Instagram terapia. Giovanni Picchi interview

 

Giovanni Picchi by Efrem Raimondi - All Rights Reserved

           Giovanni Picchi, aprile 2016. © Efrem Raimondi – All Rights Reserved           

Giovanni Picchi e io ci conosciamo da una quindicina d’anni.
Forse di più. Dai tempi dell’agenzia Grazia Neri.
Co-fondatore dell’agenzia LUZ Photo, che mi rappresenta, ha un rapporto diretto con la produzione fotografica da un ventennio.
È persona solare, lo stimo molto, e nutro del vero affetto nei suoi confronti.
Tutto ciò non è per nulla scontato, soprattutto se è di fotografia che parliamo.

Un bel giorno sul suo account Instagram vedo la sua faccia, diversa… un selfie si direbbe, che mi fa letteralmente saltare dalla sedia: rasato e dimagrito, modello punk… solo è evidente che non può essere.
Gli scrivo e poi lo chiamo.
Chemio…

E tutto quanto a seguire. Più o meno all’inizio di quest’anno.

Ho cominciato a monitorare – il termine è esatto – la sua produzione Instagram. 
Per accorgermi a un certo punto che stava facendo un percorso fotografico su sé stesso. Senza chiamarlo Progetto
In mezzo a tanta produzione confusa e inutile, manieristica e brutta, questa ha per me un senso. 
Che è terapeutico, ma anche fotografico.
A me interessano entrambi.
Ed è il motivo per cui siamo qui.
Gli ho chiesto se gli andava di parlarne usando la formula dell’intervista: sì.
Allora la pubblico integralmente.

Insieme abbiamo fatto anche una piccola selezione delle immagini che ha pubblicato sul suo account Instagram.
Non aggiungo altro a riguardo: dall’intervista emerge tutto.

Prima di attaccare il registratore, l’ho ritratto.
Non potevo evitare… è sempre da lì che parto. Per tutto.
Quasi tutto…
Poi abbiamo mangiato una zuppa di lenticchie gialle.
Una signora zuppa, con curcuma e zenzero.
Quindi, Play

ER – Partiamo dall’inizio: la cosa che mi ha scosso guardando il tuo account INSTAGRAM è che il tuo rapporto con l’immagine, la fotografia per meglio dire, a partire da un momento preciso è cambiato. Violentemente direi. E coincide con l’approccio terapeutico alla malattia… ci puoi dire cos’è successo, o per meglio dire, cosa ti è successo per aprire pubblicamente il tuo sguardo rispetto a ciò che stavi, e stai, affrontando?
Giovanni Picchi – Dunque… questa è la seconda recidiva della malattia…
Possiamo dire di che malattia si tratta?
Assolutamente sì. È un sarcoma, un tumore quindi, la cui prima manifestazione è stata nel 2001, avevo 28 anni, e l’ho vissuta tenendomi un po’ dentro questo problema. Forse anche perché era ancora un periodo in cui la parola tumore, cancro, non si esprimeva con grande facilità e poi…

Scusa Giovanni, allora ti eri comunque posto il problema di esternarlo e hai fatto una scelta di chiusura o… anzi diciamola tutta: ti eri posto il problema di usare un medium come la fotografia per esternare il percorso clinico e personale, o no?
No, assolutamente no. Proprio non ci ho minimamente pensato.
Ne erano a conoscenza soltanto gli intimi.
Diciamo che però la malattia è tornata in maniera importante lo scorso autunno e lì, visto il ritorno, ho fatto la scelta di cambiare approccio… ho proprio deciso di esternarlo.
Perché?
Be’ intanto c’è da dire che a causa della malattia, della sua ricomparsa in questa forma più aggressiva, ho deciso di cambiare tanti approcci della mia vita… perché questa è una recidiva… la malattia che ritorna… in qualche modo ce l’ho dentro, non l’ho mai tirata fuori e quindi… insomma non posso dire con certezza che questo suo ritorno sia dovuto al fatto che io non abbia esternato, ma è certo che ho sentito fortemente il bisogno di sputarla fuori.

Perché hai deciso di usare la fotografia?
Perché mi risulta più semplice… c’è da dire che ho iniziato con l’idea di fare un diario personale, a partire dal primo intervento che è stato l’ottobre scorso, ma non con l’intenzione di pubblicare… pensavo che mi servisse per guardarmi un po’ dentro… e anche fuori.
Poi quasi come un processo di maturazione e precisazione di un percorso che ho ritenuto subito terapeutico, ho deciso di buttare tutto fuori, di esternare. E quindi Instagram e il social network più in generale.
La fotografia è immediata… e poi è la forma di comunicazione che più mi appartiene pur non essendo un fotografo… sono vent’anni che lavoro con la fotografia e di fotografie ne vedo proprio tante, quotidianamente… la fotografia mi piace e mi piace farla amatorialmente e per una volta ho pensato che volessi usarla, proprio usarla in prima persona.

©Giovanni Picchi - All Rights Reserved

Sfogliando questo tuo album ho immediatamente pensato a due cose.
La prima: pur usando uno strumento come l’iPhone ed essendo tu stesso autore e soggetto, non ci troviamo di fronte al selfie tradizionale. Sembra tutto più prossimo all’autoritratto, che è strumento di un’indagine più intima.
La seconda, in qualche modo più importante se si intende fare fotografia, e cioè che la ragione, il cosiddetto perché, è davvero una reductio ad unum: raccontare la propria storia.
Ed è esattamente l’esigenza primaria per chi fa fotografia. Indipendentemente dal soggetto.
Quando hai iniziato col diario, ti sei posto dei limiti e una eventuale meta, o hai semplicemente fatto e poi si vedrà… una sorta di work in progress così com’era, senza alcuna pianificazione…
No, non c’è stata alcuna pianificazione.
È iniziata per documentare il primo intervento chirurgico, poi si è delineato quello che sarebbe stato il percorso terapeutico, inclusa della chemio piuttosto pesante e lì, proprio a partire da lì osservavo il cambiamento fisico della persona. Che volevo documentare, anche a scopo terapeutico dove per terapeutico intendo proprio la volontà di esternare il mio cambiamento…
Scusa se ti interrompo: ha un destinatario questo percorso iconografico che hai deciso di rendere pubblico?
Direi di no… poi sai, per come tecnicamente funziona il social network… per esempio ho evitato hashtag particolari per andare a raccogliere all’esterno di quello che invece è il mio network. Quindi forse se un destinatario c’è è proprio una precisa cerchia di persone.
Dalle quali ricevo una energia positiva…
In che modo?
È proprio nel principio della comunicazione, nell’esigenza direi primaria che ho di raccontare l’esperienza che sto vivendo. Anche attraverso il cambiamento della mia persona, del mio fisico, della mia immagine più immediata. E sapere, avere testimonianza del fatto che c’è chi raccoglie… che poi non è la pacca sulla spalla, ma proprio il fatto che davvero c’è qualcuno che intercetta questa mia esigenza di esternazione. Già solo questo mi aiuta e mi fa stare meglio.

Dunque… la prima volta che si è manifestato il tumore avevi ventotto anni e non hai pensato neanche lontanamente di esternare un bel niente. Adesso ne hai quarantatré e l’atteggiamento è opposto. Una sorta di estroversione… Trovi che questo passaggio brusco sia positivo? Ma anche pensando a una terapia più ampia, non conclusa insomma in quella medica…
Assolutamente positivo, non fosse altro che a differenza di allora non ho alcun problema a parlare del mio problema… non ho nessun problema [ride] non ho vergogna. A differenza di allora, che però ero molto più giovane e forse va messo in conto.
Be’ certo, anche perché non si può certo trascurare che in qualche modo questa attualità può avvalersi della precedente esperienza, quella nella quale ti sei rifugiato in una comprensibile introspezione e nel silenzio
Ecco appunto, adesso so che il silenzio non ha fatto bene. Non in termini assoluti chiaramente, non voglio generalizzare: so che non ha fatto bene a me

Vedo distintamente il percorso del tuo Instagram… adesso, proprio adesso andando a memoria: un percorso piacevole, lineare, le vacanze… e quelle con un chiaro intento fotografico: tutto piacevole… tutto compreso direi simile ad altri, di quelli con gusto e senza strappi. Poi, me lo ricordo bene, improvvisamente uno shock… tu rasato con gli occhi piantati nell’obiettivo. Ti ho telefonato
Sì ricordo. Io abbastanza disinvolto a parlarne e tu un po’ rigido
Davvero in questo non c’è come la fotografia… uno shock.
Derivato anche dalla conoscenza diretta della persona che vedevo e che non lasciava alcun dubbio… non ho pensato insomma a una improvvisa nostalgia punk.
Ecco, da quel momento il tuo Instagram ha una cifra precisa, che non comprende praticamente altro… sì ogni tanto compare qualcosa, ma è come sfumato, risucchiato da una nuova e netta centralità: il tuo rapporto con questo tumore di merda… dove ti porterà? Fotograficamente intendo, fin dove ti spingerai? Dove deciderai di interrompere?
Anche perché molte immagini sono piuttosto forti.

Ipotesi splendida: decorso positivo, tutto risolto e fine del diario?
Cosa succede a questo percorso fotografico?
Ehhh… in realtà non ci ho pensato. Adesso è difficile pensare a questa ipotesi splendida che tu tratteggi [risate robuste] perché il percorso sarà piuttosto lungo. Be’, può essere sicuramente uno start per continuare a raccontarsi in maniera molto diretta, senza eccessive mediazioni. Questa recidiva, che è certamente più tosta dal punto di vista clinico, e proprio l’aver pensato a un certo uso della fotografia, come dicevo prima anche terapeutico nel modo più ampio, che cioè coinvolge l’interezza della persona, la mia vita e gli atteggiamenti, questa recidiva dicevo mi ha dato l’opportunità di riflettere su molte cose. E di cambiarle. Quindi non escludo affatto che anche in assenza della malattia possa avere un seguito. Come, in che forma, non sono in grado di definirlo adesso. Quello che so è che adesso, questo percorso fotografico, questa tranquillità nell’esporlo, mi fa bene.
E mi fa davvero bene. Perché il fatto di raccontare, senza voler essere necessariamente new age, mi restituisce un’energia positiva che mi serve molto.

Non c’è assolutamente un uso esibizionistico del social network… parlo di qualcosa di profondamente vero… e forse è il pretesto per raccontarsi, un modo di mettersi in gioco per ciò che realmente si è.
La malattia, per me, è una opportunità di cambiamento e se si riesce a viverla così forse… forse anche questo è parte del percorso della guarigione.

I tuoi figli hanno accesso al tuo account?
No. Ma puramente per una questione anagrafica, sono ancora piccoli…
Quindi non hanno mai visto queste immagini…
No… però mi vedono di persona! E devo dire che l’atteggiamento di condivisione ce l’ho anche con loro: mi vedono esattamente così, cambiato a seguito di questa malattia e delle cure che sto affrontando.
Sì vero Giovanni, però un conto è vederti in camicia e in movimento, un conto è vedere alcune delle immagini che hai pubblicato… la staticità, fermezza descrive meglio, della fotografia amplifica l’impatto emotivo
Certo, però da questo sono protetti, non hanno accesso ai social network.
E non credo che abbiano un altro modo di vederle, tipo l’amico dell’amico… no, non credo proprio. Comunque se dovesse accadere non credo sarebbe traumatico proprio per come anche con loro ho affrontato questo percorso clinico…
Ma anche per quello che potrebbe riguardare la mia famiglia, sinceramente il problema non me lo sono posto, perché fa parte prorprio del voler buttar fuori… è insomma davvero un fatto terapeutico che mi fa stare bene. E che quindi serve così com’è

©Giovanni Picchi - All Rights Reserved

Più in generale dal punto di vista fotografico, in questo percorso c’è stato un qualche riferimento o no?
No, alcun riferimento… sai, poi è tutto iniziato come diario, come una raccolta di istantanee e quindi mi fotografavo pronti via… senza neanche pensarci troppo
E c’è una cadenza? Da cosa è determinata?
I momenti terapeutici a partire dall’intervento chirurgico, prima e appena dopo. Poi durante i vari cicli. E assolutamente post ciclo, perché è il momento di maggiore caduta fisica e psicologica… poi sai, c’è anche l’effetto accumulo e mentre i primi cicli li reggi meglio man mano diventa sempre più pesante. E a pensarci è proprio in questo apice che diventa per me importante documentare… mi aiuta davvero molto

Non è possibile prescindere dalla conseguenza del gesto… l’immagine che ti viene restituita, la tua immagine, ti aiuta?
Mi aiuta sì. In consapevolezza… però c’è anche da dire che a volte c’è l’effetto sorpresa perché in fondo conservo ancora una memoria del me precedente… insomma un certo effetto straniante…
Quasi ci fosse una distanza della quale prendi davvero consapevolezza nel momento della restituzione dell’immagine?
Sì, un po’ sì pensandoci adesso. Però mi serve molto perché mi certifica una attualità rispetto alla quale devo rimanere molto vigile.
Anche perché la sto prendendo un po’ come una battaglia…
In effetti perdonami, alcune tue immagini sanno di ”guerriero” e a proposito: hai anche qualche t-shirt con in mezzo la tua dichiarazione di guerra: #attack

©Giovanni Picchi - All Rights Reserved

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[ride di gusto] Sì sì… quella con l’hashtag me l’hanno regalata i colleghi, poi una dai cugini e altre… è diventato anche un gioco divertente tutto sommato. È una vera battaglia insomma, e come in tutte le battaglie occorre avere una certa lucidità… e forse guardarsi restituito ha anche questo scopo: non perdere di vista l’obiettivo
Prima ti ho ritratto… molto tranquillamente, niente computer tutto in macchina. Però le immagini le abbiamo guardate sul display, non abbiamo evitato, e soprattutto non hai evitato tu. Immagini dirette, qualcuno potrebbe anche dire violente… tranne i mossi le altre hanno una certa coerenza con alcune tue, eppure guardandole hai avuto un sobbalzo che ho avvertito istantaneamente e mi ha sorpreso: cos’è è successo? Cosa cambia rispetto ai tuoi autoritratti? Di fatto stiamo parlando di immagini parenti…
Bah… sì vero, ho avuto un sussulto… ma forse perché come dicevo rispetto alla memoria che ho di me… insomma non sempre sono così agganciato all’attualità… o forse è un po’ l’effetto specchio perché mentre mi sto fotografando con l’iPhone mi vedo e mi concentro forse di più sullo scontro col tumore e anche quando prima si diceva del guerriero, non escludo che un po’ di recitazione ci sia da parte mia. Mentre quando mi hai fotografato tu non avevo alcun controllo
Ma può essere che mentre ti stai ritraendo, tu trascuri alcuni elementi che al momento reputi marginali? Se ci penso ti focalizzi molto sul tuo sguardo… mentre l’immagine poi è tutta quanta, tutto dentro quel perimetro. E a proprosito dello specchio, sinceramente penso che sia una autoriflessione parziale, perché quello sguardo sembra invece essere rivolto a qualcuno o qualcosa che è altro, che è esterno
Ma in effetti rimanendo sulla metafora della battaglia, mi è chiaro che nella circostanza io tendo a caricarmi, a darmi maggiori munizioni nell’affrontare il nemico che ho di fronte. E che però è anche dentro. Tu sei l’unico che mi ha ritratto, non ho precedenti, forse anche questo…
D’accordo l’immagine del guerriero e la metafora della battaglia, comprendo perfettamente… esagerando un po’ una figura epica e …
Be’ a me piacciono molto i Supereroi, così nella letteratura… così mi sono anche divertito a usare certe magliette, che però indossavo anche prima… Credo che consciamente o anche no, affiancarsi all’immagine dell’eroe in qualche modo mi aiuti a combattere questa battaglia

©Giovanni Picchi - All Rights Reserved

Ti sei mai posto il problema della reazione di altri, estranei allo stretto giro che ti appartiene, e che magari potrebbero essere inclini a pensare a un atteggiamento voyeuristico?
Francamente non è questo e quindi non mi sono mai neanche posto il problema

Se sfogliamo le pagine nobili o per nulla della fotografia, ogni tanto incontriamo autori/autrici che si sono ritratti in condizioni poco ortodosse diciamo, con l’intento di interpretare il proprio malessere restituendo immagini inclini all’autocommiserazione.
Invece guardando le tue immagini non trovo alcuna interpretazione del malessere, e anzi è l’esatto contrario: l’interpretazione di un combattimento
Assolutamente sì per quello che mi riguarda. Io cerco il positivo di questo percorso
Io però voglio scavare un po’. Alcune tue immagini sono violente.
O forti se vogliamo usare un eufemismo… e un conto è produrle, un altro pubblicarle. Davvero non ti sei mai posto alcun problema?
No… sinceramente no. Ribadisco poi la convinzione di rimanere entro i confini del mio network, che è fatto di conoscenze dirette
Questa perdonami è un’illusione. Le immagini circolano liberamente in rete…

Allora diciamo che non ho ricevuto alcun ritorno da parte di altri, di persone insomma con le quali non ho rapporto diretto. Però nell’eventualità non avrei alcun problema ad affrontare la questione.
Quindi no, non mi sono mai posto il problema

Così d’emblée: come trovarsi di fronte a un bivio… se uno decide di raccontare sé stesso, a questo livello, lo fa senza schermo alcuno. Altrimenti diventa solo la parodia di un racconto.
Può essere che proprio la criticità della condizione abbia sciolto qualsiasi ritrosia da parte tua? In fondo è come oltrepassare un confine avendone piena coscienza. E controllo. Anche di fronte all’estremo di certe scelte iconografiche ci si autolegittima, indipendentemente dal grado di accetabilità, sociale in generale ma dei social in particolare. A me sta bene eh… solo per capire
Anche a me sta bene… se posso dire mi starebbe bene anche da fruitore. I social network sono strumenti un po’ omologanti, è proprio nelle regole: se il 50% pubblica ciò che mangia anche io mi adeguo. Nulla da scardinare, però da fruitore mi piacerebbe vedere qualcosa di più sincero, diretto e anche umanamente coinvolgente.
In che misura secondo te questa produzione ha una valenza fotografica? Ti interessa che l’abbia? Perché oltre qualsiasi discorso, una scelta estetica l’hai fatta
Mah… in un certo senso mi interessa anche… nella misura che si diceva prima e cioè di uscire da una certa omologazione, da certi cliché, anche comportamentali nei confronti della fotografia sui social. Però non c’è altro… non ricerco consenso.

Tu sei co-fondatore di Luz Photo, e hai una abitudine professionale all’immagine. Questa tua produzione, che non ha nessuna pretesa se non quella di riguardarti intimamente, è secondo te in qualche modo in conflitto con la tua figura professionale?
No… non c’è conflitto… a me la fotografia piace e mi piace farla anche se non sono un fotografo. Sono una persona di questo tempo e con questo tempo mi misuro… uso la fotografia, questa fotografia per ottenerne un beneficio. E poi per me è un tutt’uno… non vedo conflitto con la mia figura professionale… anzi direi che c’è coerenza.
Vediamo e produciamo tantissima fotografia anche inutile e…
Ecco qui scusami ti interrompo perché se no dimentico una cosa per me importante. Forse vediamo e produciamo tantissime fotografie e poca fotografia. Spesso ciò di cui sento la mancanza in ciò che vedo, forse anche superficialmente ammetto, è il gesto: vedo bei compitini – ma anche no – assolutamente privi di gesto. Come rimanere sempre a una distanza dalle cose, da ciò che accade.
Forse abbiamo anche perso il soggetto, cioè noi e ciò che intimamente ci riguarda e che poi dovrebbe essere il vero motivo per cui si fotografa.
Qui vedo invece una persona che si appropria davvero della propria soggettività e la traduce con un linguaggio che gli appartiene…
Che mi è famigliare… sì, in qualche modo è così

In alcune tue immagini noto un certo cinismo, proprio nel trattarti e mi riferisco a quelle che almeno a me hanno immediatamente evocato la morte, poi per pudore possiamo tutti far finta che non è così e non se ne parla…
No, parliamone
Per esempio quel video che sembra quasi un GIF animato, nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna col sottofondo del Requiem di Mozart… più che una modulazione ironica mi è parsa cinica
Vedere la morte e raffigurarla è anche un modo per esorcizzarla… sai, saperla sempre presente e non vederla perché si nasconde… insomma se la vedi ne prendi una immediata consapevolezza e provi a difenderti, in qualche modo rapportandoti
Questo cinismo, o meglio, una certa saltuaria rappresentazione cinica, in qualche modo mi ha evocato una dialetticca con la morte, una dialettica per nulla evitata
Ne ho semplicemente preso atto. Del resto la trasformazione fisica, un certo deperimento, questo asciugarsi… insomma un’immagine sinistra, indubbiamente. E allora questa dialettica che dici è stata inevitabile: se lei, la morte, si nasconde ma è presente, voglio stanarla… far finta, nascondermi a mia volta, non è utile alla causa.
Poi ci sono circostanze casuali… per esempio mi sono trovato davanti a La vita e la morte di Klimt e mi sono messo in mezzo… un gesto che ritengo semplicemente ironico

Stai in qualche modo didascalizzando, anche? Non so, alcune immagini le sento decisamente più intime e tue, altre, forse le più facili, mi sembrano più a uso esterno, rivolte a altri mi viene da dire
Non c’è una premeditazione, però sì, è vero. Questa di Klimt certamente lo è. Quelle che invece mi appartengono intimamente, come dici tu Efrem, sono quelle relative ai momenti di solitudine, in genere post-terapia, quando sono lì da solo un po’ a rimuginare, con però la determinazione a resistere… vale sempre la metafora bellica. Se mi viene detto, come mi è stato detto, che la settimana post chemio è quella nella quale ci si lascia un po’ andare, non si ha voglia di far niente, anche perché oggettivamente indebolito, ecco questa è la settimana nella quale lotto di più. Proprio per evitare…
Un fattore reattivo insomma
Assolutamente sì

Ci sono due aspetti di questo percoroso INSTAGRAM… di quello terapeutico abbiamo detto. C’è poi un fatto di linguaggio estetico che tu comunque non trascuri. E che io riconduco a una matrice espressiva punk: diretta, non leziosa, di glam manco a parlarne… insomma con un suo peso specifico. Secondo te Giovanni, potrebbero queste immagini fare testo a sé? Cioè indipendentemente dalla malattia…
Ma in effetti anche questo, moderatamente ovviamente. Però se vuoi il percorso clinico è stato anche questo: cioè l’opportunità di affrontare in prima persona un’altra fotografia, e di misurarmi anche da questo punto di vista sulle mie intenzioni espressive… intorno a una questione che mi riguarda profondamente.
Volendo esternare con l’immagine, ho dovuto necessariamente farmi carico anche del modo espressivo.
A ben pensarci il motivo iniziale è terapeutico, poi però ho cominciato a immaginare che potevo avere in mano anche un qualcosa con una valenza iconografica… che avesse una certa coerenza

Ultima domanda: perché hai accettato questo confronto, qui sul mio blog?
Be’ innanzitutto perché quando ci siamo sentiti le cose che mi hai detto, poche ma chiare, ho sentito che proprio mi riguardavano e riguardavano quello che sto facendo sia di fotografico e anche come gesto diciamo poco consueto. Per quanto esiste una ricca letteratura a riguardo, cioè di protagonisti di storie simili che ne scrivono e parlano pubblicamente, più o meno come sto facendo io. E poi mi interessava molto sia parlarne sia essere fotografato da te, da un’altra persona con una visione diversa, esterna.
E sento già esserci un beneficio, un momento di arricchimento di questo mio percorso di vita. Perché è di vita che abbiamo parlato, e per questo ti ringrazio molto.

Milano, aprile 2016
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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So che ho dimenticato di chiedere qualcosa.
E forse Giovanni di rispondere.

Questo lo scrivo adesso. A due anni di distanza…
Giovanni ci ha lasciato. Stamattina.
Lunedì 21, presso la basilica di Sant’Eustorgio, Milano, il saluto.
Alle 9.
Un grande dolore. Non aggiungo altro.

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60 thoughts on “Instagram terapia. Giovanni Picchi interview

  1. Ciao Efrem.
    Sono Maria, ero al centralino della Grazia Neri. Ho saputo ora e non ho parole… Ho appreso tutto insieme con davvero tantissimo dolore. Grazie per questa intervista che hai fatto con Giovanni.

    • ciao Maria! mi ricordo benissimo. sì, immagino che apprendere tutto in un attimo sia scioccante.
      posso dirti che questo articolo fatto a quattro mani, pensarlo, farlo, “cucinarlo” e poi pubblicarlo qui, è stato molto importante per entrambi.
      e per me vedere Giovanni così, con quell’energia incredibile, è stato in qualche modo consolatorio. un’esperienza davvero indelebile.

  2. Grazie Efrem e grazie Giovanni, anche se non ti ho mai conosciuto…
    Le foto e l’intervista mi hanno molto emozionato e mi hanno permesso di comprendere un po’ di più questa realtà complessa, delicata e difficile e di contattare la grande forza ed il coraggio di Giovanni.
    Tutto questo arricchisce di contenuti “veri” i social perché come ha concluso Giovanni è di vita che si parla, ma della vita vera, ricca di valori e significati!
    Grazie!

    • questo è un percorso particolare Luciana. denso, non credo ci sia dubbio alcuno a riguardo.
      personalmente non credo che quella dei social sia una realtà virtuale. o parallela: alla fine siamo ciò che rappresentiamo. e nel modo in cui lo facciamo.
      per questo credo che ci sia tanto di vero in giro. non così drammatico nell’epilogo, ma comunque altrettanto “vero”.
      non è facile orientarsi ma è possibile. tu ne sei la dimostrazione. grazie a te per il commento così partecipe.

    • credo si debba stare molto attenti all’uso della parola progetto. piuttosto inflazionata.
      capisco cosa intendi dire, Luca, e ti ringrazio. però stiamoci attenti.
      perché in questo caso la coincidenza tra giovanni, la sua vita, e tutta la parte iconografica, coincidono in maniera asoluta.

  3. Infinita stima per l’attitudine di Giovanni. Di questa persona che non ho conosciuto mi passa forte l’energia positiva che ci lascia.. a chi rispetto a lui è rimasto un passo indietro. Passa grazie alle foto e alle parole di entrambi.

    • sì vero. ma il prezzo è molto alto. e lui l’ha pagato tutto in anticipo.
      la consolazione è di averlo conosciuto. di essere un suo amico. e di avere lavorato con una persona così.

  4. Intensa e commovente: una storia vera dall’inizio al terribile epilogo. Un grande coraggio quello di affrontare una via così dolorosa con questo sguardo da parte di entrambi. Un insegnamento per tutti

    • il coraggio, la forza, sono entrambe di Giovanni. e ti assicuro che sono stato, in questi due anni, strabiliato da tanta energia.
      questo percorso, questo articolo che abbiamo fatto insieme, è per me indelebile. davvero come un tattoo.

  5. Grazie di avere condiviso il vostro scritto, molto interessante e commovente.
    Grazie di cuore e Giovanni sempre nella mia memoria. Grazia Neri.

  6. Sono un grande appassionato di Gilardi ma davvero non vedo in che modo il suo pensiero possa, in questo caso, andare contro un progetto simile: qui chi si racconta è il fotografo, che poi Efrem l’abbia ritratto e fotografato a sua volta non è che la naturale prosecuzione del percorso intrapreso da solo.
    Detto questo, io che sono di norma contro i progetti stile “sbatti il mostro in prima pagina”, in questo caso sono totalmente a favore; avrei preferito una fine migliore, mi spiace tanto che una persona così ci abbia lasciati ma se può servire anche a dare forza e fiducia ad altri malati, ben venga.

  7. Un abbraccio enorme, per i tempi “che sono stati” e sopratutto per quelli che saranno. Da oggi avrai anche un po di me a darti forza e coraggio.

  8. Bellissima intervista che racconta la storia di Giovanni con immagini potenti! La fotografia è per me sempre un modo per esplorare se stessi e il mondo, mi piace immaginarla come una compagna di vita, sempre accanto anche in situazioni difficili come questa! Un grande in bocca a lupo Giovanni!

  9. Ciao Giò
    sono Angela…..quanto tempo!
    Che tsunami di emozioni ieri, scoprendo questa situazione che stai vivendo.
    Ora che so… ogni giorni i miei pensieri saranno rivolti anche a te.Conosco la tua forza ed il tuo spirito puro e solare. E’ vero forse la malattia ti ha cambiato ma i tuoi occhi sono quelli di sempre.
    ti voglio un mare di bene!
    Angela Pantuso

  10. Trovo molto interessante l’uso della fotografia come terapia. Ultimamente leggo sempre di persone stufe dei progetti fotografici sull’autoritratto.
    Io invece penso che abbiamo bisogno di fotografie come queste, vere e sincere.
    Mi piace l’uso della fotografia come specchio per guardarsi dentro ma anche per farsi guardare dagli altri, per riuscire ad accettarsi per come siamo, anche durante la malattia.
    Grazie per averci fatto conoscere la storia di Giovanni!

    • sinceramente sono tra quelli Luna: ne ho un po’ piene le palle. perché è roba muta nella stragrande maggioranza dei casi. recenti e passati.
      poi però esistono le differenze. quelle che sono in grado di comunicare oltre sé stessi. e non sono mai esercizi stilistici vuoti

  11. JOLE, sii sempre positivo e vincerai, caro Giovanni. La tua intervista mi ha commosso molto e mi ha fatto capire quanto forte sei. Ce la farai!
    Sei anche un grande fotografo, prima e ora.

  12. Immagini di grande potenza, intervista di pari segno. Trovo importante cercare di reagire all’aggressione della malattia ignorandone gli insulti, non darle importanza visto che le si è superiori, farle abbassare le penne con ogni mezzo. Io il mio cancro l’ho salutato, spero per sempre, scrivendoci sopra e sputtanandolo con un libro giallo, idealmente ammonendolo a non farsi più vedere in giro, ma ogni mezzo espressivo è lecito e terapeutico quanto e più di una bomba chimica.
    Buon match Giovanni.

  13. …come al solito, M° Efrem, sempre più (e non solo in Fotografia) molta, moltissima gente guarda il dito e non la Luna. Ma, come si vede, è consolante, quando il “dito” è giusto, la LUNA si vede e si apprezza. In molti. Una cosa grave, importante quanto ormai quotidiana, affrontata con umana serietà. “Luce” (da “lumi” per chi vuole sempre NON capire e si scandalizza per le foto di guerra e non per le sue ragioni, ove ci fossero…) e leggerezza. Al solito un “tuo” pensiero Arciverniciato. Grazie anche di questo. PdP
    PS: bello avere amici come Giovanni. E anche come te. Si.

  14. Conosco Giovanni da qualche anno, amico di amici.
    Abbiamo passato insieme momenti piacevoli; ho dei bei ricordi.
    In quest’ultimo periodo, nonostante abbia seguito con attenzione il suo percorso foto terapeutico – di cui adesso ne ho piena consapevolezza – non ho trovato il modo di fargli sapere che gli sono vicino.
    “Caro Giovanni, pochi come te hanno saputo cogliere questa maledetta opportunità, per arricchirsi infinitamente…sono molto orgoglioso di condividere la tua storia.
    #Attack, a presto!
    Ciao Nicola

  15. Esorcizzare, dice Giovanni: la morte, la malattia, che poi è semplicemente un chiedere aiuto, un aiutarsi che nello stesso tempo aiuta tutti quelli – e sono tanti – che non sono circondati da affetti, che non hanno cugini che fanno forza anche regalando una maglietta, quelli caratterialmente chiusi, ma che hanno anche loro così tanto bisogno di aiuto. Ecco, questo lavoro e queste parole hanno una dimensione che va molto al di là della fotografia, perché, come dice Efrem, alla fine ci si da alla fotografia per raccontarsi, ed è quella fotografia che ha qualcosa da dire, dal profondo al profondo. Come la condivisione, intesa in questo senso. Grazie ad entrambi

  16. Conosco Giovanni e qui viene fuori tutta la sua umanità e il suo coraggio di affrontare questa sfida della vita! Nessun esibizionismo anzi.
    Ed Efrem Raimondi è stato fantastico nel volerlo intervistare e fotografare

    Complimenti a entrambi
    Laura

  17. Ho letto un commento in cui si chiedeva il perché. Perché proprio ad una persona come lui. Anch’io mi sono posto il perché, anch’io ho un sarcoma; ho però smesso subito di domandarmelo e ho cercato, nel buio della mia vita, di vedere una luce. Mi hanno aiutato molte cose, tra cui la fotografia ed un approccio alla malattia aggressivo, psicologicamente parlando, almeno quanto lo è un sarcome. Moltissimo. Ti auguro di trovare la luce, la tua. Erminio

  18. Sono tornata più volte a rileggere questo post, rileggere le immagini e le parole, l’unico pensiero che formulo ogni volta e che va di pari passo con le sensazioni è “Vita”. Bellissima tutta questa sincerità e tutta questa umanità.

  19. Bellissimo, commovente e davvero forte: una carica di energia positiva. Mi dispiace che c’è chi non capisce la positività di tutto questo.
    Il ritratto di Efrem è sublime e le fotografie di Giovanni di una splendida sincerità: altro che esibizionismo! Ognuno reagisce a modo proprio

  20. Non conosco neanche Ando per cui siamo a posto. Non mi sembra un fare democratico è perciò vi lascio nel vostro. Cordiali saluti

  21. Lavoro in ospedale
    Penso di capire cosa vuole dire affrontare la malattia.
    nascondersi non serve a nulla.
    Queste foto non stanno a significare che tutti gli ammalati devono farsi degli autoritratti e postarli su istagram fb o altro…ma si tratta di una testimonianza forte, ed io la prendo in considerazione per quello che… Ma forse a qualcun altro questo modo di affrontare il male può dare speranza ed aiuto. Altrimenti che cazzo fotografiamo a fare?
    Grazie a voi per l’interessantissimo dialogo.

  22. Argonne – sono basita! ma come si permette di dare giudizi del tipo ‘è poco lodevole’ o addirittura ‘immorale’, trattandosi delle scelte libere e consapevoli di due persone delle quali lei mostra di non aver capito nulla? O ci dobbiamo aspettare una seconda puntata in cui ci spiegherà che cosa è lodevole e cosa immorale dall’alto della sua cultura (fotografica e non)?

    ps:
    guardi che se crede di essersi scelto uno pseudonimo figo, Argonne non è un antico eroe greco (tutt’al più è il cane di Ulisse) non c’entra niente con gli argonauti né con Giasone, è solo una zona collinare della Francia nordorientale

    guardi che Gilardi si chiamava Ando, non Nando

  23. Argonne lei dice: “La presunzione è di Efrem Raimondi, perché espone in fare estetico una persona malata e non importa se consenziente.”
    Le consiglio di spendere il suo tempo nella lettura dell’intervista.
    E del ritratto incriminato e delle foto di Giovanni Picchi.
    Perchè le sue parole Argonne sembrano quelle di un analfabeta.
    Potrei, forse, con tanto impegno, arrivare a comprendere il fatto che non condivide l’approccio con cui il Signor Picchi affronta la malattia. Potrei provarci con molto molto impegno e molto molto zen.
    Ma non lo farò
    perché lei non parla di “non condivisione”, ma di rispetto,
    “Rispetto la malattia di Giivanni Picchi ma non questo modo di affrontarla.”
    Io ritengo che siano le persone a meritare Rispetto.
    Se avesse speso meglio il suo tempo, intendo nella lettura di questa intervista, avrebbe avuto la preziosa occasione di scoprire che qui è di vita che si parla. – citando il signor Picchi.
    Saluti.

  24. Ma la domanda è, Argonne, chi è lei per sindacare su come un malato dovrebbe affrontare la malattia? Non capisco. E poi parla di presunziine?

    Comunque. Come ha ricordato Raimondi, qui si parla di Fotografia, non di malattia. Se non le torna, mi perdoni, è un suo problema.

  25. Mi piace l’articolo e tutto il resto, foto, uso Instagram, coraggio, terapia e “progetto”

    Umanamente fantastico,
    fotograficamente importantissimo.

  26. La presunzione è di Efrem Raimondi, perché espone in fare estetico una persona malata e non importa se consenziente. Rispetto la malattia di Giivanni Picchi ma non questo modo di affrontarla.
    Nando Gilardi non lo conosco.
    E lei Efrem invece di ironizzare mi risponda, oppure non ha argomenti?

    • dico una cosa molto chiara, che non lascia spazio a equivoci: il soggetto qui non è la malattia, ma il modo in cui viene affrontata. quindi l’uso che della fotografia è fatto.
      non che non ci siano implicazioni varie… ma il soggetto dev’essere chiaro. e questi sono i miei argomenti, Argonne. non ne ho altri

  27. Argonne probabilmente ha letto Ando Gilardi e non ci ha capito nulla. E vabbè. Coraggioso entrambi. Lui, per ovvii motivi, e tu, che non hai rinunciato a un’intervista diretta ed esaustiva in nome di chissà quale pietismo. Altrimenti non sarebbe Raimondi.

    • ecco alessandro… il pietismo è spesso una semplificazione. un modo facile per scaricare il senso di colpa e non affrontare MAI le questioni. il coraggio sta nella scelta di giovanni. anche nel rapportarsi con me per questo articolo. N.B. tutto parte dalla fotografia per entrambi

  28. Ci sono migliaia di fotografi che sono sui fronti di guerra e fotografano di tutto.
    Efrem ha dato spazio nel suo blog a Giovanni che fotografa la “sua” guerra e lo fa con “forza liberatoria”. Argonne non vedo nessuna presunzione o gesti poco lodevoli visto che riguardano solo Giovanni. Forse se ne parla poco di queste guerre, il giorno di ognuno avrebbe un altro senso se lo si facesse. La fotografia la intendo come la sta facendo Giovanni. Bisogna guardarsi dentro e confrontarsi anche con i grandi problemi anche per difendersi, combatterli e comprenderli quanto più possibile. Comunque la foto che mi piace di più Giovanni e’ quella con la T-shirt B-52, determinato. Ancora grazie Giovanni.

  29. Ma non vi sembra di esagerare? Sono questioni tremende che disintegrano e trattarle con l’ardire fotografico è poco lodevole. Soprattutto lei Efrem, che presuntuosamente fotagrafa un malato: immorale! Inaccettabile e non mi spiego come Giovanni Picchi abbi a potuto prestarsi. Se non con una certa dose di esibizionismo. Cordiali saluti

  30. Ti racconto la mia esperienza Ho avuto diverse fasi nella mia malattia 1 Fase confusa mi sentivo in una lavatrice ciclo centrifuga, superata questa fase ho preso coscienza di quello che mi stava succedendo e per superare tutto questo (chemio radio ,interventi ecc ecc ) e per non uscire di cocuzza la mia testa si è inventata questa storia : C’ero due Lelle la Lella sana e la Lella ammalata. (io mi chiamo Lella) la sensazione era quella di essere ad una finestra , la Lella sana guardavo tutto quello che succedeva la Lella ammalata iin questa fase ho iniziato a farmi le foto. Ciao.

  31. Tutto bellissimo e commovente. Ma anche forte, che scuote. Il tuo Efrem è davvero un ritratto delicato pur nella sua forza. E le fotografie di Giovanni Picchi le trovo molto intense e per niente gratuite. Non era facile

  32. Un bellissimo e delicato ritratto il tuo Efrem. Non facile per niente. Molto intense le Instagram di Giovanni e giusto come dite: terapeutiche. Anche per chi guarda.
    Il vostro dialogo è intenso e anche impegnativo ma bellissimo! Grazie a entrambi. Francesca

  33. Un abbraccio, Giovanni. Da oggi sei anche nei pensieri dei lettori di questo blog.
    Dai che ce la fai.

    Le foto sono tutte… super intense, ma l’ultima ha qualcosa che mi inchioda.

  34. inevitabile andare su instagram e vedere le sue foto…e ti chiedi perché. perché proprio ad una persona che ama la vita, il suo sorriso…la sua famiglia…tutto.
    non è giusto.

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