Ozzy

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Questo è un reportage per la rivista Interni, novembre 2009.
Questo non è un reportage colto, di quelli disperati, perciò non è riconosciuto da certe agenzie e loro adepti sapientemente sparsi sul territorio editoriale nostrano: se è lì che si vuole andare, questa è carta da parati indegna persino per il tinello. Evitare quindi.
Realizzato in occasione del Salone Internazionale del Mobile, dentro le mura della Fiera di Milano/Rho: uno spazio pazzesco per dimensioni.  Per questo sono stato accompagnato da Ozzy. Due i motivi per pubblicarlo qui… il mio affetto per la rivista con la quale collaboro dal 1985 (una delle rare internazionali, fondata nel 1954, che questo paese edita) e che ancora mi ospita (a breve galleria di ritratti a designers), e poi perché rende esattamente l’idea di cosa serve per realizzare un reportage: niente!
Se sei già lì, ovunque lì, cosa ti serve di più?
Ozzy è il pensiero forte, tosto direi, in un’armatura di peluche, cioè debole.
Ozzy è un solitario che ha fiuto. Il suo è uno sguardo poco incline ai cliché, e infatti lo rivolge dove gli pare. Dove la curiosità lo porta.
Consapevole delle sproporzioni, semplicemente se ne sbatte e vaga.
Non ha meta…non ci sono mete. Nè vette da conquistare: conta solo la consapevolezza e l’ego. Defilato o al centro, l’è istess. Senza passaporto né biglietto da visita, va ovunque gli pare. Né deve giustificare un bel niente: in lungo e in largo, su e giù…tutto concentrato a soddisfare la propria curiosità.
Col culo rasoterra e lo sguardo levato a altezze irraggiungibili.
Libero. Libero di raccontare.

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Credit: redattrice Nadia Lionello.
Ozzy è prodotto da Trudi.

Fotocamera: Ricoh GX 100.

L’idiozia della fotogenia! 2012

 Piano Americano - DUE © Efrem Raimondi. All Rights ReservedPiano Americano – DUE, ottobre 2002

Bigino da combattimento sulle convenzioni del ritratto.

Mi piace ripetermelo: raramente una bella immagine è l’immagine di qualcosa di bello.
Dico ripetermelo perchè tanto poi a esserne fautori non si è mica così tanti: in una assemblea di addetti ai lavori, magari dal tono annoiato che non guasta, tutti pronti a levare la mano… ma poi, non appena ci si distrae dal trend (quella cosa che si insegue come un aperitivo o una inaugurazione… lo stesso) ecco le levate di scudi.
Finché si parla d’altro va bene, ormai tutto è stato digerito e vomitato. Ma col ritratto no. Soprattutto col proprio, che se non è edulcorato a puntino non lo si riconosce.
E  lo si rispedisce al mittente.
Il problema della riconoscibilità diventa un fatto di dignità, di passaporto per l’immagine: è il problema della memoria, della relazione tra noi e il ricordo di noi stessi.
Il ricordo di noi stessi… un’icona inviolabile e inalterabile. Una roba simile al look.
Primo punto sostanziale: chi se ne frega.
Non ritraggo con la demagogica presunzione di restituire una memoria che non mi appartiene: io racconto la mia storia.
E la memoria è la mia.
Con tutto il resto funziona: col paesaggio urbano e non, con la moda e lo still-life, persino col food, il formaggio svizzero e le famiglie dissestate inglesi. Con le tentazioni pedofile.
Col reporatage, quello colto e un po’ saccente, tanto incline alla lacrima e alla miseria.
Si è disposti a tutto col resto, a ubriacarsi d’immagine e stracciarsi entusiasti le vesti e far finta che va tutto bene e che ci piace la minestra.
A comando ci ficchiamo in code chilometriche per la visione de La Dama con l’ermellino, quella leonardiana o di chiunque altro. Ce ne stiamo umili in saio pronti alla rivelazione del ritratto. Sicuri che così sarà.
Secondo punto sostanziale: così non è.
Il ritratto rivela solo all’autore, che è l’unico a goderne nell’essenza.
Le popolazioni che temevano il furto dell’anima operato dalla fotografia avevano parzialmente ragione: l’anima resta dov’è, nella stessa sede, solo che è quella di un altro.
Ma non si tratta di una deriva inconsapevole: è una scelta imprescindibile per chiunque usi un linguaggio, a discapito anche delle convenzioni grammaticali e dei riti sociali.
Per questo la fotogenia è un’idiozia, un concetto vuoto, perché ha a che fare con la gradevolezza, che è puro fatto mediatico.
Il linguaggio è altrove.

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Nota: questo testo è stato la traccia di due conferenze, la prima nel 2003 a Savignano sul Rubicone in occasione del Festival Foto, la seconda a Milano alla Fondazione Forma in occasione di Fotografica 2009.
Oggi l’ho manipolato per questa di occasione, ma il concetto è lo stesso: la fotogenia non esiste!

Polaroid 55. Riproduzioni di RX.

Hasselblad Master Jury

http://www.hasselblad.com/hasselblad-masters-jury.aspx

Non è semplice essere un giurato… temporaneamente giurato per quel che mi riguarda. Poi vedo qui e là che c’è chi ne fa una professione. Peggio: uno stile di vita.
L’importante è non pensare che da te dipenda qualcosa di fondamentale per qualcuno altro. Perché non è vero. Diffidare di chi sostiene il contrario. Nel dubbio diffidare comunque.
E la tua parola conta semplicemente per ciò che è, cioè una unità.
Essere onesti e fedeli a se stessi ma non prendersi troppo sul serio è una regola generale. Anche quando fai la tua biografia: io non mi ci riconosco mai!
Fatto salvo per i gatti, che confermo essere i miei soggetti preferiti.
Se poi li fotografo o meno non è poi così importante.

A margine… ma a cosa servono i concorsi?

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Futbal

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Eccole qua. Le avevo preannunciate… queste sono le immagini che mio padre scattò nell’aprile del ’66  in occasione di un importante torneo di calcio giovanile che aveva (aveva) frequenza annuale: ogni anno lì, sul campo del Legnano  a tirar calci. Le maglie sono quelle solite. Più altre meno note.
Non so commentare questo lavoro. O magari non voglio. Però me lo ricordo: io c’ero! Sett’ann… sette anni. Flash mnemonici. Lampi indelebil: mio padre con la biottica al collo, talvolta capovolta… mio padre rasoterra, mio padre sotto le gradinate, mio padre in tribuna. Mio padre… mio padre che mi mette sulle ginocchia di Gigi Riva presente come padrino del torneo. E che è lì s’una sedia dietro una porta.
Rombo di Tuono… sull’asse tra Legnano e la Sardegna tutti sanno di chi sto parlando. Per gli altri c’è Wikipedia.
Questa fotografia è teraputica. Non c’è messaggio, non c’è nulla di celato chissà sotto quale cupola celeste. La fotografia è un linguaggio diretto che non ha bisogno di sottotitoli.
È un idioma a sé, e in sé concluso. Che si nutre di tutto.
Non ci sono luoghi e soggetti più deputati di altri. Ciò che conta è come racconti: se hai una fotocamera, usala! Che diamine ti serve pensare a photoshop?
Il tempo fotografico non è umano. È per sempre.
Non passa mai e ci attraversa la vita.
E quando ci toccherà dare forfait (vaffanculo!), questo tempo immutabile sarà per altri.
Perché solo una volta fermato, questo tempo sarà dinamico.
Questo è la fotografia. Tutto il resto son puttanate.

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Le foto (struggenti) che corredano questo servizio documentano un torneo di ragazzi della primavera 1966. Non è un anno qualsiasi, è l’anno che precede la fine di quel modo di intendere il calcio. Antonio D’Orrico, Capital RCS settembre 1997.

Fotografie di Luigi Raimondi, mio padre.
Torneo “Alberto da Giussano”. Legnano, aprile 1966.

Film: Agfa Isopan ISS – KODAK TRI X PAN
Fotocamera: Zeiss Ikon Ikoflex – Tessar 75mm.

Nota: futbal è come veniva allora chiamato e scritto  football in Lombardia.

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Efrem Raimondi -Bòog

Questa è la biottica che ha assecondato lo sguardo di mio padre per anni.
E che ha prodotto le immagini di questo articolo.
Prodotta nel 1956, monta uno straodinario Tessar 75/3.5.
Una macchina da combattimento, ma anche una dolce compagna in studio…
Da bambino vedergliela addosso mi suscitava sempre emozione: è stata un mio oggetto del desiderio.
Poi l’ho usata.

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Playboy n. 33: pole dance.

Pole dancers. Milano, febbraio 2012. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

La prima cosa che ti dicono, proprio subito, è che la pole dance non è lap dance.
Questo distinguo risulta fondamentale, visto che stai fotografando per Playboy. Solo che le cose si complicano: come fare a rendere sensuali movimenti e pose al limite della gravità… come diavolo fare? Di fronte avevo delle atlete, altro che fanciulline col fine della seduzione. Ognuno ne tragga le proprie conclusioni. Io ho tratto le mie. In considerazione del fatto che questo magazine sta cambiando molto. Per questo ho ritratto non pensando a Playboy… avrei fatto lo stesso per qualsiasi altra rivista.
Fotograficamente la domanda è questa: è possibile scattare senza l’ombra di un format iconografico? Oggi credo sia indispensabile per un fotografo. Oggi più che mai.
Ed è possibile che i giornali stessi ne traggano beneficio? Un tempo era così. E checchè se ne dica la qualità media era decisamente più alta. Ma decisamente.

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E poi c’è questa snap a Valeria Bonalume… non pubblicata. Chissà perché me lo sentivo. Ma non so sottrarmi.

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Credit: foto ass. Giulia Diegoli, stylist Ornella Fontana, make up Marina Donato, location Milan Pole Dance Studio.
Testo di Sara Emma Cervo.

Un grazie particolare a Krystel Arabia, Nadia Scherani, Valeria Bonalume, Kimmy Street, Sarah Genova, Samantha Fabbrini.
E a Alessandra Cantoni, ufficio stampa MPDS

Fotocamera: Hasselblad H3D II-39, con 50 e 80 mm
Flash: Broncolor

In nome del padre.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedDa dove partire?
Dall’urgenza.
Il motore fotografico forse è davvero questo: l’urgenza di esplodere.
Non ha importanza poi la tinta, se un acquarello pastello o dei graffi d’inchiostro… uguale. Ognuno modula come gli pare.
Ma l’urgenza non ha a che fare con gli altri, non riguarda il consenso, né tantomeno il successo: è un fatto privato. Intimo.
Fotografare è sputare l’anima. E quando la sputi te ne accorgi.
Non hai bisogno di nessuna conferma. Non servono pacche sulla spalla.
Ciò che si racconta è il presente. La matrice espressiva risiede nella nostra memoria, senza la quale rimbalzeremmo muti e frenetici.
Questo ritratto a mio padre, Luigi Raimondi, è stato fatto sull’urgenza del tempo.
Quello che non avrei più avuto da condividere con lui. Si rimanda si rimanda si rimanda… poi ti dicono che tuo padre sta morendo.
E non l’hai mai ritratto.

Questa è l’urgenza per un fotografo, o per chiunque usi il linguaggio come dinamica dell’io. Quello interiore e che non sai neanche bene dov’è ficcato. Né cosa lo spinga a imporsi con prepotenza.
E la memoria ti serve per dargli una forma. Questo almeno vale per me.

Il ritratto più sofferto della mia vita… in banco ottico, col telo a nascondere il mio sguardo allucinato.
Un camuffamento momentaneo visto che poi il risultato è questo.
Era l’ottobre del 1995. Ero molto più giovane. Era un altro pianeta.
E non ero ancora orfano.

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Toyo 45 G, Rodenstock 180, Profoto flash, Agfapan 100.

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