Succede molto raramente perché se è di un personaggio che si tratta, in genere fotografo prima o dopo. Ma sempre un altro giorno.
In studio o in location è lo stesso, è comunque di ritratto che parlo.
Le pochissime volte che è capitata una contemporanea fotografia-intervista, mi sono sempre divertito molto.
E siccome in questo caso lo shooting viene prima, essenzialmente per una questione di… tempo? freschezza del soggetto? comunque sia dopo assisto all’intervista. Sempre che la/il giornalista sia d’accordo, perché potrebbe benissimo non esserlo e allora nisba.
Del resto capisco: sul mio set il soggetto è mio, e non gradisco presenze estranee al percorso fotografico. Quindi uguale.
Sta di fatto che né io sono mai stato messo alla porta né ho mai messo alla porta qualcuno.
Sarà che nella circostanza data diventiamo come un sol uomo…
Basta che fotografo e giornalista avvertano con chiarezza che stanno lavorando per un magazine, e che quindi immagini e testo hanno lo stesso peso. E che la riuscita di un redazionale così composto dipende dalla qualità di entrambi i contributi.
Perché a me non piace fare un buon lavoro e trovarmi un testo fiacco. Suppongo valga anche per chi scrive: avere un buon testo e fotografie insipide indebolisce.
Ma ce l’avranno? Lo stesso peso dico…
Il ritratto nei magazine ha avuto fortune alterne.
Oggi non mi sembra essere nel punto più alto della curva.
Giulio Andreotti, 2006. Grazia mag. Intervista di Alessia Ercolini
Quindi assisto all’intervista. E con me tengo una macchinetta.
Prima una compatta analogica, adesso digitale.
Me ne sto seduto in assoluto silenzio, il mio lavoro l’ho già fatto.
Ed è molto interessante ascoltare, anche perché è un ascolto provvisto di gestualità, espressioni, toni vocali.
Come un video. Ma meglio. Perché non c’è nessuno a riprendere e in qualche modo il soggetto è più rilassato… non ha nessuna fotogenia da difendere. Che il video è una brutta bestia.
Sto lì e ogni tanto inquadro.
A volte scatto, a volte no.
A volte one shot. E mi basta. Come per Giulio Andreotti.
A volte faccio una sequenza. In genere della gestualità… quindi le mani diventano il soggetto. Come per Giorgio Rocca.
Giorgio Rocca, 2007. Sport Week mag. Intervista di Raffaele Panizza
Non è grande fotografia, lo so… diciamo un souvenir per me.
Però è un ottimo esercizio: ci sei ma è come se non ci fossi.
Quasi non si deve neanche sentire il suono dell’otturatore… per cui è d’obbligo evitare le pause, quello spazio totalmente muto, dove il click diventa un gong. E si rischia il tilt.
Ecco… sei come carta da parati.
Poi succede, il novembre scorso, che Interni magazine mi chiede se ho voglia di fotografare un’intervista.
Francesca Molteni e Ron Gilad, 2014. INTERNI mag. Intervista di Valentina Croci
Il soggetto è proprio l’intervista… a Ron Gilad, designer, e Francesca Molteni, creatrice di progetti multimediali. Una roba che non avevo mai ponderato.
Ma se le ho fatte per mio diletto, anche se come souvenir, perché mai non dovrei farla per davvero?
E infatti l’ho fatta.
Pensando solo a una sequenza. Leggera.
Credo ci voglia sempre una grande umiltà.
Si impara molto.
Vale per tutti.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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Perche’ dici non e’ grande fotografia ? Perche’ non fa grande rumore ?
E dire che anche una foto al volo così ad Andreotti o a tanti altri, insomma diventa un pezzettino di storia. E sai di averla fatta tu…
Se vuoi facciam cambio :) non sai cosa darei per farla io questo tipo di fotografia
@Cristian – al rumore preferisco il silenzio. quindi no, non è per questo… semplicemente credo che difficilmente una sequenza di una intervista possa uscire dal recinto stretto della documentazione. magari può essere anche gradevole, ma si ferma lì. non confonderei: non basta che il soggetto sia un soggettone perché la fotografia sia automaticamente un pezzo di storia. per restare sul tema, credo che il trittico a andreotti, che è un posato, abbia maggiore potenza espressiva. solo la mia opinione naturalmente
…. io dico che sta riscrivendo la fotografia.
@Massimo – scusami, “sta” è perché mi stai dando del lei? se così fosse credo che potremmo darci tranquillamente del tu, che ne dici?
confermalo p.f. così entro nel merito :)
@Cecilia – quelle alle quali ho assistito hanno tutte degli INEVITABILI omissis.
a volte solo “tecnici”, a volte sostanziosi invece. ma più che altro non riguardano tanto il contenuto in sé, quanto la dinamica dell’intervista… il rapporto, le battute e via dicendo: ci vorrebbe un backstage video/audio.
sì certo cecilia, non è fotografia di ritratto… reportage: la chiamerei reportage. ciao!
Assistere a alcune interviste è un privilegio, penso a Andreotti per esempio: non capita che vengano omessi dei passaggi sulla rivista? E come definisci questa fotografia? Perché non penso sia ritratto. Ciao Efrem e grazie!
@Eugenio – l’analogico è per natura più parco. e incline alla pausa.
nel passaggio da un sistema all’altro si è pagato anche questo scotto
@Efem – E’ un temo utilissimo,mi permette di concentrarmi, di costruire la fotografia che vorrei e di non sprecare. Cerco di spiegarmi: ultimamente sto guardando i provini a contatto di scatti fatti alla fine degli anni ’90, per le fotografie che mi piacciono molto ce ne sono sempre un paio precedenti che io definisco di “avvicinamento”, negli scatti recenti non trovo sempre la stessa filosofia (eppure sono sempre io a scattare) a meno che non mi sia fermato col click per guardare solo dal mirino per qualche tempo. La pausa mi fa pensare e decidere cosa volere e come fare per ottenerlo, a quel punto ho in testa la foto e ne bastano un paio di click.
Sequenza piena di indizi, un grande ambiente vuoto, i due intervistati sullo stesso lato del tavolo, rilassati eppure dinamici, l’intervistatrice di spalle a far capire che i protagonisti sono loro, in una situazione quasi da interrogatorio d’esame…..
Quando guardo un film o una foto, sempre mi chiedo chi riprenda quelle immagini, chi crea il mio sguardo sulla scena, quanto ciò che vedo è frutto del mio sguardo e quanto di quello del regista o del fotografo e quanto contino l’impaginazione dell’immagine, il punto di vista, l’inquadratura, il ritmo. In questo caso la leggerezza, come dici tu, e la velocità che fa intuire il tuo movimento circolare attorno alla scena mi ricordano molto tecniche eminentemente cinematografiche.
@Vilma – per le sequenze, quelle fotografiche, l’impaginazione è un po’ complessa. e quindi se stai scattando per un magazine ne devi tenere conto.
e hai assolutamente ragione: ha a che fare con la cinematografia
Riesci a mettere del pensiero enorme dietro ogni fotografia, quando leggo il tuo blog di solito guardo sempre le foto. Quando dopo leggo il testo si apre un mondo e inizi a ragionare su cose a cui non avevi mai pensato al punto che poi prendi in mano una macchina fotografica e ti capita di stare lì a qualcosa per un pò di tempo senza nemmeno scattare. Ciao
@Eugenio – ma in effetti anch’io parto dalle fotografie. sempre. quasi sempre… che per me sono anche luogo di sintesi.
molto bene! che resti un po’ di tempo senza scattare. dovremmo riuscire a dare connotazione e valore a questo tempo. a te è utile?
Molto interessante. Sei un vero snob. Lo dico con vera simpatia. Ciao Efrem
@Fra Ri – bé… boh!