Madre di un fotografo

2013 © Efrem Raimondi. All rights reserved.      Mia madre, 2013

Quando sono nato, io non c’ero.
L’esserci coincide con la coscienza. Privato di questa, non esisti.

La mia consapevolezza ha cominciato a prendere forma con l’abitudine al seno di mia madre. Forse è a questo che devo la mia attenzione alle tette.
Ad alcuni funziona così, ad altri no e la saggistica a riguardo si spreca.
Solo non vedo il merito.
Per cui, in primis, mia madre.
Alla quale non devo tutto. Se non la nascita, che mica è poco… ma non è la vita, che è tale fintanto che si è in grado di esercitare quella roba chiamata arbitrio, che di sacro non ha niente.
Ma certo… a mia madre devo un altro milione di cose!
Per esempio, è la prima persona che ho ritratto.
Era il 1979 o giù di lì, e io cominciavo a smanettare con la mia Pentax K1000.
Sulle orme di mio padre, che fotograficamente non scherzava un cazzo – di lui ho pubblicato in diverse occasioni.

Ho capito in fretta che le orme semmai dopo, in quel momento ero una brutta copia. Dovevo andare per fatti miei. Cosa che ho fatto.
Andare per fatti propri è salutare in fotografia.
Dove, in che direzione, non sempre è dato di capire al momento. E il gerundio è il tempo fotografico ideale per tutti… fotografando si producono fotografie.
Mica scontato, però almeno ci si prova.

1979 © Efrem Raimondi. All rights reserved.           Mia madre, 1979

Mia madre in cucina e io con un grandangolo, un 28 credo.
Una fotografia ingenua forse, ma quello sguardo… quella posa…
Mia madre mi ama… e io? La amo altrettanto?
Me lo sto chiedendo qui, in questo ospedale. Mentre è stesa in attesa di un controllo. Brutta storia… sotto controllo ma brutta storia invecchiare. Io no, io ho ancora tre anni.
Io fotografo, io non ci penso.
E a me cosa resta? Mentre la guardo la fotografo.
Con l’unico mezzo che ho con me, l’iPhone.

Detesto raccontare il dolore. Quello degli altri soprattutto, nel quale non riconosco alcuna poesia, nessuna trascendenza.
Non censuro nessuna intenzione ma se proprio, racconto il mio. Come pare a me.
Libero da moralismi visto che riguarda me solo: nessuna morale!
E chissà da dove, mi viene in mente quello che mia madre mi diceva trent’anni fa, quando semi-pischello ho iniziato, Le copertine sono importanti. Quando le farai allora sì che sei arrivato.
Lo diceva con grande naturalezza, amore e ingenuità materna.
Oltre al fatto che non ne sapeva nulla di questo ambiente.
Mentre io lo respiro mamma… e sai una cosa? Ne ho fatte tante di copertine. Ma non si arriva mai. E non ci sono traguardi.

A margine: è di gran lunga più difficile ritrarre parenti e amici che gli sconosciuti, soprattutto se star. Ma da qualcuno bisogna iniziare.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamere: iPhone 4S e Pentax K1000
Film: Kodak Tri-X

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68 thoughts on “Madre di un fotografo

  1. non si esaurisce certamente caro Efrem, soprattutto perchè queste “presenze”
    famigliari fanno navigare nella memoria del tempo, del propio essere, delle situazioni, occasioni, accadimenti che, alle volte, nostalgicamente ripercorriamo

  2. Caro Efrem, mi è piaciuto molto leggere questi tuoi pensieri. Poiché hai avuto il “coraggio” di dichiarare la tua “attenzione alle tette” ( il nome “mamma” non è in fondo che la sineddoche della donna che ci ha generato ), mi è venuta voglia di inviarti un mio lavoro “giovanile”: “Il gesto dell’offerta” ( Lost Dreams Editions 2006 ), il primo volume della collana “Revisioni”, dedicato a Ando Gilardi, cui poi avrei dedicato l’intera collana, che tanto gli era piaciuto. Nel caso, fammi avere il tuo indirizzo. Un abbraccio. Nello Rossi

  3. Appena ho ascoltato cosa avevi da dirmi Efrem in quella foto in apertura (2013) mi è venuto in mente il progetto “Son” di Christopher Anderson.
    Lui, raccontando suo padre, ha visto in suo figlio una catarsi anche visuale.
    Tu ci sei riuscito da solo in quanto figlio, senza bisogno di ulteriore progenie.

    • non conosco quel lavoro Alberto, mi spiace. devo però dire che ho un precedente giusto con mio padre, un po’ di anni prima rispetto a questa del 2013:
      https://blog.efremraimondi.it/in-nome-del-padre/

      sono immagine che non vorresti mai fare. finché non ti ci trovi dentro. e se la tua fotografia coincide con la tua vita, la questione cambia. e fotografi. per me è impossibile non farlo.
      questa è, almeno per me, l’unica chiave.
      e non so dire davvero in cosa consiste la riuscita o meno, però ti ringrazio davvero.

  4. le mamme non possono dare e creare tristezza, non è nel loro animo protettivo nei confronti dei figli ed io per fortuna ho un ricordo che propende molto verso la gioia e la bellezza dai momenti , che relegano le vicende amare in un angolo
    Spero sia così anche per te caro Efrem

    • sì Roberto. ma anche no. dipende… non idealizzo la maternità, penso alla figura che ho davanti. sempre. perché ci sono certe mamme, e padri, che parliamone!
      ti tranquillizzo con vero piacere: non è il mio caso.
      però son mica sicuro che tutto questo esaurisca il senso di questo pezzo. nel suo insieme. o no?

  5. oltre al piacere di rileggere questo post, di cui avevo un ricordo troppo vago e del quale mi colpisce un punto interrogativo in sospeso che però non sono affari miei, trovo nel commento di Vilma – che ringrazio, anche se in differita – molti spunti su autori che hanno fotografato un proprio lutto. Spunti che allora non avevo raccolto, mentre ora sì – l’acqua in cui ci si bagna non è mai la stessa.

    • e io la amo altrettanto? questo laura?
      sì, trovo il commento di vilma decisamente ricco.
      però questo, soprattutto le due immagini, non hanno a che fare con alcun lutto. se non il mio nel riscontrare l’addio a un certo tempo

  6. Salto mamma e dolore, perché sono stati per me le due line bianche che delimitano la carreggiata, senza purtroppo nessun incrocio per tentare di cambiare strada… (ho comunque visto tante cose belle durante il tragitto guardando oltre quelle linee). Torno a bomba sul gerundio, è solo fotografando che si producono fotografie, un concetto che adoro e che cerco sempre di trasmettere ai miei ragazzi durante i corsi. Anche solo per abituarsi a guardare e vedere come un obiettivo fotografico… Grazie Efrem per le riflessioni che stimoli sempre a fare !!! A presto Virgilio

    • mi è chiarissimo quello che dici sull’assenza degli incroci, Virgilio. e concordo, sarebbe meglio evitare certi percorsi, ma se ci sei dentro, e sei fotografo, un’altra visione è possibile. ed è più ampia.
      con beneficio al seguito. sembra un azzardo, ma è così. poi chiaro, non è un obbligo: chi sì e chi no, non c’è merito o demerito.
      grazie a te!

  7. racconta tantissimo questa foto. c’è calore, affezione. mi commuove non di tristezza, ma di gioia, di ricordi…perché penso alla mia

  8. Efrem – io ringrazio te! Sono d’ accordo che in fondo sia un atto che viene da se, attraverso la fotografia comunque parliamo di noi, meno congeniale forse della parola, spesso e volentieri fraintendibile. Un’ immagine è di per sè una testimonianza, anche e soprattutto un linguaggio molto più eloquente di qualsiasi parola, anche un modo per esorcizzare la nostra inevitabile fine terrena. E’ quindi ogni fotografia una temporanea illusione d’ immortalità? Il nostro racconto senza parole, fatto di sguardi pieni di fiducia e meraviglia. La certezza dell’ epilogo di una vita ci spaventa e la malattia, sopra tutte, terrorizza! Fosse un click sarebbe facile, rapido, indolore,
    istantaneo ed umanamente accettabile.

    • piero – sei molto ottimista sulla capacità intrinseca della fotografia. e comunque meglio ottimisti che disperati :)
      anche perché il processo di sublimazione del dolore, è merce rara, non per tutti e comunque ha un costo

  9. Grazie di aver condiviso parte della tua storia con noi. Mi ha colpito molto il passaggio sul dolore e credo che in molti ci ritroviamo in quelle parole. Ogni volta e’ un piacere leggerti. Un blog si, ma anche un momento per una buona riflessione “bella secca” come la chiami tu. Fotografia e analisi interiore. Ti stimo tantissimo Efrem …

  10. Mai banale Efrem!
    L’ asciuttezza e il distacco con i quali affronti certi sensibili argomenti mi sorprendono ad ogni articolo che posti. Non è facile, mai, parlare di sè e della propria vita, alla quale sono appese milioni di emozioni ed immagini, esperienze che costruiscono la propria identità e rendono più o meno sensibili i nostri occhi sul mondo esterno e sull’ universo interiore. Le cose hanno un nome e tu puntualmente lo sottolinei, è bello leggerti nelle parole ed interpretarti nelle tue immagini. Mi piace molto il passaggio sulla presenza, essere, legato alla coscienza; è talmente vero per quanto banalmente ci è stato raccontato che un embrione sia già vita.

    • piero – grazie! però in fondo non è così difficile. sia parlarne che fotografare. soprattutto fotografare. è un fatto complesso. ma semplice. ma questo credo valga per tutto. o no?

  11. Grazie Efrem, il caso ha voluto che trovassi il tuo post al momento giusto.
    E grazie per quello che ho letto.

    • marco – è un percorso individuale… ma se le fai è perché la volontà ultima è quella di mostrarle. perché se davvero la fotografia è sede del linguaggio che ti riguarda, non hai scampo: questione di tempo.

  12. eccolo qua, lo cercavo questo post, oggi che rimando la stampa di una fotografia che mi fa penare e che tuttavia mi è necessaria per consolarmi dalla sua sofferenza: e dalla sofferenza della mia nonna-mamma che sorride mentre dorme, in un letto d’ospedale durante il suo calvario.penso che questa fotografia possa consolare tutti, chiunque la guardi, ma forse sono solo io che lo penso.

    • Daniela – mi fa molto piacere che tu l’abbia trovato. io credo anche a una fotografia consolatoria. non so se questa lo sia in generale. ma almeno per te e per me lo è. mi sembra già molto

  13. Caro Efrem,
    il ritratto è un gran problema in fotografia. Tra poco uscirà un mio pezzo su Punto di Svista proprio su questo problema. Ma a parte ciò, volevo dirti che trovo entrambe le immagini che hai pubblicato di grande interesse, per motivi diversi. Riguardo il fotografare il dolore di una persona amata, la sua malattia, la questione si fa ancora più complessa.
    Ricordo di aver visto alla Biennale di Venezia un video di Sophie Calle dell’agonia della madre morente. Era un’immagine fissa ravvicinata, luce bianca, il volto immobile, gli occhi chiusi. Sembrava una fotografia. Era un video invece e chi guardava si accorgeva di ciò dopo molti minuti di visione, quando entrava in campo la mano di un’infermiera che poneva le sua dita vicino ala naso della madre di Sophie Calle per capire se respirasse ancora oppure no.
    Ricordo che passai una giornata non bella. Quest’opera di Sophie Calle mi aveva colpito profondamente (n.d.r scriverò un pezzo anche su questo…penso). Come aveva potuto, l’artista francese filmare la morte della propria madre? Perché aveva dediso di trasformare la morte delle persona che le aveva dato al vita in un’opera d’arte?
    Non voglio dare risposte. Penso che ognuno possa dare le sue. Tutto questo “pippone” per riflettere un po’, tutti insieme, sulle tue considerazioni…
    Ribadisco che trovo le fotografie che hai pubblicato un terreno molto interessante di riflessione. Grazie Efrem.

    • vero caro maurizio! il ritratto è un gran problema. da sempre, anche quando era solo pittura. già la scultura… la fotografia ha ampliato il problema credo. proprio per questa sua maggiore vicinanza alla realtà del visibile. che poi sia realmente così, è un’altra faccenda. non ho visto il lavoro della calle. ma posso immaginarne la drammaticità. ed è spontaneo che ci si chieda se è possibile, moralmente accettabile, che un artista proceda in questa direzione. però penso anche che chi usa un linguaggio, qualsiasi forma abbia, è anche possibile che non si sottragga e affronti la paura e il dolore, il proprio innazitutto, con mezzi che sono visceralmente propri. forse gli unici che ha. anche per difendersi. come giustamente dici, è faccenda complessa… non vedo l’ora di leggere il tuo articolo a riguardo.
      quanto a questo post – essendo un blog, mi dicono che la parola articolo non si può usare :) – in realtà non voleva essere drammatico, almeno nelle mie intenzioni.voleva anzi essere anche spunto per ragionare sulle maggiori difficoltà del ritratto famigliare, quello che ci riguarda da vicino, rispetto a quello che non ci riguarda strettamente. poi boh, non ho usato gli accenti giusti. magari c’è un motivo… qualcosa di irrisolto.
      grazie anche per l’attenzione alle fotografie! così lontane tra loro cronologicamente…

      • Leggo ora questo post, con calma dopo un anno.
        Il dolore degli altri è più facile da fotografare, ma credo moralmente meno accettabile. Mi è capityato di fotografare diverse situazioni difficili, una la ricordo particolarmente: in un campo profughi della Ex Yugoslavia, una donna mi parlava piangendo, nella sua lingua, la tale mole di emozioni mi aveva congelato, non capivo nulla ma a livello stomacale era devastante. Non ho scattato. Quando un ragazzino (bella tegola anche per lui) mi tradusse quello che diceva: fu come un calcio in piena faccia. Non ho foto di quel momento, mi sono chiesto dell’utilità della fotografia per anni ricordando che non c’era modo di descrivere cosa mi aveva tradotto il ragazzino, neppure facendo il ritratto più “concerned” della storia. Il dolore degli altri esige rispetto, e spesso impone di abbassare la macchina. Senza vie di fuga.
        Il dolore proprio invece bisogna avere la forza di affrontarlo, ma dipende sempre dall’imponenza dell’istante che si è vissuto. Da dove arriva il calcio. Mi è capitato di non aver neppure pensato la fotografia potesse esprimere il legame tra me e i miei cari, in alcuni momenti più delicati di altri, e per rispetto a loro non ho amato prendere ricordi visivi. Per rispetto anche del ricordo credo. Ricordo odori, respiri, leggerezza della pelle del viso sotto le carezze, un sacco di cose. Tenerezza, alla fine.
        Come tenero è il tuo Post, Efrem, che, anche se di copertine ne hai fatte tante: ti sei accorto che non bastano.
        Buona giornata ad entrambi.

        • è l’eterno quesito. e non riguarda solo le zone di guerra o tutti i sud del mondo -concetto, non necessariamente luogo geografico. capisco perfettamente il tuo deporre l’arma… e forse avrei fatto lo stesso. ma non biasimo chi diversamente agisce: è il come che fa la differenza. ed è la speculazione demagogica che mi fa vomitare, che se non altro si vede subito. e questo riguarda anche il fruitore. altrimenti non mi spiego certe code a certe mostre. come in autostrada quando l’incidente è dall’altra parte. tu hai perfettamente ragione: la rappresentazione del proprio dolore dipende dall’imponenza dell’istante… quello che vivi al momento. perché è lì che fai una scelta. magari sedimenta, magari non ne fai niente… magari fotografi. la fotografia onesta, anche se durissima, si vede.
          non l’ho mai fatto e ho agito d’istinto nel riproporre questo “post” sui social… direi sollecitato dalla circostanza FESTA DELLA MAMMA e dalla demagogia sentimentale che la riguarda. anche la parola dovrebbe essere deposta…
          le copertine… era una cosa che a suo tempo, quando lo disse mia madre, mi aveva colpito. ma ti posso garantire che già allora, pischello, avevo la vaghezza che non erano così importanti. buona giornata anche a te fabiano

    • la fotografia è la certezza del’ “è stato”, almeno secondo Barthes che scrive “…..questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro anteriore di cui la morte è la posta in gioco. Dandomi il passato assoluto della posa (aoristo), la fotografia mi dice la morte al futuro. Ciò che mi punge, è la scoperta di questa equivalenza”. nessuno meglio di un fotografo può capire questo senso di “morte al futuro”.
      Richard Avedon, Sally Mann (“My Father”, 1988), Briony Campbell (“The Dad Project”, 2009), Eugene Richards, le famose foto di Annie Lebowitz che fotografa fino alla morte la compagna Susan Sontag e lo sconvolgente “Pas pu saisir la mort” di Sophie Calle alla 52ma Biennale di Venezia: questi l’hanno capito.

  14. “Le copertine sono importanti. Quando le farai allora sì che sei arrivato.” credo sia la cosa più bella che ci si possa sentire dire dalla propria madre, anche nella sua naturalezza. (però un pochettino ci sei arrivato… )

    • non mi piacciono tanto le situazioni che sanno di definito, o di definitivo stefano… per cui non c’è né poco né tanto, c’è un proseguire. il vantaggio è che le foto, se valgono qualcosa, proseguono per conto proprio. quindi non si arriva, questo è l’auspicio.

      • te lo auguro anche io, vista così… tra l’altro non avevo mai pensato al fatto che se le foto valgono qualcosa, proseguono per proprio conto. E’ molto interessante…

    • nel ’79 ero un pischello che smanettava e andava a tentoni… in realtà devo correggere la data di quella foto. per onestà: 1983… avevo un dubbio e sono andato a verificare. resta il primo “posato” in assoluto che mi riguarda.

  15. Mi ha dato fastidio questa fotografia.
    Mi ha dato fastidio perché non è, dalla mia visione, un ritratto. E’ una pura sensazione.
    Una storia. La storia di un figlio che distoglie un poco lo sguardo dalla propria madre sofferente verso un’uscita, perché fa male. Ma non può non fotografare, perché deve, perché è quello che può fare, essere fotografo. Che croce deve essere!

    • ma è vero pasquale! non è un ritratto… è una fotografia senza qualifica. mi capita di farne… per me sono elementi di sintesi, come un crocevia.

  16. “l’esistenza e la vita – dice David Foster Wallece – spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili”, e così, dolorosamente, ogni giorno si diventa se stessi, o forse si diventa chi ci assomiglia.
    con parecchi effetti collaterali.
    ho esitato molto prima di intervenire, non volevo intromettermi in un discorso troppo intimo, da brava genovese ho molto pudore dei sentimenti.
    ma dopotutto, tu non avevi altra possibilità che fotografare e noi non abbiamo altra possibilità che guardare, seppure con l’impressione di violare un momento privato.
    tua madre oggi e ieri, una fotografia ingenua, dici, che sta nell’immaginario collettivo di un’intera generazione: la radio portatile accanto al tagliere, la moka da tre tazze sui fornelli, il lampadario (a saliscendi?) sul tavolo…. la figura della madre è sempre prevedibile, la madre fa la madre.
    i padri invece sono tutti diversi, fanno i minatori, i sommozzatori, i manager, i fotografi.
    poi arriva “l’ottobre del 1995” e tutto finisce.
    e improvvisamente capisci che “il più bello dei mari è quello che non navigammo” e che non potremo navigare mai.

    p.s. “In nome del padre”, sottotitolo: fotografia e DNA. le foto del futbal sono stupende.

    • ma poi vilma, quasi tautologico: diventa pubblico se pubblico. e non si viola niente. la fotografia è di per sé la rivelazione di un fatto intimo. poi, concordo, c’è grado e grado. ma qui, credo, è più il senso che do al fotografare, la sostanza.

      vero… improvvisamente capisci che c’è una fine. e che tu sei un altro.

      già… amo molto le fotografie del futbal… e mio padre non professava. ma per me è stato un maestro. quel suo sguardo…

      certo che è un saliscendi il lampadario… 1979! si usava nelle cucine :)

  17. Un bellissimo post Efrem. Due bellissime foto. Diverse ma intense anche quella di quando eri semi-pischello :)

  18. Due fotografie così diverse tra loro: nella prima tu ti curi di tua madre, nella seconda lei ti ama! In mezzo questo tuo modo di raccontare uguale al tuo modo di fotografare. Sei un grandissimo. Immensa stima.

  19. Mi sono sempre chiesto perché non ho mai avuto il coraggio di fotografare mio padre in un letto simile a questo qui.
    La paura, credo, di guardare un attimo prima qualcosa che avrei guardato e conosciuto prima o poi..
    Credo. Non ne sono ancora sicuro e continuo a chiedermelo.
    Tu no. Non hai paura.
    Sei un grande fotografo, ma prima un grande figlio.
    Mi piace molto quello che hai scritto.

    • mi era successo già con mio padre. in una situazione decisamente drammatica… e tra tutto quello che a chiunque può passare per la testa, io ho aggiunto quello che sapevo fare: fotografare. quindi l’ho ritratto. credo che la differenza non riguardi una diversa sfumatura del pudore. ma che, almeno per me, non avessi altra possibilità che ritrarlo. un modo forse per guardarla in faccia la paura. che c’è sempre e comunque. anche quand’ero qui con mia madre. un modo per fermare tutto.

  20. grande! hai aperto una parte del tuo intimo che è uguale a quello di tutti….la mamma.
    è vero non si arriva mai

    • oddio, detta così eligio, sembra la madre assoluta :) quella celebrata dalla festa, che insomma un po’ mistificante è. o no?

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