Felipe – Cap Ferrat 1998.
Felipe… il mio gatto bianco.
Con lui, con la sua complicità, ho imparato a fotografare i gatti.
E fotografandoli ho imparato anche molto altro su di loro.
Che mi è molto utile, ancora, quando fotografo i bipedi.
Pratica enormemente più semplice.
Se non altro perché usi la parola.
Se non altro perché una volta risolti i preliminari, più o meno sempre gli stessi, noiosi a volte, si tratta solo di scattare.
Insomma, visto che siamo qui per questo, diamoci. E c’è in qualche modo un’equivalenza dei ruoli al fine del risultato.
E l’unico risultato che contemplo è il coinvolgimento o l’estraneità.
Non considero i piani intermedi: o ci si dà o ci si nega, per me vale uguale.
Perché anche la negazione ha la sua forma.
Le robe a metà, quelle sì mi sanno di posato artefatto.
A volte è solo un dettaglio a fare la differenza. A volte un insieme indefinibile.
E tutto questo l’ho imparato soprattutto fotografando Felipe.
Che mi ha educato molto.
Questa è una storia sulle relazioni. Sull’importanza di mettersi in ascolto.
Usando tutti i piani a disposizione.
Con lui le parole non avevano significato… erano suono.
I movimenti, anche del sopracciglio, linguaggio esplicito.
I gatti non delegano alla sola coda la propria comunicazione, così come noi non rimandiamo alla sola parola. Che anzi a volte è strumentale.
Quand’ero con la fotocamera nei paraggi, mi osservava con attenzione.
E sapeva che da lì a un momento l’avrei mirato.
Ho sempre avuto la certezza che gli piacesse. Che in qualche modo lo recepisse come un nostro rito e un momento alto di relazione.
Perché come mi guardava in macchina Felipe, ne ho trovati pochi. In assoluto.
Senza appunto dover dire niente. E tutto il mondo altrove. Lontano da dov’eravamo.
Lui e io, stop.
Questo è fotografare: tutto condensato in quel minuto… in quell’ora… in quel giorno. Il racconto della tua vita.
Tutto o niente, in quel tempo che abbiamo. E che passa.
Puoi decidere di stare a guardare, svogliato.
O di impugnare ‘sta cazzo di macchina e respirare a pieni polmoni.
Che a volte fa male… fotografare non è una passeggiata. Mai, per come la intendo.
E un’immagine non vale l’altra.
La fotografia non è un accessorio, un modo per riempire il tempo o un quarto di pagina di una rivista. Chi la pratica lo sa bene. Chi la usa, non è detto.
E anzi a giudicare da ciò che si vede sui media a un euro e dintorni, c’è da credere che lo smarrimento regni sovrano. Va be’…
E poi e poi… gli estremi son sempre due.
Coi gatti, il bianco e il nero.
Traslando fotograficamente, una condizione che mi è congeniale.
Anche quando penso a colore, che se per caso mi arriva una eco b&w capisco che qualcosa non va.
Un po’ come fosse un parametro. Una matrice alla quale erroneamente deleghiamo la nostra parte nobile.
Probabilmente il peccato originale dal quale la fotografia dipende.
I gatti sono ossessionati dalla pulizia e Felipe al suo bianco ci teneva.
Con lui ho imparato che il bianco andava aperto: se l’esposimetro diceva x, io dovevo aprire di almeno mezzo diaframma. Pena una nota di grigio.
Ma questo vale anche per il nero… solo a chiudere però.
Perché il bianco e il nero sono un concetto. E quello che va restituito è l’idea che abbiamo di questi estremi. Anche quando la scala è colore.
Felipe ci teneva sì al suo bianco… doveva essere esattamente come lo pensava: assoluto.
Un impegno quotidiano al quale non è mai venuto meno, leccandosi con ostinazione militare quando non gli quadrava.
Non era un fatto oggettivo, era davvero la sua proiezione di bianco, cioè di sé.
Se sono stato il fotografo di qualcuno, è solo di Felipe.
Non dimenticherò mai il suo sguardo.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Fotocamere: Polaroid SX-70 e 690 SLR.
Shared
Grazie per avermi lasciato il link
a questo post , che non avevo avuto la fortuna di leggere ancora; mi piace tutto quello che hai scritto, specialmente sulla relazione e quel “Non considero i piani intermedi: o ci si dà o ci si nega, per me vale uguale.” Bellissimo quanto vero o vero anche per me e per questo bellissimo. Profondo, perché esce dagli stereotipi che banalizzano le foto sui gatti come se fossero sempre le stesse foto scontate e quasi mielose degli amanti dei gatti o di fotografi scontati in cerca di tanti like…un modo stupido di guardare le fotografie dietro lenti di non meno scontati giudizi snob. Quello che ti scrivi sui gatti e su una modalità di fare e sentire la fotografia risuona nelle mie corde, è musica e poesia, ed è vera per la particolarità dei gatti, ma anche con altri animali. È un darsi o non darsi magari con modalità diverse, e si ha sempre a che fare con questa cosa un po’ magica del mettersi o entrare in relazione, senza invadere i campi, accogliere e rispettare, allora si sente il fluire di energia che è un andata e ritorno.
Post fantastico. Condivido il parere di Michele Casagrande.
Pietra miliare del tuo blog, questo post… Da leggere e rileggere. Sempre attuale.
grazie michele!
E’ vero quel che scrivi Efrem:
– “Quand’ero con la fotocamera nei paraggi, mi osservava con attenzione. E sapeva che da lì a un momento l’avrei mirato”.
Mi è capitato di fotografare molti gatti, per i paesi di mare e i paesi di montagna della zona dove vivo, la Puglia, i quali molti di loro mi osservavano con attenzione, altri erano più fifoni. Altri sembravano che si mettevano in posa, aspettando che da un momento all’altro avrei scattato la fotografia.
Rispetto alle tue fotografie di Felipe, i “miei” gatti prendevano la forma reale in molte delle loro posizioni o espressioni o sguardi. Mentre Felipe, sembra trasognante, quasi irreale come i sogni: li vediamo nella nostra mente, sembra di toccarli, e all’improvviso ti svegli e ti lasciano una sensazione strana come se hai vissuto per davvero un qualsiasi momento del sogno. Le fotografie che hai postato, mi danno questa interpretazione.
Ciao.
Samuele
@Samuele – sono di un altro pianeta ‘ste divine creature… fotografarli è un privilegio che ci concedono. il grado di relazione lo stabiliscono loro. guardarli mi insegna molto. felipe è stato un maestro. ciao!
conosco te ed ho avuto il piacere di conoscerte un po’ anche lui…e devo dire che era un fuoriclasse; quanto hai scritto della tua esperienza con lui è bellissimo, ma soprattutto la questione “del fotografo di chi” è a dir poco struggente. non ricordo bene chi ha già detto che più conosci le persone e più ami gli animali…però andrebbe approfondita, perchè non è mica troppo strampalata.
goditi e fai da “papà” al nuovo “killer potenziale”…mica solo potenziale. Ciao
gli animali coi quali conviviamo hanno un grande vantaggio: non gli importa niente del gradimento sociale o dell’appeal mediatico che hai. gli frega solo del rapporto che instauri con loro. nessuna mediazione… tutto diretto, a tu per tu insomma. ed è davvero un vantaggio. perché permette una relazione basata sul reciproco riconoscersi. mica poco. o no?
…eh si, tradotto è anche reciproca fiducia. Quella ” cosa” che permetterebbe di vivere meglio. Tutti hanno rispetto di tutti!!! Che cazzata che ho detto…in effetti da che esiste l’uomo, forse no è mai stato così. Credo sia un pensiero/ progetto troppo inafferrabile, pensare a piccoli gruppi di conoscenti, questa è la strada più percorribile. Il gruppo, il proprio branco di appartenenza (nel senso migliore, buono del termine). Avere e dare fiducia. Con la massima onestà ed etica, all’interno del gruppo. ETICA è la parola magica…mancante!!!
Ciao Mauri
ciao!:)
questo me lo sono stampato….
mi piace!
in effetti, c’è bianco e bianco, così come c’è nero e nero, tutti i pittori lo sanno, i fotografi meno.
il bianco di felipe irradia l’idea di bianco, sarà che hai barato con l’esposimetro, sarà che felipe è un gatto speciale (ma tutti i gatti lo sono)…… mi son sorpresa a fissare gli occhi alieni della prima foto ed aspettarmi una risposta, anzi a pretenderla.
e lui a modo suo me l’ha data.
in epoca analogica era una condizione imprescindibile anche per i fotografi. adesso sarebbe bene saperlo comunque.
“ogni gatto è illuminato”… ma per me felipe era illuminatissimo.
difficile pretendere qualcosa da un gatto ma visto che ci sei riuscita mi fa piacere pensare che è cosa vostra.
in effetti qul suo modo di guardare…
Parto dalla fine: la terza mi commuove, è di una dolcezza infinita, forse perché tutto quel bianco cancella ogni confine tra realtà e immaginazione, tra il soggetto e lo spazio, tra il sé e gli altri, e sostiene uno sguardo che è tutti gli sguardi immaginabili…
Anche l’articolo è bellissimo, una piccola grande lezione di fotografia.
in effetti quello è uno di quegli sguardi che non posso scordare…
quanto alla lezione… be’, non vuole esserlo. ma la questione del bianco e del nero è centrale davvero. giuro.
Mi ricordo quando da piccolo osservavo mio padre mentre fotografava Ben, il mio gatto. Ben si metteva davvero in posa. Meglio di tante persone che ho fotografato io.
non credo abbiano la coscienza del processo, ma il rito evidentemente lo apprezzano. e siccome dispongono di una dignità che molti di noi si sognano, quando si danno, quando lo decidono, è proprio una roba seria.
Eccoti qua! Ancora con un gatto che mi sembra di capire molto importante per te: sono davvero delle fotografie significative e quello sguardo impressiona tanto è presente, tanto è conscio. Davvero interessante il “rimbalzo” :) ai colori bianco e nero. Così come l’idea di avere un gatto per maestro. Chissà che meraviglioso rapporto deve essere stato per segnarti così.
un rapporto speciale… felipe mi ha davvero insegnato molto.
Ritratti a tutti gli effetti, belli e da cui traspare un’umanità intensa, d’altra parte in fotografia il dono della parola non conta.
una felinità intensa, giancarlo :)
certo felinità… ma anche umanità… diciamo che è l’incontro di una bella felinità e una bella umanità… comunque in queste foto c’è qualcosa di bello e intenso… l’abbandono che c’è nella terza foto è notevole