La mia famiglia – Artribune

Sabato scorso sono tornato a Parma.
Per due motivi: mi faceva piacere ritrovare La mia famiglia appesa ai muri di BDC28 – sino a domani visibile a tutti.

E per incontrare Valeria Carnevali, autrice dell’articolo di Artribune.
Prima s’è vista la mostra da sola; poi abbiamo fatto un veloce tour insieme;
poi abbiamo chiacchierato.

Poi è scappata, catalogo in mano, verso un treno che rischiava di perdere.
Se l’avesse perso non mi sarebbe dispiaciuto: un bell’incontro davvero.
E perciò la ringrazio.

Artribune link

Nell’ora precedente ho chiacchierato invece con Giorgia Lanciotti, autrice dell’intervista a ParmAteneo con il contributo video di Fabio Manis, Lara Boreri, Tommaso Fonnesu.
Tutti collaboratori – nonché studenti – di questo settimanale degli studenti dell’università di Parma.
Ed è stato bello confrontarsi con loro… così giovani e splendidamente aperti.

ParmAteneo link

Per me è stato molto interessante questo doppio confronto…
E se posso dire, è bene non dare mai nulla per scontato.
Mai.

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L’attimo – interview

ME VS. PHOTOGRAPHY - interview

 

 

L’attimo. Tutto qui.
Quando Elisa Contessotto – alias ME VS. PHOTOGRAPHY – mi ha chiesto un’intervista, mica lo sapevo.
Credevo si risolvesse in una morbida chiacchierata…
Invece no. Una chiacchierata per pochi…
Un solo concetto. Tosto.
Questo:
http://mevsphotography.com/interviste/chat-efrem-raimondi-attimo-in-fotografia.php

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A parte

Succede molto raramente perché se è di un personaggio che si tratta, in genere fotografo prima o dopo. Ma sempre un altro giorno.
In studio o in location è lo stesso, è comunque di ritratto che parlo.
Le pochissime volte che è capitata una contemporanea fotografia-intervista, mi sono sempre divertito molto.
E siccome in questo caso lo shooting viene prima, essenzialmente per una questione di… tempo? freschezza del soggetto? comunque sia dopo assisto all’intervista. Sempre che la/il giornalista sia d’accordo, perché potrebbe benissimo non esserlo e allora nisba.
Del resto capisco: sul mio set il soggetto è mio, e non gradisco presenze estranee al percorso fotografico. Quindi uguale.
Sta di fatto che né io sono mai stato messo alla porta né ho mai messo alla porta qualcuno.
Sarà che nella circostanza data diventiamo come un sol uomo…
Basta che fotografo e giornalista avvertano con chiarezza che stanno lavorando per un magazine, e che quindi immagini e testo hanno lo stesso peso. E che la riuscita di un redazionale così composto dipende dalla qualità di entrambi i contributi.
Perché a me non piace fare un buon lavoro e trovarmi un testo fiacco. Suppongo valga anche per chi scrive: avere un buon testo e fotografie insipide indebolisce.
Ma ce l’avranno? Lo stesso peso dico…
Il ritratto nei magazine ha avuto fortune alterne.
Oggi non mi sembra essere nel punto più alto della curva.

GIULIO ANDREOTTI by Efrem Raimondi

Giulio Andreotti, 2006. Grazia mag. Intervista di Alessia Ercolini

Quindi assisto all’intervista. E con me tengo una macchinetta.
Prima una compatta analogica, adesso digitale.
Me ne sto seduto in assoluto silenzio, il mio lavoro l’ho già fatto.
Ed è molto interessante ascoltare, anche perché è un ascolto provvisto di gestualità, espressioni, toni vocali.
Come un video. Ma meglio. Perché non c’è nessuno a riprendere e in qualche modo il soggetto è più rilassato… non ha nessuna fotogenia da difendere. Che il video è una brutta bestia.
Sto lì e ogni tanto inquadro.
A volte scatto, a volte no.
A volte one shot. E mi basta. Come per Giulio Andreotti.
A volte faccio una sequenza. In genere della gestualità… quindi le mani diventano il soggetto. Come per Giorgio Rocca.

GIORGIO ROCCA by Efrem Raimondi

Giorgio Rocca, 2007. Sport Week mag. Intervista di Raffaele Panizza

Non è grande fotografia, lo so… diciamo un souvenir per me.
Però è un ottimo esercizio: ci sei ma è come se non ci fossi.
Quasi non si deve neanche sentire il suono dell’otturatore… per cui è d’obbligo evitare le pause, quello spazio totalmente muto, dove il click diventa un gong. E si rischia il tilt.
Ecco… sei come carta da parati.
Poi succede, il novembre scorso, che Interni magazine mi chiede se ho voglia di fotografare un’intervista.

Francesca Molteni, Ron Gilad - by Efrem Raimondi

Francesca Molteni e Ron Gilad, 2014. INTERNI mag. Intervista di Valentina Croci

Il soggetto è proprio l’intervista… a Ron Gilad, designer, e Francesca Molteni, creatrice di progetti multimediali. Una roba che non avevo mai ponderato.
Ma se le ho fatte per mio diletto, anche se come souvenir, perché mai non dovrei farla per davvero?
E infatti l’ho fatta.
Pensando solo a una sequenza. Leggera.
Credo ci voglia sempre una grande umiltà.
Si impara molto.
Vale per tutti.

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ISOZERO update

ISOZERO by Efrem Raimondi

 

Un aggiornamento doveroso: da più parti mi giunge eco del fatto che non si riesce a trovare ISOZERO…
C’è chi mi ha scritto che non l’ha trovato neanche alla Milano Libri…
Ammetto che la cosa mi fa piacere, perché è una testimonianza di affetto.
E di fiducia.
Purtroppo malriposta nello specifico, perché ISOZERO è sì la rivista che vorrei, ma al momento non esiste.
Mi sembrava che sul finale Claude Fisher – non esiste neanche lui, almeno nei panni del mio intervistatore – lo dicesse chiaramente:

Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia.

Le cose stanno così. Mi scuso per l’equivoco.
E ho una vera, sincera simpatia per chi l’ha materialmente cercata.
Ciò non di meno, è la rivista che vorrei. E che, almeno a me, manca.

Dopo La fotografia non esiste… non esiste neanche ISOZERO.

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ISOZERO – Interview

Efrem Raimondi - ISOZERO MAGAZINE

Los Angeles, August 2014.

Claude Fisher – ISOZERO: Buongiorno Efrem, prima cosa, grazie di essere qui: come stai?
E.R: Meravigliosamente! Non ci penso.
Ottimo, ma ci riesci?
Con un po’ di esercizio sì. Non pensare sta diventando la mia condizione abituale…
Cos’è, una battuta? Non si direbbe guardando il tuo lavoro.
Ti confesso che è soprattutto al mio lavoro, al fotografare, che non penso. E comunque più in generale, non penso.
Perché se dovessi pensare non fotograferei più. Non è più tempo.
Farei altro… chessò, il rivoluzionario o comunque un lavoro socialmente utile. Invece non pensare mi consente di fotografare.
Che per me è ancora il miglior escamotage per evitare il peggio.

A Los Angeles siamo diretti: vuoi un caffè?
Se poi posso fumare, sì volentieri…
Sono spiacente ma questo non è possibile… mi spiace davvero molto.
Allora sì, lo prendo. Sai com’è, a Milano siamo indiretti…
Molto bene: latte, zucchero?
Assolutamente niente, grazie.
Dieta? – ride.
Ti sembro ciccione? No… anzi, voglio morire grasso. Semplicemente il caffè mi piace liscio. Lo zucchero lo aggiungo se mi fa schifo… Mi piace l’incipit di questa intervista. Dico davvero. Isozero è una rivista che amo proprio per la sua autenticità: che tu mi confermi.

Ok, veniamo alla prima domanda: ti sei definito più volte un outsider e qui in U.S.A. è un genere molto apprezzato. Ci dici qualcosa a riguardo? Perché saresti un outsider?
Perché non ho fatto alcuna scuola, non ho fatto l’assistente… non ho mai fatto niente. Niente che in qualche modo avrebbe potuto aiutarmi a crescere dandomi degli strumenti concreti. Che sono invece importanti e fanno risparmiare un sacco di tempo. Oltre al fatto che ti permettono di conoscere un po’ di persone… e sai com’è, le conoscenze aiutano. Io invece no.
E quindi cos’hai fatto? Quando hai deciso di fare fotografia e diventare fotografo?
In un certo modo fotografi si nasce… a quattro anni sfogliavo Popular Photography, alla quale mio padre era abbonato. A sei, sette anni mi capitava di accompagnarlo per circoli fotografici e per mostre… sono stato più volte con lui al Jamaica, nel cuore di Brera, quartiere artistico per eccellenza di Milano, dove incontravi Ugo Mulas, Bruno Cassinari, Piero Manzoni, Alfa Castaldi… un locale che era stato abitualmente frequentato da gente come Ungaretti… che nei ’70 era quasi dimora per Allen Ginsberg… E c’erano un sacco di operai, perché quello era un quartiere operaio: chi cazzo ci va adesso al Jamaica?!

Che sigarette fumi?
Lucky Strike…
Me ne offri una?
Con vero piacere! Lo sai che il fumo fa male?
A Los Angeles? Ma non mi chiedi come mai ne chiedo una?
Nnno… non mi piace mettere in imbarazzo le persone. Tu me l’hai chiesta, io te la do. Ma nessuno dice nulla se fumiamo qui dentro?
Ma qui si fuma abitualmente – ride. Si va sul tetto, almeno in due: non è consigliato andarci da soli… l’ascensore può riservare una compagnia non molto attraente – ride. Però ci sono le eccezioni. Anche a Los Angeles, cosa credi? In questo ufficio ogni tanto succede. Ti chiederai come mai prima ho detto che non era possibile…
No. In ogni caso anche outsider si nasce. Tra la fine dell’80 e l’inizio dell’81 feci due reportage. Ero un ragazzo con una voce fuori dal coro, ma non fu un fatto volontario: ero realmente così. Eppure quei due lavori mi convinsero che la fotografia sarebbe stata la mia vita. Cominciai a bussare a tutte le redazioni che ritenevo interessanti. E ce n’erano parecchie… la fotografia italiana ha radici nell’ambiente amatoriale degli anni ’50 e ’60… un luogo davvero ricco di talenti autentici. Alcuni si sono imposti altri no. Ma comunque il confronto era con una fotografia di alto livello espressivo. E le riviste intercettavano questo talento dandogli degli argini certi. Evitando dispersione…
Adesso per favore chiedimi cos’è il talento…

LOS ANGELES by Efrem Raimondi

Scusami, quali magazine?
Diversi e ognuno con l’intenzione dichiarata di mettere al centro la fotografia. Ne cito due per tutti e che mi riguardano direttamente: PM e INTERNI… il primo fortemente italiano, di attualità, il secondo con un taglio inevitabilmente internazionale visto che è di design che si occupava, e si occupa dato che per fortuna c’è ancora.
Ma lo sai che è capitato di ricevere lettere – mica c’era Internet – in redazione a Interni?
A seguito di un redazionale o di un numero particolarmente denso. Anche da qui, dagli U.S.A.

Quindi parlo non di magazine che si occupavano di fotografia, ma di quelli che la fotografia la producevano davvero. Pensa a Lotus, la conosci?
Ce ne ha parlato Francesca Solincielo, il nostro occhio italiano in redazione…
C’è ancora, con una formula editoriale diversa. Be’, ci pubblicavano regolarmente Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella…
li conosci?
Conosco Luigi Ghirri e Gabriele Basilico… Conosco Giacomelli e Ugo Mulas. E conosco anche il lavoro di Giuseppe Cavalli. Francesca dice che in Italia non è molto conosciuto: mi sembra impossibile.
Giuseppe Cavalli? Tu conosci Giuseppe Cavalli? Un grandissimo!
Ma Francesca ha ragione: a parte alcuni addetti ai lavori e i critici di professione, è semisconosciuto.
Scusami, tu quanti anni hai?
Trentaquattro…
Bene, ognuno ha l’età che si merita. Io ne ho tremiladuecento, circa, e non ho un presente.
Siamo un popolo senza presente noi italiani, per questo usiamo quello degli altri.
Chi ci conosce? A parte i nomi che hai fatto, chi ci conosce?
E anche qui ci sono delle responsabilità, anche di noi fotografi. E del concetto di mamma che abbiamo. Perché in Italia la mamma è un concetto.
La propria. Quella degli altri a volte è solo troia. E anche questo è un concetto.
Guarda, quanto a concettuale non c’è popolo al mondo che ci batta…
Voi e quella invenzione paracula che avete chiamato Pop Art…
Comunque… io ero un pischello che spingeva, ma ciò che guardavo, il mio parametro era di questo livello: quei fotografi lì, quelle riviste lì, quelle mostre lì. E un là, quello che arrivava oltre confine ma non si viveva come un prodotto di importazione. Non era cioè qualcosa di estraneo e inoculante: se ne percepiva chiaramente il background, la specificità locale. E questo garantiva dialettica e confronto: stimoli! crescita!
Vuoi mettere la pappetta preconfezionata con tanto di visto internazionale? Quella roba che parla un linguaggio passepartout che non ha un microbo. E senza microbi, muori.

Non credi ci sia un linguaggio internazionale?
C’è una convenzione espressiva internazionale ridotta ai minimi termini, per un mercato del pensiero unico e globalizzato. Non è un linguaggio, è un paralinguaggio, è un business. E il metronomo lo caricate voi.
Noi, tutti noi resto del mondo, balliamo al ritmo della vostra musica. Noi ci ingoiamo Miley Cyrus e Terry Richardson. E al massimo produciamo epigoni. Proprio perché non usiamo più il linguaggio. Che è un elemento distintivo che garantisce la dialettica, lo scambio… se tutti parlassimo nello stesso modo non ci sarebbe più espressione.
Mi chiedi cos’è il talento, per favore?
Capisco. Siamo degli imperialisti schifosi… è questo che dici, no?
Io credo che la fotografia sia in grado di superare molte barriere linguistiche e in questo è un grande strumento di comunicazione immediata. Diretta e veramente trasversale… come si dice? Una fotografia vale più di mille parole!
Dipende quale fotografia e quali parole. Non mi piacciono le generalizzazioni, producono il conformismo al quale aggrapparsi per insultare qualsiasi divergenza. Mentre è proprio nella divergenza, è nella contraddizione che risiede l’origine del linguaggio.
Non dico che siete degli imperialisti schifosi… dico che avete industrializzato un metodo di esportazione culturale che non prevede emersione del contraddittorio. Del resto se no come avreste fatto a competere col sistema dell’arte che vi ha preceduto? La Pop Art è stato il vostro Cavallo di Troia. Un cavallo chiassoso, con finimenti e bardature spaccone degne di un circo. Avete appeso il silenzio hopperiano nei vostri musei dopo averlo celebrato il minimo per potercelo mettere su quelle pareti, e siete partiti col carrarmato Warhol.
Mi chiedo come facciano taluni tanti, a sostenere che Edward Hopper sia stato il precursore della Pop Art… lui, che diceva robe tipo “Non dipingo quello che vedo ma quello che provo”.
Semmai è stato il precursore di tanta fotografia e cinema. E non mi riferisco all’operazione di Richard Tuschman, della quale francamente non capisco la necessità.

Interessante, quindi outsider
Hai detto che qui l’outsider è molto apprezzato… e certamente è stato così. Non so adesso… 
Se proprio devo dirla tutta, outsider definisce anche una posizione culturale. Quella che aspira al superamento del trend e delle certezze pontificate. Francamente è la condizione che consiglierei a un giovane fotografo: chiudere gli occhi e estraniarsi da questo insopportabile rumore digitale che ammorba l’aria… Ezechiele 25:17

Pulp Fiction!
Esatto. Lo citano tutti, lo faccio anch’io.
Rumore… digitale versus analogico? I fotografi della tua generazione, quelli che abbiamo incontrato, hanno opinioni discordanti a riguardo: tu che ne pensi?
Bene… chi usa astrazioni a riguardo fa solo demagogia.
Per garantirsi un po’ di luce mediatica. Una marea di gente a diverso titolo si esprime su questo falso dualismo. Mistificante direi. I più violenti, in genere, sono i digitalisti. Perché sanno perfettamente che se per uno scherzo diabolico il digitale sparisse così, d’emblée, non sarebbero in grado di fare più un cazzo. A me non frega niente della diatriba, a me interessa solo il risultato, cioè la fotografia che ho di fronte. E giusto per chiarire, uso il digitale ormai nella stragrande maggioranza dei casi. Perché è comodo e io sono pigro.
Però è stato come Hiroshima. Per cui si abbia la cortesia di non chiedermi di amarlo. Lo uso e stop.

Mi sembra che tu esprima un certo disprezzo. E con la postproduzione che rapporto hai?
Non disprezzo. Il digitale è ineludibile. E non si può essere rancorosi nei confronti degli strumenti che usi. Annoto solo che della pellicola mi manca il volume. E quella leggera scia sporca che i cristalli di alogenuro d’argento custodivano gelosamente. Quei cristalli se trattati con affetto partecipavano alla tua cifra espressiva. C’è più personalità in una pellicola. Tutto qui.
In parte la poca postproduzione che faccio mi serve per recuperare un po’ di quella  personalità. Voglio però dire una cosa molto chiara: la postproduzione c’è sempre stata. Non è patrimonio esclusivo del digitale.
Dalla manipolazione dello sviluppo della pellicola a quella della stampa: il computer ha solo sostituito la camera oscura.
La questione semmai è quale postproduzione.

Quale postproduzione?
Quella che non espone al ridicolo, al comico a volte.
Quella che ha un motivo preciso e non è volgarmente protagonista.
Quella che non si droga di perfezione, e che non perde mai di vista l’insieme: ogni fotografia non è la somma di particolari perfetti.
Ma un unicum da prendere in blocco. Il suo equilibrio riguarda la dialettica degli elementi che la compongono. Un equilibrio che puoi spingere fino alla precarietà assoluta. Fino all’estremo. Fin lì e basta. Poi precipita tutto in un attimo. E non c’è nulla che possa salvarti.
Ci troviamo di fronte a una vera e propria emorragia di cattivo gusto. Dove la singola fotografia altro non è che il supporto geometrico per degli esercizietti più o meno audaci.
Questione seria questa qua. Al punto che nella maggior parte dei casi potremmo saltare la voce “fotografia” e passare direttamente alla voce “postproduzione”… che ce ne facciamo della fotografia?
E le fotografie diventano solo il media per una visione postprodotta talmente alterata da essere trash. Gran fumettoni e via andare.
Visione alterata… cioè tu insisti per un una visione comunque legata alla realtà? Il mondo però cambia e ogni epoca ha il proprio modo di rappresentarsi… si inventano nuovi linguaggi e mai come oggi il legame con la tecnologia produce espressione e in certi casi addirittura la determina. Non penso che ancorarsi al passato sia una soluzione. E anche il gusto, scusami, cambia.
Non è questione di passato e di presente…
C’è una fotografia transitoria legata al costume e questa non solo c’è sempre stata ma mi interessa in quanto rappresentazione di un’epoca. O per dirla alla contemporanea, legata a un periodo.
Che è però sempre più breve perché determinato dalla necessità del consumo, tanto e speedy. I cui tempi non prevedono più neanche lo stomaco: ingoi e caghi. Peccato, perché ti fotti il sorriso.
A me una fotografia da fast food non interessa.
Ritengo che il linguaggio, qualunque sia, debba essere alto.
O comunque tentarci.
E solo le avanguardie sono in grado di esprimerlo compiutamente.
Perché solo le avanguardie sanno manipolare le nuove tecnologie, sanno davvero usarle senza essere usate. Da questo dipende il cambiamento che davvero mi auspico con tutto il cuore. E il po’ di cervello che mi resta.

Ritieni di essere un’avanguardia?
Ma figurati! Io non ritengo niente per ciò che mi riguarda, io mi limito a respirare e a guardarmi attorno.
E se anche il respirare è un fatto automatico, a volte sarebbe bene romperne il ritmo e inspirare profondamente. Questo è l’unico momento in cui si ha coscienza di cosa sia il respiro.
Questa è l’urgenza della fotografia adesso: fermarsi e inspirare.
Perché quello che sta vivendo è un’apnea.
C’è… è viva. Oltre le macerie di fotografie, c’è una fotografia che riflette… ci sono giovani che hanno molto chiaro come organizzare il proprio talento. Anche loro in apnea, ma hanno preso il boccaglio: la condivisione. E i collettivi possono davvero essere il luogo ideale per un’avanguardia. L’epoca di Lancillotto e Mandrake è finita. Io non ci credevo nemmeno prima, figurati!
Una fotografia collettiva?
Sì. Una fotografia che esprima con assoluta chiarezza da che parte sta ogni volta che si espone: propositiva o mediatica? Contraddittoria o accondiscendente?
Perché sono due sponde diverse.
Ciò che vediamo a livello social, di iconografico intendo, non è condivisione ma solo accumulo di fotografie. Lì, sparse come i coriandoli, che galleggiano per aria per pochi secondi e appena dopo precipitano a terra. Soprattutto oggi, noi tutti avremmo bisogno di bombardieri, altro che democrazia digitale!

La copertina di questo numero di Isozero l’abbiamo scelta insieme…
Era in lizza col ritratto di Philippe Starck, altro bianco e nero, ma molto ben impacchettato: l’ago della bilancia è dipeso da te alla fine, perché questa scelta?
In fondo non sono così estranee… sempre di pacco si parla – risata.
La mutanda è una Polaroid del ’93, ero ancora nel bel mezzo del rigore da banco ottico, nel mio caso comunque un po’ sporco… e la Polaroid era il modo per evadere da una certa staticità ineludibile.
Ho sempre amato gli estremi, e rimbalzare dal banco alla sx-70 era per me come passare da una marina all’Everest, il tutto in un attimo, il tempo di allungare la mano e prendere lo strumento meno mediato possibile rispetto al precedente. In fondo era come accorgersi, nello scarto, del respiro di cui si diceva prima.
Questo rimbalzo è stato ed è tuttora fonte di ossigenazione per il mio cranio: non è vero che lo strumento è indifferente, perché ognuno ha delle specificità proprie. La differenza la fa la tua capacità di relazione, e più è dialettica, meno subisci i limiti e più diventi la fotografia che fai.
Questa immagine fa parte della serie Appunti per un viaggio che non ricordo, un lavoro in progress sul tema dell’allucinazione e della percezione. Un lavoro sul dubbio e l’incertezza. Rigorosamente in formato quadrato. Credevo fosse finito con il decesso Polaroid.
Poi sono arrivati Instagram e lo smartphone. Forse posso riprenderlo.
Forse…
Ma scusa, è stata ripresa la produzione: Impossible Project, che rappresenta la continuità Polaroid…
Provata. Quando mi avviseranno che è cambiata la riprovo.
Al momento non ho echi. Mi dicono che però sono ecologiche.
E chi se ne frega.
Te ne freghi dell’ecologia?
Proprio per niente! Solo non può essere usata come un alibi.
Che poi, visto il costo di ogni confezione, rigorosamente da otto, e visto il consumo ben più che doppio dato che vai per approssimazione empirica e comunque non è detto, mi spieghi cosa c’è di realmente ecologico?
Non ho nessun preconcetto nei confronti di Impossible Project, e infatti resto in fiduciosa attesa. Nel frattempo sono anche più ecologico e uso l’iPhone, se questo è il parametro.
Torniamo alla mutanda: cos’è realmente?
È una Cagi. Le mutande che portavo allora. Le adoravo… tutto era a suo agio.
Ne sono lieto, ma a parte questo dettaglio che eviterei di approfondire, è la metafora di cosa? E torniamo quindi alla domanda: perché questa scelta?
Comincio a pensare che la motivazione, tua e mia, non coincida…
Dico la mia: non è la metafora di niente ma solo le mie mutande appese. Una mutanda che incorna, con quelle due mollette messe lì. Questa è l’unica concessione che posso fare. Potrebbero essere di chiunque e sarebbe comunque un fatto intimo. Credo che l’esposizione delle mutande sia più osé di un nudo quanto a svelare intimità. Il fatto che siano le mie rende l’immagine più intima. Ma la fotografia in sé non denuncia la proprietà dell’oggetto.
Per comunicarlo dovrei scrivere una nota, o intitolarla Le mie mutande. C’è del feticismo in ciò? Non lo so. Può anche darsi, ma saperlo e capirne le ragioni non mi riguarda.
All’occorrenza posso anche argomentare la fotografia che faccio, ma non le fotografie. Che non hanno bisogno di me. E anzi è meglio che mi stiano più alla larga possibile per la salute di entrambi. Creandole, ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità per renderle autonome. Il mio compito si esaurisce lì. I commenti e le spiegazioni… i messaggi ecc appartengono agli altri. Io non ho messaggi e tutto si esaurisce con un mi piace o no.
Visto che è qui, in bella cover, mi piace. E a te?
Certo che mi piace, diversamente non sarebbe appunto in bella cover. Ma aggiungo: è una fotografia tremula nella manifestazione ma forte nel segno, punk direi. E integralmente Polaroid.
Appesa. A cosa? Non il filo, che è davvero solo lo strumento percepibile, quanto quel poco di vuoto apparente che la circonda. Questa è la domanda. E poi…
Il bello di una fotografia, è che ognuno può vederci quello che vuole. Non ci sono risposte univoche. Alcune possono essere condivise, ma la coincidenza è impossibile. E si aprono porte inaspettate. Ma tutto questo non è affare che riguarda l’autore. Non lo può riguardare perché le singole fotografie sono solo lo strumento per l’affermazione di una propria idea di fotografia. E di questo, se ne può parlare. Mi è certamente più congeniale. Perché uso un’astrazione. Quello che condivido, l’unica cosa di ciò che dici, è che la domanda è più importante della risposta. Anche perché io non do risposte. Pongo solo domande.
Nel 1990 feci una personale nella più importante galleria fotografica italiana, e una delle più importanti d’Europa, Il Diaframma.
Si intitolava Ritratti. Ed era un lavoro col quale sostenevo la tesi dell’autoritratto, il self portait applicato a qualsiasi soggetto stessi ritraendo. Non sto a tediare… In più avevo scritto quattro righe intorno al tema della specializzazione in fotografia, che trovavo un fatto puramente utile per una collocazione, sia commerciale che critica, ma assolutamente inutile e anzi dannosa per il fotografo, quello che almeno intende davvero usare la fotografia come linguaggio: nulla è più deputato di altri a diventare soggetto.
Il soggetto è solo il pretesto per raccontare liberamente di sé.
A me sembrava ovvio, invece venni anche contestato per queste affermazioni.
Quasi immaginando certe reazioni, esposi anche un mio autoritratto in mutande, calzoni calati. Che adesso ti faccio vedere.

Efrem Raimondi, self portrait, 1990

C’era anche una didascalia, ed era l’unica fotografia esposta ad averla: Titolare dal 1963. O ’64, non ricordo cosa diavolo avevo scritto.
E faceva il verso a una campagna dell’American Express.
Solo che io mi sentivo titolare solo delle mie Cagi.
Come vedi, evidentemente certe immagini, solo alcune, hanno poi una maturazione. Questo per me è il senso di questa Polaroid: l’evoluzione sul tema delle mie mutande. Stop.
Questa è un’immagine che hai realmente esposto in una personale?
Sure! Te la faccio io una domanda… cos’è Isozero? La seguo da un paio di anni. Non saprei dirti neanche se c’è un motivo preciso. So che la compro con grande piacere.
Dove la trovi in Italia?
Non so dirti altrove, ma a Milano la trovo da Milano Libri, che è un po’ un luogo di culto e di souvenir giovanili per me… ho cominciato a frequentarla che avevo i pantaloni corti e una Pentax K1000…
E lì c’è un banco con una serie di riviste internazionali esposte.
La trovo lì.
La prossima volta che vengo a Milano mi porti.
Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia. Anzi dico meglio: che si occupa di linguaggio. Una rivista trasversale senza pudore che nasce per essere cartacea. La versione Web è solo di lancio, pillole gratuite del numero in uscita.
Noi amiamo la carta. E la crisi dell’editoria non ci riguarda. E poi…
Ti dico una cosa, scusa l’interruzione: se avessi soldi veri, o un editore complice, investirei sul cartaceo. Proprio adesso che ‘sto mondo annaspa. Tutti a dire e ridire ma non conosco un solo fotografo, un solo artista, un solo critico, una sola galleria, che non ami la carta.
Ma sai, per noi il feedback è positivo. Ma siamo in una nicchia.
Io amo le nicchie. Non credo ci sia, oggi, altro luogo per esprimersi compiutamente.
Vero. O almeno noi ci crediamo visto che è in questo ambito che ci muoviamo. Ma è complesso e i problemi aumentano proporzionalmente col passare del tempo. A volte da un numero all’altro. E noi siamo un trimestrale, con l’ambizione di diventare bimestrale. Ma finché c’è carta e stampa, c’è speranza. E noi tiriamo avanti. Molto coerentemente  con l’idea, la filosofia direi, che ci riguarda sin dal numero zero: noi non informiamo, non esprimiamo opinioni… noi esprimiamo giudizi. Prendiamo posizione. Diciamo e pubblichiamo ciò che ci riguarda… e ciò che vedi quando compri l’ultimo numero alla Milano Libri, coincide con ciò che siamo.
A volte sembriamo contraddittori, e forse lo siamo anche. Ma siamo vivi e ci disinteressiamo del marketing strategico: non inseguiamo bisogni che non conosciamo per piazzare un medium a due dollari.
Noi siamo soltanto noi. E ci siamo accorti che ci sono altri noi.
Questo è Isozero. Un trimestrale inesistente che costa 15 dollari.

Chiarissimo. Netto direi.
Te lo chiedo in ginocchio, mi chiedi cos’è il talento?
Ma hai bisogno che te lo chieda?
Grazie per la domanda Claude. Claude… come mai un nome francese?

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Continua…

P.S.   Questa rivista è mia. Guai a chi me la tocca.
This magazine is mine. Hands off, please.

UPDATE DEL 22 OTTOBRE

Un aggiornamento doveroso: da più parti mi giunge eco del fatto che non si riesce a trovare ISOZERO…
C’è chi mi ha scritto che non l’ha trovato neanche alla Milano Libri…
Ammetto che la cosa mi fa piacere, perché è una testimonianza di affetto.
E di fiducia.
Purtroppo malriposta nello specifico, perché ISOZERO è sì la rivista che vorrei, ma al momento non esiste.
Mi sembrava che sul finale Claude Fisher – non esiste neanche lui, almeno nei panni del mio intervistatore – lo dicesse chiaramente:

Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia.

Le cose stanno così. Mi scuso per l’equivoco.
E ho una vera, sincera simpatia per chi l’ha materialmente cercata.
Ciò non di meno, è la rivista che vorrei. E che, almeno a me, manca.

Dopo La fotografia non esiste… non esiste neanche ISOZERO.

UPDATE 26 FEBBRAIO 2020
In realtà un ISOZERO è nato: il mio laboratorio di fotografia, ISOZERO Lab.
Un percorso didattico che è proprio altro. Un po’ allineato con l’intervista. Ciao!

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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