che magari è un gradino sotto ma ha comunque il suo peso specifico.
Così mi si chiede una biografia. Una qualsiasi…
E non so mai cosa dire.
Una qualsiasi…
Perché non sono mai stato lineare e ho passato un sacco di tempo nei miei corridoi a perdere tempo. Che richiede impegno.
Ogni luogo è stato il pretesto per essere altrove…
Non sono mai stato dov’ero. E non ricordo niente.
E ogni persona è sempre una questione personale, non ho un altro modo di relazionarmi. Anche se ci siamo frequentati per due minuti.
Due minuti possono essere dilatati all’infinito: che ne sai di cos’è il tempo per me?
E mi chiedi una biografia… una qualsiasi.
Ma allora la faccio completa e ti racconto tutto!
E visto che sono un fotografo metto anche le fotografie.
Che sono l’unica cosa con la quale coincido.
Cosa vuoi che dica nella decina di righe massimo che mi chiedi!
Quale valore certificherebbero?
Così mi rendo perfettamente conto che fin tanto che mi viene chiesta, è evidente che di me non si sa nulla.
Ma la vera questione è che non me ne frega un cazzo.
Perché non si tratta di partecipare a un concorso pubblico.
E la Fotografia, farla, non è una gara: zero competizione!
Se invece lo è, non partecipo: fotografo solo per me.
Anche quando ciò che produco non mi soddisfa. Non coincide.
Tutto e niente. E anche in mezzo a volte. Questo è un fotografo.
E ci mette la faccia che ha. La sua. Questo davvero sempre.
Con gli assignment e con le opere. Uguale.
Sei un tutt’uno sempre.
Se no non sei niente per me: anche se ti sorrido, somigli a una scorreggia.
Se no falla tu la mia biografia!
Qualcosa in giro si raccatta. Decisamente più delle quattro righe imbarazzanti che ho visto recentemente.
E che sono l’origine di questa tiritera.
Quattro righe talmente inaccettabili che alla fine le ho trovate convincenti.
Si chiama Paradosso d’Artista. Ed è una sindrome.
La mia biografia al momento non è data.
Di data c’è solo la nascita: 16 agosto 1958. A Legnano.
E due link: il mio sito che trascuro, e questo blog.
Nulla di esaustivo però magari aiuta chi mi interessa.
Sono ancora qui e ho altro da fare. Spero.
Alla mia biografia inesistente ci penserà poi qualcuno se lo riterrà opportuno.
Ma io non ho proprio voglia di occuparmene.
Maledetti fotografi…
Mi vengono in mente le parole di don Gallo quando andai a Genova a ritrarlo… si chiacchierava:
Dio esiste… Ma non sei tu! Perciò rilassati.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Condividi/Share
Philippe Daverio
Fuorisalone 2016: 20 – 6 – 171.
Dove… 20 le ore lavorative giornaliere; 6 i giorni in questione; 171 le immagini prodotte più un piccolo video, per social, sito, e cartaceo prossimo venturo. Tutto taggato INTERNI magazine.
È il quarto anno che seguo il Fuorisalone con questo percorso e non credo di essere in grado il prossimo. Almeno nella formula che attualmente mi riguarda.
Perché garantisco essere un lavoro davvero tosto. Dove occorre un fisico d’acciaio e un cranio al titanio.
E io non posseggo né uno né l’altro.
Insomma vedremo.
Due sedi: la Statale, alias Università degli Studi, quartier generale della redazione di Interni e la Torre Velasca rosso Ingo Maurer, che è stata indubbiamente il segno di questa Milan Design Week, dove Audi ha organizzato una serie di conferenze davvero notevoli.
Principalmente con l’ìPhone, quindi Nikon per il ritratto.
Ma poi le carte si sono mischiate.
Non ricordo perché ma francamente non importa.
A differenza dell’anno scorso, luce ambiente.
Tranne per qualche ritratto in condizioni impraticabili.
A volte ho esagerato con l’iPhone, proprio a stracciare il file.
Quella che segue è una sintesi estrema di tutto il lavoro.
Cominciando dai ritratti
Wang Pen
Enzo Mari
Gianluigi Ricuperati
Università degli Studi – Cortile della Farmacia
down, left:
Gaia Cambiaggi, Maurizio Montagna, Armando Perna, Antonio Ottomanelli
up, left:
Filippo Romano, Daniele Testi, Rossella Ferorelli, Francesco Stelitano, Marco Introini
E queste le conferenze. Che anticipo con una domanda: perché snobbarle?
Se l’assignment che hai accettato le prevede, falle.
Se hai un linguaggio puoi fare qualcosa di decoroso e metterci la faccia.
Se poi c’è la curatrice – in genere di seconda e anche terza fila – che ritiene la fotografia di documentazione espressione commerciale, e di conseguenza tu un magütt, io non me ne preoccuperei. E le sorriderei.
Tanto la tua opera, quella appesa alla parete prestigiosa, non scappa.
Né si suicida.
Ma oh artista! ce l’hai almeno un’opera appesa da qualche parte?
Torre Velasca – Audi City Lab – Paola Antonelli
Torre Velasca – Audi City Lab – Massimo Coppola
Torre Velasca – Audi City Lab
Torre Velasca – Audi City Lab
Università degli Studi – Cortile della Farmacia – Gillo Dorfles in visita
Torre Velasca – Audi City Lab
Torre Velasca – Audi City Lab
Marco Balich, Cesar Muntada, Axel Schmid, Francesco Bonami
Torre Velasca – Audi City Lab
Le immagini non sono postprodotte se non limitatamente alle questioni tecniche legate all’esportazione. Più alcuni elementi cromatici. Roba da poter gestire in fretta, ma al meglio, nella sala stampa di Interni. Col sottofondo di interviste a designer. In loop a farci compagnia. Quando ho pensato che sarei entrato volentieri in almeno uno dei due grandi monitor, l’ho fatto. Deformando arbitrariamente.
Stefano Boeri
Noriko Tsuiki
Ingo Maurer
Ma Yansong
Chen Ngjiang
Marco Ferreri
Per chiudere, questo video che definirei utile allo scopo di rendere chiaro, almeno a me, il concetto di voliera. Solo che io fuori.
Questa la parte iconografica. Per quella redazionale Danilo Signorello, della redazione di INTERNI.
Perché non dobbiamo dimenticare che tutto ciò è finalizzato a una rivista. Che anche quando è social, ha un percorso diverso. Più articolato e complesso. Che insegna molto.
Almeno a me.
Michelangelo Giombini ha con me condiviso gli esordi di questo percorso. Quattro anni fa.
Ne è il coordinatore. Ed è un impegno non facile. Lo capisco bene…
E poi una fotografia di backstage fatta da Laura, mia moglie.
Si deduce bene il doppio percorso Nikon – iPhone.
Poi per una questione di mera praticità ho scelto iPhone per la definitiva bn del gruppo.
Ringrazio la mano di chi mi ha sostenuto.
Sono stato assistito in tutto ciò da Martina Dalla Bona, che ringrazio per la cortesia.
Chiudo questa maratona con due lavori sul numero in edicola di INTERNI: una fotografia di gruppo e un redazionale di design… chi dice che non si può fare entrambi?
Mi vengono in mente le parole di Ghirri, che mi spiace scomodare per così poco, però ci vogliono: mi sembrava assurdo che un fotografo potesse fare solo fotoreportage e non riuscisse a fotografare una cattedrale o l’interno di una casa, o elaborare un rapporto minimamente più approfondito con il visibile (visibile vuol dire quello che io sto guardando), con la rappresentazione in generale. da Lezioni di fotografia.
Ecco, vale per tutto.
da sinistra: Gabriele Chiave, Nika Zupanc, Stefano Giovannoni, Richard Hutten, Andrea Branzi, Sofia Lagerkvist, Anna Lindgren. Testo di Cristina Morozzi. Coordinamento Nadia Lionello, Maddalena Padovani.
Sotto: readazione Nadia Lionello.
Botero per Zanotta – Drum per Cappellini
Asterias per Molteni&C – Lloyd per Poltrona Frau
Zero per Alias – Tang per Driade
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Condividi/Share
Foto di gruppo… un altro luogo. Un altro percorso.
Riprendo un articolo precedente e lo rimaneggio un po’ in vista del workshop che affronto in questo weekend.
Fotografia di gruppo quindi.
Che a differenza del singolo ritratto stabilisce delle relazioni diverse.
Solo apparentemente omogenee.
A partire dalla scuola elementare ci siamo passati più o meno tutti.
Solo che a me interessa un punto di vista: quello del fotografo.
Perché è davvero un altro luogo della fotografia. E le insidie sono altre.
Per esempio una staticità maldestra. Che va rotta.
Non ho mai capito se venga generalmente snobbata perché considerata di tono minore o invece più banalmente evitata perché se ne percepisce, netta, l’insidia.
Un equilibrio complesso, è con questo che ci si misura.
Ma semplice: il confronto è sempre con la Fotografia.
Se pensiamo a questo, una certa nebbia si dipana.
Mai come in questo percorso, evitando il genere.
E quella pesantezza incorniciata che non ferma il tempo, lo subisce.
Che dopo vent’anni sei lì che la riguardi e fai la conta… non vedi nient’altro.
Ma la foto di gruppo, per un fotografo, non è un appello!
Non una sommatoria.
Ma una corale.
Succede di tutto…
Un potpourri di umori, di presunzioni, di sfacciataggine, di paura.
Di certezze e dubbi. Di convivialità e inadeguatezza.
Chi si nasconde e chi si porta la pila da casa. E se la spara in faccia.
Un bel test sui rapporti sociali, e su cosa diavolo è l’individuo, non più concetto ma con nome e cognome di fronte a te.
E in mezzo agli altri.
Ed è questo a cambiare la solfa: non la sommatoria di individui ma un tutt’uno che ha sostanza e prende forma per come tu la percepisci.
E siamo sempre qui, nel punto esatto in cui si trova l’autore.
Più che mai regista di un percorso.
Qual è il numero minimo di presenze per definire ”gruppo”?
Tre. Direi accettabile.
Tenendo ben presente che maggiore è il numero, maggiore la singola presenza si stempera. Oltre un certo limite quasi scompare.
E il peso specifico dell’insieme diventa immediatamente visibile a tutti.
Tranne ai protagonisti. Che tendono a dialogare esclusivamente con la propria immagine restituita.
Se di un gruppo, indipendentemente dal numero dei componenti, dovessimo fare una stampa piuttosto grande e appendarla a un muro, ognuno di noi guarderebbe d’emblée l’insieme solo perché non si può prescindere.
Ma immediatamente dopo andremmo a cinquanta centimetri per verificare quanto siamo o no fighi. Quanto mediaticamente siamo spendibili.
E se abbiamo una conferma gratificante, chi se ne frega del resto.
Niente di più sbagliato: puoi essere figo/figa quanto ti pare, ma se la fotografia nel suo insieme è debole, crolli anche tu.
Per questo, trovato un percorso espressivo, occorre che l’autore mantenga alta la soglia di attenzione e partecipazione di tutti.
Non è facile. Per nulla.
Quando le affronto mi capita persino di urlare.
Garbatamente ad alto volume direi…
E poi c’è sempre, ma proprio sempre, la persona speciale.
Quella con la pila portata da casa… quella che degna tutti della sua aurea presenza.
Si individua in una decina di secondi.
E penso, sempre, tel chi…
Col sorriso glielo comunico anche… eccoti qui.
Solo che fraintende e traduce sei di un’altra categoria, sei il più figo, la più figa, il sole e pure la luna del mondo, ma che dico? dell’universo!
Sono molto pericolosi. Tendono a strafare.
Quello che è importante è l’amalgama, impalpabile ma visibile.
Quel fil rouge che attraversa e cuce, che rende possibile la coesistenza e la trasforma in un unicum, cioè la fotografia medesima: la guardi e dici sì, è questa.
Va bene anche se quello lì sbadiglia.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
GQ Italia mag, 2000
GQ Italia mag, 2000
Versace group, 2006
GIOA mag, 2010 – Baustelle
Lo Specchio mag, 2005 – Subsonica
Fondazione Fotografia Modena, WS, 2015
wedding, 2011
Spazio Fotografico Coriano, WS, 2016
GRAZIA mag, Take That back, 2006
ADV campagna IMA – Ogilvy & Mother Italia, 2010
Alessandro Mendini group, 1996
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Condividi/Share
Ca’ Brütta 1921… la mostra alla quale avevo accennato a dicembre.
Adesso è pronta. Inaugurazione 14 aprile ore 18,00.
Milano, Castello Sforzesco, Sale Viscontee fino al 10 luglio.
A cura di Giovanni Tommaso Muzio e Giovanna Calvenzi.
Siamo in trenta.
Manca, e manca molto, Cesare Colombo. Che era con noi durante i sopralluoghi.
Ma ci ha improvvisamente lasciato…
E questa è la mia
Sbagliata… c’è un errore. Evidente.
Grande come una casa…
L’ho accarezzato. E tenuto con affetto.
Ho invece restituito la Mailand, cornice tedesca gentilmente prestatami dai miei amici Caccia, corniciai.
Ringrazio Francesca Matisse per la presenza.
Mi piace la Ca’ Brutta, 2015
70 x 52,5 cm
Fine Art Giclée ai pigmenti
Canson RAG PHOTOGRAPHIQUE 310 gsm
Tiratura 1/5
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Condividi/Share
Johan Cruijff…
Ma questo è un blog di fotografia!
Però è il mio…
E al centro ci sono due cose: la visione e il linguaggio.
La visione ha direttamente a che fare col fatto di essere visionari, di andare cioè oltre il visibile.
Che prende però forma.
Attraverso il linguaggio che ti appartiene.
Espresso concretamente nell’ambito che più ti riguarda.
Non importa quale sia il medium: il linguaggio, quello assoluto e che se ne fotte delle convenzioni, è riconoscibile ovunque.
Johan Cruyff è il calciatore che più ho amato proprio per questo.
Non è stato semplicemente un divino interprete – secondo solo a Maradona nella mia personale classifica – ma un rivoluzionario.
Uno che ha preso il football così com’era e l’ha sconvolto proiettandolo in un futuro che era inimmaginabile.
E che ci troviamo ancora tra i piedi.
In questo, nessuno come lui. Mai.
Ero poco più che bambino quando lo vidi la prima volta.
1971: non si sapeva neanche che in Olanda giocassero a calcio…
E viene fuori questa meraviglia di Ajax.
E un attimo dopo la nazionale olandese con quell’arancio che vedevi anche in bianco nero.
Il mio sguardo è cambiato.
Lì mi è stato chiaro che si può vivere di utopia.
Che è un bene prezioso se intendi usare il linguaggio.
E non importa se perdi.
Perché mentre l’Ajax ha vinto tutto, è incredibile che quella nazionale, la più grande che ci sia mai stata, non abbia vinto niente.
Sempre seconda.
E chi se ne frega.
Perché ha cambiato lo sguardo.
E ciò che sei in grado di percepire e restituire, se riesci, ha un peso specifico enormemente più elevato delle medaglie che ti vengono attribuite. E che sfoggi tutte in fila sul petto.
Le medaglie non mi ammutoliscono.
Il linguaggio sì. La visione che sai restituire, sì.
Johan Cruijff ha ammutolito tutti.
Un artista che ha usato il pallone per esprimere la sua visione del mondo. Che era un altro.
E tutto nasce da una sua considerazione semplice, quella che ha sconvolto tutto:
È dimostrato statisticamente che in una partita di novanta minuti ciascun giocatore, in realtà, ha la palla tra i piedi per 3 minuti, in media. Quindi la cosa più importante è cosa fai durante gli 87 minuti in cui non hai la palla tra i piedi?
Domanda semplice dalla risposta complessa.
Uguale in fotografia.
Ciò che mostri è il prodotto di un altro tempo.
Nel quale converge la visione che hai del mondo.
Vale per tutto se vuoi dire qualcosa.
Trovo inaccettabile che se ne sia andato.
E provo un dolore vero. Per questo son qui a dirlo.
Devo tantissimo a Cruijff, perché mi ha regalato gioia.
Quella vera. Quella che non sai neanche trovare le parole.
Solo immagini.
Indelebili.
Che per me sono tutto.
Non posso mettere il credit alla fotografia… cercato ma non recuperato l’autore.
La trovo bellissima.
Johan Cruijff, tutto il calcio del mondo.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Condividi/Share
Semplice.
E più lo è più non la leggiamo.
Semplice.
E più lo è più è complessa.
E proprio non la leggiamo.
Complessa, non complicata.
Linguaggio puro.
Non lo leggiamo… non siamo capaci.
Senza strass sbarluccicanti e effetti assortiti, zero.
Non leggiamo le parole, figuriamoci le immagini!
No?
Guardarsi attorno. Magazine inclusi.
Certi magazine…
Un’immagine vale più di mille parole.
Cazzate!
Quale immagine, quali parole…
Queste ultime, che ogni volta supplichiamo in forma di messaggio, spiegazione e cosa volevi dire…
Io l’ho detto. Nulla è celato.
Ce l’hai davanti.
Guarda cazzo!
Siamo in balìa di un gigantesco punto di domanda.
Un morbido, pigro, all’occorenza utile: ?
E si vede.
Per questo pubblico questa pura iPhone.
Fatta l’altro ieri. Un sabato qualunque.
Ed è una fotografia.
Che potrei persino eleggere a mio manifesto. Così imparo.
Tanto è lontana da tutto.
E ferma alla sua origine.
Tutto è ancora lì.
E noi dove siamo?
Rivistine trendy bye bye.
Con un bel sorriso:
#RANDA 146
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Condividi/Share
From the series Appunti per un viaggio che non ricordo. 1986 – 2001
L’ambizione di un fotografo non è fotografare.
A me dico, a me non frega niente…
Sai cosa me ne faccio dei click e del corredo in linea bello ordinato…
Pulito nero cromato…
E muto.
Sai che mi frega del software e dei pixel?
Ma sai che mi frega della pellicola!
L’ambizione di un fotografo è coincidere con la Fotografia che produce.
E che ha davanti solo al momento della restituzione.
Per me preferibilmente solida. Bella stampata.
Altri facciano come gli pare.
Ma godono meno.
O godano come gli pare.
È un percoroso composto di due momenti che riguardano la visione: quello negato alla vista, che riguarda te soltanto, e quello che restituisci, finalmente visibile a tutti.
Qualsiasi aggeggio ottico, qualsiasi strumento atto allo svolgimento del percorso, è neutrale.
Non ha capacità cognitiva e si occupa solo di ciò che è oggettivamente visibile.
Un traduttore insomma.
Che inciampa e balbetta a seconda… più simile a Google Translate che a un professionista in carne e ossa.
La Fotografia no.
La Fotografia si occupa dell’invisibile.
Che solo l’autore è in grado di trasformare in linguaggio.
Per nulla oggettivo.
Per nulla vero.
Ma finalmente TU sei visibile.
Questa è l’ambizione.
Mica fotografare, alias armeggiare con strumenti fotografici in grado di produrre esclusivamente fotografie, cioè oggetti bidimensionali dal formato variabile ficcati in supporti che neanche loro sanno.
La Fotografia è altro…
La visione che hai del mondo.
Non si preleva, si fa.
Nessuno strumento.
Nessun giocattolo…
Cazzo guardi?
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Polaroid 600 BW + SX-70
dalla serie Appunti per un viaggio che non ricordo
Marzo 1993.
Condividi/Share