New York, Chelsea – Dicembre 2006
La fotografia… quella maiuscola, quella minuscola.
Bisogna misurarsi con la fotografia se intendi usarla.
Non come un’etichetta, una dichiarazione di intenti delusi, una ricerca di collocazione.
Proprio usarla e che non sia la declinazione stemperata di un qualsiasi mercato al quale ambire.
Se invece non ti misuri, non la usi, rischi di essere solo UN fotografo.
Come un dattilografo vieni superato dalla frase che sempre, proprio sempre, ti precede.
E tu a rincorrere.
E a me non interessi. Se non ti esponi, non mi interessi.
Perché non riconosco alcuna autenticità.
Non la vedo.
Preferisco di gran lunga distonia e contraddizione alla sintonia mainstream.
Alla quale diversi ambienti hanno ceduto.
Risultato: come passare dall’arbitrio del linguaggio alla certezza, tombale, della decorazione. Che riempie – la parete, la pagina, il monitor – e non impegna.
La fotografia è per me essenzialmente un luogo di conforto.
Lì tutto trova ordine. Il mio caos trova forma.
E questa è l’unica misura che mi riguarda.
L’unica risposta concreta alla fatidica domanda: perché fotografi?
Che poi, davvero, sembra la domanda di ammissione a chissà quale cerchia.
A chissà quale altare.
Cazzate. A me serve solo redimere il caos.
Per questo serve disciplina.
Perché diventa accettabile, anzi no… a f f r o n t a b i l e anche la miseria.
La propria.
La propria caducità.
E lo sgomento di fronte all’idiozia della morte.
La fotografia, la nostra, si misura coi nostri limiti, non con quelli degli altri.
Col nostro essere imperfetti, prerogativa del linguaggio.
Senza affanno. Non è una gara. Nessuna competizione.
Una dialettica incessante. Un flusso.
Che si interrompe solo nel momento in cui davvero ti accorgi che sì, adesso fotografi.
Adesso comincia il ballo. Quindi balla. Non pensare.
Poi riprendi il flusso. E non importa dove ti porterà.
Vale per tutto: assignment, progetti cosiddetti personali, foto ricordo e istantanee al seguito.
Nessuna zona franca. Nessuna fotografia aliena al mercato.
Non ho bisogno di fotine che arredino il tinello…
Ma di una fotografia che esprima visivamente pensiero.
Non c’è da star lì a contorcersi per evincere alcunché: forma e contenuto coincidono.
E si vedono.
Se non si vedono non c’è stampella che tenga. Nemmeno verbale.
Qualcuno sa spiegarmi una certa deriva cromatica dal sapore sensazionalistico?
Una sorta di glassa spessa quanto basta che avvolge come una garza.
Il filtro identitario per l’ammissione al mercato visivo ancor prima che monetario.
Una giostra: c’è chi sale c’è chi scende.
Ma il prodotto è sempre lo stesso: piatto.
Tutto concorre alla definizione di una identità.
Nulla è eludibile e la dialettica tra gli elementi definisce il piano espressivo.
L’impressione che ricavo nel vedere certi, molti lavori, anche alcuni recenti zona Covid di grande risalto mediatico, è quello di uno scollamento secco tra forma e contenuto.
Dove la forma perde qualsiasi declinazione estetica. Appannata da un estetismo fine a sé stesso.
Un po’ come il contenitore Instagram, che pare essere il vero punto di riferimento culturale. E se così, non è più un semplice contenitore dove ognuno si esprime come gli pare.
Ma un luogo forte per un pensiero povero che detta le regole del successo.
E non esiste altro che questo: il successo. Che diventa ideologia del traguardo.
La dittatura del numero vuoto. Mera espressione quantitativa.
Tutto ciò non delinea una fotografia cambiata, ma la supremazia del gusto sul linguaggio. Una robetta di costume. Una scorreggia.
Questa non è fotografia ma solo il luogo markettaro per eccellenza.
La cosa più immediatamente commerciale che abbia visto.
Proprio supina al marketing di bassa lega.
Una retroguadia culturale ha preso in mano il megafono. Urla a piene pile e ha un grande riscontro. E esercita un potere tipicamente discriminatorio nei confronti delle competenze. Tutto si mischia affinché nulla emerga.
In ogni ambiente.
Perché un potere mediocre ha il fascino dell’accessibilità.
E non mi stupiscono le accondiscendenze intellettuali, presunte o reali.
Le convivialità giovanilistiche mainstream…
Non mi stupiscono gli ammiccamenti sprezzanti, la gioia neanche tanto celata per l’estromissione di qualsiasi reale pensiero estetico: meno la fotografia si esprime e più è fruibile. Cioè merce.
Oggetto d’arredo se va bene.
La defenestrazione della competenza non riguarda affatto il piano artigianale, la tecnica, l’esperienza e tutto quanto può essere inteso come mestiere, la professione.
Tutto ciò viene ancora riconosciuto. Sul mero piano esecutivo al minor costo possibile.
E infatti non è questa l’attenzione, la mira, degli intellettuali di cui sopra.
Invece riguarda la capacità di declinazione espressiva che ha nel linguaggio il suo centro.
E il linguaggio richiede competenza. Manipolazione grammaticale.
Insomma la consapevolezza del talento. E l’imprescindibilità del dubbio come forza motrice.
Questa la mira: la messa al bando dell’autorialità.
Partecipante a chiacchierata social:
Sta succedendo che non si vuole accettare un cambiamento. Molto banalmente.
Anch’io partecipante. Con domanda a riguardo:
Sto cercando di capire… per cui la mia è una domanda per nulla retorica: quale cambiamento?
Nessuna risposta che fosse d’aiuto.
Cosa significa cambiamento? Che poi, ma chi lo dice che di per sé sia foriero di positività.
Prima però, per favore prima di esprimersi, sapere di che cambiamento si parla.
La fotografia si occupa dell’invisibile.
La fotografia è utopia.
Guardiamo due cose diverse, è chiaro?
Non ho parlato di me. Ma della fotografia che amo e dei fotografi nelle cui vene scorre sangue.
E si vede.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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Annata eccezionale la Tua, Efrem Carissimo. Che come i grandissimi vini non finisci mai di migliorare e…meravigliare. E ancora e ancora…
mi sembra che ti sia piaciuto :)
“un potere mediocre ha il fascino dell’accessibilità”
La sintesi di un’epoca.
Non posso che accodarmi alle sottoscrizioni (e Sacha non ha poi mirato troppo fuori quando ha parlato di manifesto)
ma no dai Simone… come a Sacha: non lo vedo come un manifesto. è solo una riflessione un po’ di getto. un manifesto ha un altro respiro secondo me
Ieri guardavo una conversazione in rete tra un giovane fotografo e una giovane consulente, argomento promuoversi sui social, l’algoritmo, il target, il goal. Persone fantastiche, garbate e brillanti, però il cambiamento che imparano a sfruttare è verso la mediocrità.
La(le) fotografia(e) è davvero bella. Nell’ambiente dei fotoamatori, che è quello che frequento, tanti dicono che il paesaggio urbano per essere fotografato non dovrebbe avere automobili, quindi spostano il loro interesse verso un paesaggio ‘fine-art’ dove la natura è completamente idealizzata e ottocentesca. Ma le automobili esistono e chi è davvero bravo sa farne un racconto della città, come in questa fotografia (che ha anche un livello di lettura ulteriore nel cartello di Mimran), e per restare in Italia mi vengono in mente le automobili in ‘Parma dorme’ di Pezzani.
situazione complessa andrea. ma dinamica. c’è solo da pesare il tipo di dinamismo… vedremo
Non sono complottista ma realista sì.
Quanto dici, che condivido totalmente, è in sintesi la lucida descrizione di come la cultura e l’arte di questi ultimi 40 anni abbiano subito un attacco e una deriva devastanti , da cui anche la fotografia non poteva certo sfuggire.
È importante che ci sia chi parla fuori dal coro e che questa critica venga fatta girare girare girare , perché penso che, a ben guardare , ci sono ancora molte orecchie che hanno sensibilità per ascoltare.
in realtà Fiammetta credo non ci sia più neanche il coro
Tirez sur le pianiste, mi viene in mente per dirla con Truffaut…parlo della messa al bando dell’autorialità. Che invece è l’unica ragion d’essere che può avere ora la Fotografia, piuttosto che il mero mestiere.
shoot the pianist è più conforme alla condizione, forse :)
sì laura, vero… la ragion d’essere. ma forse ci sono almeno due, tre ragioni d’essere. e il mestiere, la professione così intesa, credo sia una delle due. poi c’è la ragione che indubbiamente ci piace di più e che è il problema grosso.
perché per essere tale prevede che abbia anche mestiere, conoscenza. e questo proprio non è evidentemente tollerabile. mi pare funzioni pressapoco così. magari mi sbaglio. magari mi sbagliassi…
Efrem caro, se non ci stessero sulle palle i manifesti questo scritto potrebbe diventarlo. Mi pare siano tutte sul piatto le questioni cruciali. Un abbraccio.
no dai sacha, non direi un manifesto. una riflessione che no va dimenticato, passa attarverso un setaccio personale, soggettivo.
però non mi stanno sulle palle i manifesti :)
Una riflessione soggettiva sicuramente ma che credo coinvolga oggettivamente chiunque abbia a che fare col mezzo e si guardi un po’ in giro. A presto Efrem!
pezzo meraviglioso! Sottoscrivo tutto.
Questo, giuro, lo vorrei prendere in prestito e riportare su una parete intera. Mi darebbe conforto o mi prenderebbe a pugni a seconda del momento. In ogni caso una gran bella botta. Una bomba. Pezzo strepitoso.
solo una piccola analisi, Adrianella. però sì, estesa bene e dilatata il giusto, potrebbe a sua volta diventare decoro su una parete :)
un’opera contemporanea insomma
Olè
Mi ti immagino Efrem a dirle dal vero queste cose tanto sono viscerali. Superfluo dire che mi ci rivedo in ogni lettera. Sono combattuto se la fotografia, il suo linguaggio, meglio essere proletaria o elitaria, o forse non è nessuno dei due. Ovvio che Lei (la fotografia) è una componente di una società che vira in posti discutibilissimi, direi una fotografia di tutto ciò. Grande Efrem!
in qualche modo Damiano credo che ogni potere faccia la propria fotografia. il proprio autoritratto. questa è di adesso