Ovvero analogico versus digitale.
Sto iniziando una collezione di immagini dal titolo Foto a cazzo.
Sono fotografie realizzate senza pensare, puntando dove capita… dove comunque l’occhio ha una minima attrazione. O distrazione. Fotocamera in completo automatismo, autofocus incluso. Prevalentemente con una compatta, col cellulare o con qualsiasi cosa rigorosamente digitale.
Alcune di queste immagini racimolate anche dal passato più o meno recente e ammetto, anche in pellicola.
Quindi si possono fare comunque delle immagini così come capita, e magari ugualmente a cazzo anche con l’analogico… solo che il fatto di non vederle subito e il costo del processo mi inibiscono. La disinvoltura del digitale è altra roba insomma.
Tutto ciò, ricorda qualcosa?
E qui comincia la faccenda… l’analogico prevede un maggiore rispetto per ciò che si sta facendo e schiacciare un tasto ha a che fare con un processo che si rivelerà un tot dopo, a seguito di un percorso che richiede tempo. Lo scatto resta in tempo reale, ma la sua conferma no. Non solo… è completamente assente il tasto che ti permette eventualmente di riacquistare la verginità perduta: la memoria non si recupera e quella a disposizione coincide col tòcco di pellicola che resta. Dopo di che fine. Dopo di che passi ad altro rullo. Ad altra attesa. Nel frattempo magari rilassi il dito.
Non è lo stesso! Non è meramente un fatto tecnico legato alla diversa tecnologia… è un fatto fondamentalmente culturale!
La percezione analogica richiede maggiore consapevolezza!
E questo plus incide sulla proprietà di linguaggio. Direttamente.
La fotografia è cambiata! Analogico, scansati!
È la parola d’ordine vuota e stupidamente appiattita alle regole di un mercato il cui unico interesse è massificare il consumo.
Certo che la fotografia è cambiata, cambia di continuo. Da sempre.
Ma mai come oggi è offesa. Al punto che varrebbe davvero la pena dichairarla morta.
Solo che è un cadavere non sepolto trasformatosi in zombie.
Non ho preconcetti nei confronti del digitale, lo uso come chiunque altro. Per cui non sono tacciabile di purismo. Puro cosa? Sono lercio e uso qualsiasi strumento mi serve allo scopo.
Solo denuncio la demagogia di una democrazia digitale che permette libero sfogo a chiunque, specialmente se privo di capacità espressiva ma che grazie al mezzo trasforma qualsiasi momento in esibizione. Siamo nel vuoto temporale, quello in balia del trend momentaneo. Dove il valore aggiunto della postproduzione è in molti casi folklore. Quando non devianza ideologica.
Ed è ora di dare una bella stoppata a Photoshop, non al programma, ma a chi lo masturba. Però di questo ne riparleremo.
L’editoria periodica è ridotta a pezzi e gli editori si lamentano… ma le vogliamo guardare ‘ste riviste? Fanno mediamente schifo.
Non è diverso lo stato della comunicazione pubblicitaria e dell’arte: quali sono le mostre che si ricordano?
Non è che magari ha a che fare con la negazione della memoria?
Con la necessità di un totale indistinto che evita accuratamente il linguaggio, cioè la capacità di rendere intelligibile la percezione, la propria, e magari produrre qualcosa di meno volatile di una scorreggia?
Solo apparentemente i due percorsi, l’analogico e il digitale, conducono allo stesso risultato, per cui di che diavolo sto parlando?!
Lascio perdere in questo caso discorsi sul volume e la piattezza e tutte quelle belle cose che sono peculiarità dell’uno e non dell’altro, quello che dico è che ci sono similitudini nel risultato solo in subordine al cranio di chi ne fa uso.
Altrimenti, vista la quantità spaventosa di immagini che rimbalzano da ogni dove, no, non sono per niente la stessa cosa.
Un improvviso azzeramento delle performance digitali in ambito fotografico decreterebbe una caduta verticale della frenesia produttiva di immagini. Ma questo non accadrà.
Ci vorrebbe un trattato sull’argomento, ma questo non è luogo e io non ho la patente.
Foto a cazzo è il mio personale contributo all’album di famiglia, quello della post-fotografia.
Work in progress.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Nota: la fotografia pubblicata non fa parte della collezione.
Fotocamera Leica CM. Film Fuji NPS 160.
Errata corrige: fotocamera Ricoh GR1s.
Ho trovato molto interessanti gli interventi di Vilma Torselli e i tuoi e concordo sul fatto che il tema cruciale sia quello della realtà e la sua rappresentazione. Volevo solo aggiungere una riflessione, questa volta, sulla lingua. Tu solleciti una definizione che distingua la fotografia (analogica) da quella digitale (post-fotografia?), ma già la parola “fotografia” è alquanto generica. Si definisce fotografia qualsiasi immagine prodotta da una macchina fotografica e con qualsiasi finalità: da quelle esposte al MOMA a quelle fatte con una macchinetta automatica per foto-tessera. Penso che questa mancanza linguistica rispecchi la generale percezione della fotografia come arte minore. E’ un po’ come se definissimo “ripresa” tutto ciò che viene prodotto con una macchina da presa: dai film dei grandi maestri alle riprese delle videocamere di sorveglianza. In questo caso invece la lingua ci fornisce tanti termini (film, documentario, filmino delle vacanze, ecc.) chiarendo subito quali sono le finalità del prodotto: arte, intrattenimento, documento, ricordo…
Ecco, penso che il digitale sia arrivato a complicare a accelerare una vaghezza, una mancanza di definizione e di identità, che era già propria della fotografia.
molto interessante e puntuale giancarlo…
dico la mia. in realtà un accenno l’ho fatto ne “Il fiore è nero” http://blog.efremraimondi.it/?p=1354 . cerco di precisare e ti ringrazio per l’occasione: la distinzione analogico-digitale la intendo in primis come una pura differenza tecnica, e il risultato finale potrebbe concettualmente essere lo stesso. le differenze però ci sono e si spalmano, anzi precipitano sulla parola. hai ragione, il digitale è intervenuto pesantemente. ma forse più che a sottolineare una vaghezza direi a creare un distinguo tra immagine e fotografia. tutto è immagine, innegabilmente. ma se fotografia è scrivere con la luce, questo richiede una chiarezza di intenti e una coerenza che appartengono a una volontà espressiva: io voglio dire questo e per farlo uso quest’altro. mentre nel caso dell’immagine basta anche “non ho idea di cosa voglio dire, ma lo strumento mi darà comunque una cosa”.
insomma bello complesso…
la percezione della fotografia come arte minore o ‘art moyen’, il concetto di ‘medianità’ come caratteristica che le permette di adattarsi facilmente ad essere definita tanto scienza quanto arte, determinano la genericità linguistica che Giancarlo sottolinea, sintomo di una sostanziale incertezza del giudizio che colloca la fotografia, come scrive Jackie Wullschlager, “tra il museo e il chiosco dei giornali, lo studio e la strada, l’eternità e l’effimero”.
Credo che vaghezza della fotografia sia congenita, come si conviene ad un’attività che, per il suo carattere intuitivo, può indiscriminatamente interessare ogni fascia di utenza senza distinzioni di cultura, età, preparazione, con intenzioni artistiche o documentali, aprendosi sia al dilettantismo che alla professionalità, rendendo sempre più difficile evidenziarne confini e differenze.
E il digitale confonde ulteriormente le carte, aggiungendo una complessità di varianti che rendono ancora più ambigua una definizione già vaga.
Forse le cose si semplificano se partiamo dall’idea che analogico e digitale sono due linguaggi completamente diversi e che quindi non si tratta di farne discendere uno dall’altro o di trovarvi coerenti punti di contatto, ma di trovare per ognuno significative peculiarità da utilizzare di volta in volta secondo le loro intrinseche potenzialità.
Il dualismo analogico/digitale è significativo di “due modi differenti di rappresentare la realtà: uno procede per analogie e processi continui, l’altro in maniera discontinua e attraverso dei segni (che vanno interpretati con un codice)” (Franco Fileni “Analogico e digitale” 2003), sono i due modi secondo i quali lavora il nostro cervello, dove l’emisfero destro elabora le informazioni analogiche, il sinistro quelle digitali. La foto dove la luce impressiona direttamente la pellicola è analogica, quella in cui la luce agisce su un sensore che la trasforma in linguaggio binario è digitale, siamo in grado di comprendere e di utilizzare sia l’uno che l’altro di questi linguaggi, ma forse non siamo ancora capaci di capire quando/come/perché usare l’uno piuttosto che l’altro.
Aldo Manias, che mi ha affascinato con i suoi drammatici bianchi e neri, dice la sua sull’argomento in un’intervista del 2009:” [….] Non vedo che differenza ci sia tra l’avere un’immagine latente su pellicola oppure memorizzata su una scheda di memoria. Ciò che conta è l’immagine. […..] – rivelando tuttavia una posizione non proprio neutrale quando aggiunge – “il fotoritocco è sì un’arte ma NON è fotografia è semplicemente fotoritocco, grafica! mai fotografia [……]”. Quindi, rispetto all’analogico, la grande possibilità di ritocco offerta dal digitale sembra essere, secondo lui, l’elemento discriminante e demonizzante, ma non è chiaro perché.
Forse bisogna partire da qui e ripercorrere il travagliato cammino che l’arte visiva ha affrontato per ricostruire la propria identità, azzerara dalla fotografia, trovandola nella possibilità di esprimere ciò che non era fotografabile, i sentimenti interiori e i moti dell’animo.
La tecnica è inerte, è ‘spassionata’, pur tendendo al proprio autopotenziamento essa prescinde da qualsiasi scopo, solo un uomo che la utilizza può darle significato.
Chiudo con la citazione tratta da una lectio magistralis di Umberto Galimberti: ” la tecnica produce una modificazione del nostro stesso modo di pensare; essa ci allena al pensiero calcolante, cioè al pensiero convergente: quello fatto di soli zero ed uno, quello dei computer insomma. E la tecnica modifica anche il nostro sentimento […..] Tutti questi rischi furono bene individuati da Heidegger quando questi affermò che noi non siamo affatto preparati alla trasformazione tecnica del mondo. A questo bisogna anche aggiungere che noi non disponiamo, oggi come oggi, di un pensiero che sia alternativo a quello tecnico.”
Questo è secondo me il dilemma che deve affrontare l’uomo del terzo millennio, non solo fotografo.
urca vilma… c’è talmente tanto nel tuo intervento che altro che ‘sto spazio! ed è benvenuto, perché riflettere in questo momento è fondamentale. proprio perché stiamo vivendo un cambiamento epocale, al quale appunto non siamo preparati visto che ci siamo ben dentro e nulla è definito.
limitatamente al fatto fotografico ho l’impressione che occorra distinguere la pratica e cioè il fotografare (anche digitale) dal prodotto, cioè la fotografia. i linguaggi tecnici possono differire ma produrre immediatamente la stessa cosa. oppure mediatamente roba assolutamente diversa.
normalmente non amo la fissità delle definizioni, ma qui ci si trova nel bel mezzo di una produzione talmente confusa e figlia di questo tempo ibrido che inevitabilmente mi siedo e mi guardo attorno alla ricerca di un conforto che aiuti.
Oggi, nell’epoca dell’imperialismo tecnologico, si è perfezionato ai massimi livelli di integrazione il rapporto uomo-macchina,tanto da accreditare l’idea che tutto ciò che sia tecnicamente possibile divenga automaticamente lecito e sia in grado di condurre al risultato migliore.
In fotografia, il superamento del limite è continuamente incoraggiato dalla crescente sofisticazione dei mezzi digitali con il rischio reale di perdere in qualità e libertà espressiva ciò che si guadagna in facilità esecutiva. Perché, oggi come prima del digitale, tra immagine e fotografo si frappone come indispensabile mediatore l’apparecchio fotografico, con sue precise e limitate, seppur numerosissime, caratteristiche tecniche, alle quali il fotografo si deve adattare operando le sue scelte entro un’offerta sì vasta, ma certamente circoscritta e rigidamente definita. Cosicché, ci fa osservare Vilém Flusser, non è tanto il fotografo ad usare la macchina quanto la macchina ad usare il fotografo per costruire l’immagine secondo i propri parametri interni, determinando il risultato secondo il proprio programma.
E’ vero, come il post sostiene, che “un improvviso azzeramento delle performance digitali in ambito fotografico decreterebbe una caduta verticale della frenesia produttiva di immagini”, ma è lo stesso autore che, realisticamente, dice “Ma questo non accadrà”. Penso che queste stesse considerazioni si siano poste quando, nella seconda metà dell’ottocento, è stata inventata la macchina fotografica: allora, l’arte visiva, che si era da sempre proposta come mezzo per riprodurre il reale, si augurò un azzeramento delle performance di quel diabolico strumento, ma anche allora non accadde.
Ricorrendo ancora a Flusser, forse è il momento di rifondare una “filosofia della fotografia” partendo dal suo rapporto con la tecnologia, per capire quali possano essere i nuovi spazi di libertà da conquistare in un mondo dominato sempre più dalle macchine.
più chiaro di così…
vero vilma, il problema si era già posto con l’avvento della fotografia… ma era estranea, dichiaratamente e intenzionalmente altrove. e certo il mezzo, lo strumento tecnologico ne segnava l’estraneità. ma anche la cifra. che naturalmente è fortemente cambiata nel corso di questi quasi due secoli. però all’interno di uno stesso patrimonio genetico. e addirittura anche senza ausilio di alcuna fotocamera o ambaradan (se hai voglia http://blog.efremraimondi.it/?p=1354 ).
quello che oggi mi sembra cambiare è che se ne rivendica la continuità quando invece mi sembra esserci frattura: fotografia prima, fotografia adesso… e questo non so se è poi così vero.
per questo hai assolutamente ragione nel dire che forse è il momento di rifondare una filosofia della fotografia. anzi, senza forse. chiedendosi anche se la cosa che vediamo vagare ognidove non è però altro. proprio in funzione di una sempre minore consapevolezza del gesto. che in fondo è il vero motivo di questo articolo. almeno credo.
questo è un articolo, del 2003, di vilma torselli. e merita una lettura attenta:
http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/21.htm
Anch’io ti dò ragione (e non per un educato scambio di cortesie).
Foto-grafia, scrittura con la luce, “partendo dallo sguardo”: forse è quello che si dicevano Ingres, Van Eyck, Caravaggio quando usavano la ‘camera chiara’ per i loro disegni, mediati da un rudimentale mezzo ottico basato su principi che ancora adesso sono quelli della macchina fotografica tradizionale. A chi, allora, disegnava a mano libera doveva sembrare una inammissibile mistificazione, ma oggi quell’espediente nulla toglie alla nostra ammirazione per Caravaggio……
Esiste indubbiamente una frattura, non solo tra la fotografia prima e la fotografia adesso, ma tra il concetto stesso di realtà prima e realtà adesso.
C’è stato un il “delitto perfetto”, scrive Jean Baudrillard, che ha ucciso la connessione tra reale e virtuale, tra il mondo e l’apparenza del mondo, perché il virtuale è così perfettamente simile al reale da cancellare le sue tracce e sostituirsi ad esso.
Personalmente credo che il progresso tecnologico, frutto della speculazione umana e non un evento estraneo che ci viene imposto dal di fuori, sia un fenomeno inarrestabile e, per certi versi, incontrollabile, e sarà assai più probabile che venga revisionato il nostro criterio di giudizio sulla realtà piuttosto che la realtà stessa, quale che sia.
Forse quello che dobbiamo fare è assumere un nuovo atteggiamento autenticamente autonomo, non condizionato da confronti e pregiudizi culturali, per giudicare “con occhi nuovi” una disciplina che non è evoluzione della pittura, che non è clonazione della realtà, che non è riproduzione dell’esistente.
E’ fotografia.
infatti. da lunga pezza sostengo che la questione vera è il rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione per come l’abbiamo sempre affrontata e immaginata, e il virtuale. che è un’altra rappresentazione della realtà. l’equivoco a volte nasce dal presupposto fotografico (sbagliato a mio avviso) che ci si confronti con la verità. concetto totalmente estraneo e di cui non me n’è mai fregato niente.
questo è un tema che avrei affrontato su queste pagine. mi hai preceduto. e mi fa piacere.
Concordo e amplifico il pensiero con mie idee, per quanto banali, tempo fa leggevo sul blog di Michele Smangiassi della nuova fotocamera Nikon che anticipa il fotografo e lo segue dopo lo scatto, ovvero, se non ricordo male fa una decina di scatti da sola prima e una decina di scatti da sola dopo lo scatto del fotografo, per poi far segliere al fotografo stesso quale la migliore tra le tante. Il mio commento era, appunto che la fotografia è, non più del fotografo, non più della macchina fotografica, ma del software. O meglio chi detiene i diritti sulla fotografia dovrebbe essere chi detiene i diritti del software. Così ho scoperto fluser e mi sono anche letto fotografia e inconscio tecnologico di marra che riporta grosso modo le stesse idee, anche se con conclusioni leggermente diverse (se scrivo stronzate stroncatemi senza pietà :)) ).
Sempre sullo stesso tema, basta pensare alle foto di google street, più automatiche di così, con tanto di avvenimenti strani (gente che cade, prostitute etc..), ora più a cazzo di così… senza più nessun intervento umano diretto, se non il passare da li.
A margine, pensavo ieri a una definizione della fotografia, che per quanto molte menti sicuramente più acute e acculturate di me ci abbiano provato, si è sempre rilevata evasiva, quasi scivolosa. Pensavo alla grotta di platone della sotang, in effetti un modo semplice di pensare la fotografia è l’ombra, poi vabbè riflessa nello specchio e fissata sulla carta, pellicola, polaroid con il bic, ma sempre qualcosa di riflesso, come l’ombra appunto. Per cui è vero che c’è una fotografia prima e una fotografia dopo il digitale, ma a mio avviso, resta sempre la consapevolezza di chi fa la fotografia (anche se devo ammettere che vi sono miliardi di foto a cazzo fatte veramente senza cognizione di causa).
In effetti erano un paio di giorni che riflettevo sul tema centrale del post di Efrem, mi ero distratto dalla vena polemica.
non ho bene idea di cosa faccia ‘sta nikon, e tutto quanto il tema è avvincente sul piano analitico. quello che intendevo sottolineare in questo articolo ha a che fare però con la premeditazione. e in questo, vero, sul piano teorico il mezzo conta poco. poi però appunto dobbiamo fare i conti col cambiato livello di accessibilità. che muta tutta una serie di rapporti.
devo ritrovare l’articolo e lo posto. Però il problema di questa macchina resta, non si accende a caso, ma nel momento in cui tu inquadri e credo premi il pulsante di messa a fuoco, lei fa tutto sto lavoro per te. Quindi comunque c’è l’intenzione, ma fortemente “aiutata” dalla macchina.
Si il livello di accessibilità è decisamente cambiato, anche solo ora, scrivendo qui, siamo di fronte a questa accessibilità “totalizzante”, dove parole, immagini, video e audio ci raggiungono ovunque.
Fare foto a cazzo credo sia insito nello strumento che a sua volta è connesso, di qui la quasi esigenza di documentare tutto. Parlo del fototelefonino, perchè comunque la macchina fotografica, per quanto portatile ed economica, ti costringe a scaricare e pubblicare le foto, una scocciatura (per me almeno). Certo è che c’è un gran marasma di nulla, che non ha significato se non per la persona che ha scattato e probabilmente solo in quel momento ha valore anche per la persona, poi si perde.
http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/11/29/criteri-oggettivi-o-ideologie-elettroniche/
Ho letto e riletto, nient’altro. Trovo l’articolo estremamente interessante, oltre che godibile per lo stile che ti contraddistingue anche nella scrittura. Ma mi sento veramente inadeguato a dire alcunché a commento, non voglio approfittare della democrazia digitale del blog, nemmeno per aggiungere che condivido molto, sembrerebbe solo piaggeria. Io sono un peones, mosso da tanta passione, approfitto degli spazi che questa democrazia concede al suo popolo, sono di parte, non posso criticarla, mi ci diverto pure.. Questa democrazia è figlia della rete che ha cambiato il mondo, globalizzando l’informazione, è una macchina potente ma altrettanto pericolosa, con la quale puoi compiere imprese altrimenti impensabili, ma puoi anche ridurti alla banalità più mesta se ne perdi il controllo, se ti lasci trasportare dal suo movimento apparentemente infinito e incessante. In altre parole, credo che la demagogia di questa democrazia cibernetica, per non creare danni, richieda maggiori sforzi individuali e di gruppo , affinché si riesca ancora a discriminare ciò che è singolare da ciò che appare uniforme, massificato. Servono idee nuove, in dosi massicce, servono coraggiosi che remino controcorrente, nella speranza che, sempre grazie alla democrazia in questione, tali idee possano fare cultura. Non si può fare retromarcia, è obbligatorio pensare avanti, nonostante la crisi del mercato, nonostante l’onta alla Fotografia. Sono fiducioso nelle risorse seppellite sotto questo mare, fermo restando che la Fotografia non è più la stessa, saranno forse le “foto a cazzo” prodotte con intelligenza a darle un ulteriore e nuovo significato…
vero claudio, la retromarcia non è prevista… ma le foto a cazzo resteranno sempre ciò che sono. il digitale ne ha enormemente aumentato la quantità decretandone il successo. quello divulgativo almeno. la cosa che impressiona è che il mercato sembra inadeguato a capire.
e un po’ per comodità e interesse segue l’onda. verrà certo il momento in cui l’equilibrio, nuovo, si ristabilirà. per il momento mi sembra che la fotografia alla quale penso subisca pesantemente.
L’ho detto che mi ero perso una chicca…
“produrre qualcosa di meno volatile di una scorreggia” é quanto di meglio possa sintetizzare il discorso che avevo iniziato sulla mia pagina fb.
le strane vie…
comunque, l’impressione è che adesso ci sia un gran marasma in cui tutto si confonde, ma gradualmente verrà fuori una separazione tra una memoria visiva collettiva, valida come documento antropologico per i posteri ammesso che il tutto resista al tempo, e una produzione diversa, con premesse e risultati culturalmente significativi.
Ma, pensavo…non è un po’ strano che manchi cultura proprio adesso con tutto questo fiorir di scuole di fotografia?
direi di no laura, non è strano… nascono appassite.
Titolo a parte che trovo un po’ fortino per il resto condivido tutto. Anche io uso una digitale compatta ma il cellulare no, non so perché ma mi itristisce. Le “foto a cazzo” a volte capitano perché c’è solo la smania di scattare ovunque e tutto e certo non ha alcun senso. Le foto che faccio hanno però un solo soggetto e cioè la mia famiglia. E in casa vige il principio inderogabile che non si postano da nessuna parte: restano tra di noi. Sono però curiosa di vederla questa tua collezione!
il principio che vige in famiglia, valeria, mi sembra ottimo!
la collezione… appena ha una forma la vedrai. a tuo rischio e pericolo.
Credo che la fotografia chiamata “a cazzo” sia la partenza di tutti e obbligatoria per tutti. Il fattore importante, la lacuna pesante, è la mancanza di una figura esperta che ci dica come uscirne! L’errore dei big, quello che secondo me rovina il circus, è la mera ricerca di un qualcosa di buono e soprattutto economico, nel mare di foto a cazzo (che comunque si trova). Ma noi “schiaccia tastisti” che colpa ne abbiamo? Ci possiamo e dobbiamo mettere la fame di sapere e di progresso, ma cos’altro?
credo paolo che ci siano colpe condivise. l’impressione, la mia almeno, è che però ci sia una responsabilità maggiore da parte di chi sovrintende… di chi cioè ha il ruolo e fa scelte. e che a volte sembra invece in preda a invaghimenti pseudo estetici o parole d’ordine dettate dal marketing.
forse oltre alla fame e al lauto banchetto d’immagini che ne deriva, c’è il momento della digestione… forse fermarsi e ampliare lo sguardo, riflettere sul senso di ciò che si è fatto… ma questo riguarda tutti, mica solo i tastisti come dici tu.
Credo ne abbiamo pure parlato:
una bella ragazza, una bella luce e una fotocamera che fa tutto da sola.
Su 80 scatti 3 buoni li tiri fuori.
Credo che poi dipenda molto da quello che uno vuole tirare fuori, dal percorso che vuole fare:
stupire gli amici o finire sull’ultimo numero di Vogue, oppure stupire se stesso e dirsi “cazzo!!! mi è venuto qualcosa!”
Sull’appiattimento digitale in generale sono d’accordo.
Tutto uguale…….riviste,mostre. Pochi lavori mi fanno dire “va’ che roba!!!”.
Il succo del discorso è che ci vuole il cervello (o il cranio come dici tu) e lo strumento ha poca importanza.
Quel che voglio fare io è tornare un po’ alla preistoria, lasciar perdere gli 80 scatti in sequenza per tirarne fuori 3, e riprendermi un po’ di meditazione.
Con quali risultati non so…..
lo strumento ha un’importanza semplicemente relativa a ciò che si sta facendo… quindi conoscerlo aiuta molto il risultato. almeno credo chiara.
faresti molto bene a riprenderti un po’ di meditazione! credo che fermarsi un attimo sia utile a tutti. ma proprio tutti.
eh……..mi fermerò si, devo studiare :-))
“La fotografia è l’arte di non schiacciare il bottone” questo è il motto di Frank Horvat. Un fotografo d’altri tempi? Per formazione sicuramente sì! ma anche un grande sperimentatore, un pioniere del digitale, che ancora oggi esplora le possibilità che i nuovi mezzi gli offrono. Personalmente non sono un nostalgico dell’analogico, ma tutto quello che scrive Efrem è vero, è sacrosanto. Dopo anni di dibattito su analogico o digitale, per la prima volta leggo quello che avrei voluto sentire: non si tratta di definizione, grana o megapixel, ma di quello che succede nelle nostre teste, del modo di produrre e fruire le immagini e soprattutto di come tutto questo sia stato lasciato in balia del mercato. Si è passati dallo slogan della kodak “tu schiacci il bottone, noi faremo il resto” a quello che potrebbe essere lo slogan di oggi “tu schiacci il bottone, il resto è già fatto”. Non credo che il problema sia analogico o digitale, ma un problema più ampio, di latitanza della cultura, degli intellettuali, degli editori, degli editor… “art is mute when money talks”
“tu schiacci il bottone, il resto è già fatto” non è male…
comunque col c… che tu riuscirai a fare foto a cazzo! Il fatto è che quando cominciavo a interessarmi di fotografia (ormai qualche anno fa), anche le riviste divulgative pubblicavano foto di Koudelca, Klein, Ghirri, Giacomelli ecc. ecc. ecc. ed era chiaro che il problema non era quale modello di fotocamera: una pentax K1000 col 50 mm era più che sufficiente, il resto dovevi mettercelo tu. Oggi le riviste divulgative parlano solo di nuovi modelli e pubblicano foto di fotoamatori che riescono a fare quello che chiunque più fare con quelle macchine. C’è un appiattimento incredibile, una noia mortale!
quello delle riviste di settore poi apre un capitolo a parte, ma devo ammettere giancarlo che non le seguo se non in casi particolari: certo POPULAR PHOTOGRAPHY era un’altra cosa! che rivista ragazzi!!
la noia… vero. a margine: la pentax k 1000 è stata la mia prima fotocamera e l’adoro.
anch’io non le seguo più, ogni tanto dò una sfogliata quando le devo in edicola e poi le riposo sullo scaffale. condivido la tua adorazione per la k1000: non è stata la mia prima fotocamera, ma sicuramente quella che ho usato più a lungo e continuo a usare i vecchi obiettivi pentax.
Ma quindi noi peones della fotografia cosa dovremmo fare? Smetterla di fare foto? Il digitale è alla portata di tutti in modo che tutti possano avere dei bei ricordi e questo per me è molto bello. Io non ho “frenesie”, infatti scatto una dose giusta di fotografie anche con il cellulare, perché no? Capisco che per chi vive di fotografia forse è diverso però per chi no è molto meglio col digitale. Poi hai ragione sulla qualità e il messaggio che alcune fotografie hanno e altre no ma questo non credo c’entri col “percorso” che uno sceglie. Scusami ma la penso così. Ciao.
non è esattamente il senso che volevo dare alla cosa, diletta… ci sta tutto, e ognuno registri i ricordi che vuole.
ma questo accadeva anche in epoca non digitale: non è che la gente non facesse fotografie! solo che era molto più meditato il tutto: ce l’ho con lo spreco e la pochezza di sentimento che naviga ovunque. in quantità per me insopportabili. e questo è un danno. non è la maggiore accessibilità, ma l’uso che viene fatto.
e nulla in contrario ai souvenir… anzi! perché ti scusi?
scusami tu, ma qual’è la dose giusta?
Ma anche tu ti scusi :)
Non so quale è la dose giusta, però forse quella che non mi fa poi impazzire a scaricarle sul pc. Quelle delle vacanze sono circa un centinaio, sono andata a controllare: sono tante lo so ma sono ricordi che a me piace condividere con alcune persone e che non farei mai vedere a chiunque! E poi non è che scatto di continuo: ho la mia macchinetta vecchia che funziona benissimo ancora, solo che ha poca memoria.
tante??? diletta ri-scusami… ma generalmente è la dose di un paio di serate con gli amici ormai!
comunque meglio così, saranno certamente veri ricordi. roba che resta insomma: w la macchinetta vecchia!
Te l’ho detto che la dose era giusta!
forse il pensiero di efrem va sintetizzato così: noi fotografi della domenica, con tanto di aspirazioni artistiche, sia chiaro, scattando in digitale facciamo millemila foto, tanto una sarà venuta bene.
il problema è questo porta alla banalizzazione del linguaggio, dove anche le riviste vanno a pescare dal fotoamatore, “oh ti pubblico, cosa vuoi di più?” (o qualcosa del genere, quando va bene). In effetti questa “banalizzazione” della fotografia porta al discorso che poche mostre sono fatte da materiale digitale…
senza contare che 10 anni fa le polaroid finivano nel cassetto, oggi tutto sul web ad aumentare il rumore di fondo, senza dire niente di nuovo, anche questo è un aspetto del problema.
Ma io non ho aspirazioni artistiche Stefano. Però la fotografia, quella bella, mi piace guardarla. Le mie sono semplicemente dei ricordi, dei “souvenir” come dice Efrem. Certo che ho usato le Polaroid! Solo che erano molto costose. Per quello che mi serve e che mi piace fare il digitale è perfetto. Poi per chi vuole “emanciparsi” certo che è diverso.
Perdonami Diletta, il mio era sarcarsmo gratuito nei confronti degli amatori, tra l’altro anche un po’ fuori moda, visti i risultati di alcuni… Si la fotografia dovrebbe essere memoria, ma la cosa paradossale è che se da un lato è molto facile da condividere, a mio avviso è anche molto più facile da perdere con il digitale. Penso ad hard disk rotti, account dimenticati e parlo per esperienza, tanto leggera che facilmente vola via… (avevo una macchina fotografica che oggi si chiama bridge e le uniche foto che mi sono rimaste sono quelle che ho stampato, per dire).
Bellissima la parola emanciparsi, in questo contesto, complimenti.
Io le stampo quasi tutte, scarto solo quelle che proprio non mi piacciono. Poi faccio degli albumini e sul pc delle cartellette dedicate. Ma io non faccio tanto, però mi piace sfogliarle. Grazie per i complimenti Stefano! Però mi è venuta così senza pensarci :)
Ciao innanzi tutto,
mancanza di cultura fotografica? secondo me esprime bene la valanga di fotografie a pene di segugio che si vedono in giro. Aggiungi uno smartphone a 100 euro e facebook e il gioco è fatto.
Credo che comunque ci sia una memoria fotografica pesantissima, fatta da tanta porcheria, ma del resto è lo specchio di questa società.
Mi incuriosisco invece sugli editori e le riviste, ma non posso fare altro perchè non conosco l’ambiente.
Invece per le mostre sono più perplesso, i grandi del passato avevano già in vita le loro opere nelle mostre, oggi restano più impresse le mostre di un avedon o di un HCB solo per la maggior comunicazione che le precede, non voglio credere che non ci siano “artisti”, voglio immaginare che non abbiano la giusta pubblicità.
mica solo fotografica stefano! è come dici tu, la questione è più ampia… la fretta a gratis investe tutto.
i redazionali sono sempre meno, e i mag comprano on line. cercando di spendere il meno possibile. anche qui, gratis è molto gradito.
e non è solo un fatto italiano. c’è stato un periodo, e non parlo della preistoria, in cui il rapporto con un cast di fotografi, quelli che facevano la cifra del magazine, era costante. e i risultati erano evidenti. il che non significa che non ci debba essere un ricambio. significa che la selezione non ha più gli stessi parametri.
le mostre… sarà, ma poi quelle più visitate son sempre quelle che hanno qualcosa da dare. e che coincidono con la forte matrice fotografica dettata dall’analogico.
così mi pare. ciao!
“la fretta a gratis” mi fa venire in mente le raccolte punti, viviamo nella cultura dei punti, per ottenere gratis.
non sei l’unico a scrivere che i mag non investono più nei fotografi, ha scritto cose molto simili mr. TT. certo che però messa così sembra molto triste la cosa.
sulle mostre, riflettendoci, hai ragione, ma il fatto che non ci sia cultura porta invetabilmente a questo, mi spiego meglio, vedo pochi giovani fotografi che si mettano a fare foto belle, non solo dal punto di vista tecnico (che son capace pure io con la digitale), ma che comunichino o eprimano qualcosa. Vedo molti lavori particolari fatti da ragazzi dell’est, che però hanno la “fortuna” di utilizzare ancora molto l’analogica.
se tt sta per toni thorimbert posso bene immaginare che sui redazionali dica certe cose da me condivisibili… anche perché quattro chiacchiere ogni tanto si fanno.
e confermo: la cosa è piuttosto triste. le riviste sono tristi!
la convergenza di un certo pubblico, più o meno educato, su alcune mostre credo sia dovuto in realtà al vuoto che si sente. e che a volte inconsciamente ci dirige verso lidi realmente potenti. perché se ne riconosce la cifra e il peso.
i lavori che vedi provenire dall’est europa… mi suggerisci qualcosa che mi farebbe piacere visto che conosco poco?
si TT è toni thorimbert…
per quanto riguarda fotografi dell’est, così su due piedi non mi vengono in mente nomi famosi, sono per lo più giovani che documentano la loro vita, che è diversa dalla nostra. Qui vedo foto di bimbeminchia in bagno con l’iphone, li vedo fotografie analogiche, alcune belle. Ora vado a cercare qualcosa e poi posto.
posta link p.f. non foto stefano…
a parte che era logico che postassi link, non si possono postare foto… LOL
Ovviamente ne ho in mente un paio che non riesco più a trovare, ad ogni modo, nel miei incasinatissimi “preferiti” ho trovato quanto segue:
http://www.lanaslezic.com/
http://www.arsenjev.com/
http://www.lukasdvorak.com/
http://www.varlamov.me/
se mi vengono in mente altri posto…
http://www.giedrojcmichal.com/
http://www.alexandergronsky.com/
http://www.kropilak.com/
http://www.terezavlckova.com/index.php
http://www.vassiliev.fr/index.html
già… vero. come vedi anch’io latito. visti tutti… alcuni davvero interessanti. soprattutto quelli dal sapore naïf.
però qui è un po’ diverso dal discorso che facevo… piacciano o no, qui di a cazzo c’è poco.
bhe era un discorso più legato alle mostre, che alle foto a cazzo. Per quelle basterebbe aprire il mio hard disk esterno, dove conservo gelosamente le mie foto… :)
condivido anche i punti esclamativi!!
!!!!!!!!!!!!!!!!!
Del rullo mi mancano sempre le prime foto, quando lo si carica, fino a 00, i primi scatti ci sono sempre, sempre a cazzo, del pavimento, dell’orizzonte, dei piedi, di qualsiasi cosa ci sia in zona, sovra/sotto esposti. Avevo pensato di raccoglierli e farne una mostra dal titolo: indovina. Regalando fogli e matita a chi avesse bisogno di completare le foto con qualche schizzo. O matite grasse, quelle per scrivere sulle dia, per disegnare sui monitor. Buona giornata intanto.
be’ fabiano, anche quei primi fotrogrammi possono partecipare al festival… anche se la collezione che mi riguarda spero abbia un minimo di senso. più che altro derivato dal fatto che almeno il gesto di puntare e conscio. per il resto credo sia lo stesso.
buona giornata anche a te!
Abbiamo tutto il mondo (occidentale) rivolto all’accumulo di quantità, anzichè alla cura della qualità. La fotografia non fa eccezione. C’è spreco pure in fotografia, sì, tanto basta gettare.
Ne parlavo tempo fa con un amico: il rischio è che la fotografia resti muta.
Concordo: non è un problema di mezzi, ma di crani. E di cuori.
Ciao Efrem.
ciao luisa! il rischio è ulteriore credo… che se ne perdano le tracce. ma tant’è.