IN STUDIO

In studio non è la stessa cosa.
Ovunque non è mai la stessa cosa ma in studio di più.
Sembra un paradosso.

Anzi lo è. Perché lo spazio è dato e non muta.
Lo conosci. Conosci le luci che hai, anche quelle che eventualmente noleggi.
La luce ambiente che proviene dai finestroni è stagionale.
E rimbalza di conseguenza sulle pareti.
Quindi anche lei è un dato consolidato.
E si ripete a tal punto da non mutare mai.

Eppure in questa immutabilità dettata da un volume inalterabile, lo studio è luogo dinamico.
Ed è ciò che accade a renderlo tale: tutto uguale ma non è mai lo stesso.
Perché non è un contenitore vuoto, ci sei tu.
E lo studio, qualsiasi studio, non è indifferente alla tua presenza. Anche se non è il tuo.

Se penso alle tante persone che ho ritratto in studio, ai fiori e altri lavori, assignment o no, so e lo vedo: questo spazio è presente.
Accondiscende alla fotografia che fai.

E garbatamente si sposta. Nessuno lo vede. Tu sì.

Nell’ultimo studio che ho avuto, Milano via Orti, avevo una conoscenza in più: un ragnetto.
La prima volta che si palesò ero al telefono, alla scrivania. Vidi come un’ombra a una ventina di centimetri dalla mia faccia. Cacciai un urlo e volai indietro. Giù con la sedia.
Da terra lo vidi correre in verticale, rapidissimo, lungo il filo di ragnatela. Su fino al soffitto. Che era piuttosto alto.
Fu uno shock. Per entrambi.
Imparammo a convivere in quello spazio che era davvero underground come oggi non si può neanche immaginare: ricordo ancora la faccia di Miuccia Prada quando inaspettatamente passò a dare un’occhiata al lavoro che stavo facendo – collezione storica borse, art direction Italo Lupi. Anno Domini 1992.

Poi me ne sono andato. Da lì e da un po’ tutto. Non avevo bisogno di un mio studio, noleggiavo. Ero sempre in giro.
Ho sbagliato. Mi manca.
Chissà il ragnetto… So che ci siamo amati.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedQuest’angolo è un mio tributo allo studio di Laura Majolino.
Saltuariamente ci lavoro e quella sedia adesso lì così fino a un paio di minuti prima mi ha ospitato.
Non è il mio studio e ha una sua identità.
Ma se la riconosci diventa parte della tua dialettica fotografica.
Come fai a non capirlo?
Nessun luogo è uguale. Lo studio di più.

Ho contato le volte che nomino lo studio: tredici. Più una fotografia.

© Efrem Raimondi. All rights reserved

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Fiori bla bla bla

Fiori bla bla bla…
Poi in piena notte cerebrale che non prevede ritorno, che non te ne frega nemmeno, trovi quello che cerchi.
Trovi quello che non sai.
Ma che ti appartiene.

E i fiori sono perfetti per ristabilire un punto.
Perché hanno un doppio binario percettivo: quello dell’incanto, e non c’è niente di male, ma tutto finisce lì.
Poi, oltre la patina della beatitudine c’è la relazione.
La tua. La loro. E questo è lo scarto.
Lo sappiamo bene a ISOZERO Lab. Perché è accaduto.
Come una svolta. Inaspettata.
E c’è chi si è trovato da un’altra parte.

Dove?
Cosa succede?
Succede quello che è successo a me nei primi ’90: azzeri il pensiero.
Perché il loro manifestarsi è dirompente. E non ci arrivi per gradi, ci arrivi con una tranvata.
Così ha inizio una relazione per sempre.
A singhiozzo magari. Ma è per sempre.
E siccome ci sopravviveranno, spera che quelli che incontri abbiano un ricordo di te.
Qualcosa di indelebile.
Non è una passeggiata. Almeno per me.

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Magnolia 2019 by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved      Magnolia, 2019

Fiorellini - 2017 by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved       Fiorellini, 2017

Vaso di fiori - 2015 by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved       Vaso di fiori, 2015

Tulipano nero - 1992 by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved        Tulipano nero, 1992

Non ritraggo più da molti anni fiori recisi. A meno che mi vengano regalati – di rado ma accade. O li trovo per strada gettati via. E succede che li raccolga.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Don Gallo – Una fotografia

Questa immagine di don Andrea Gallo è stata realizzata il 5 dicembre 2009.
Finalizzata alla copertina del suo libro Così in terra, come in cielo uscito nel febbraio 2010. L’ultimo libro del ”prete di strada” per Mondadori. Poi basta.
Come lui, su questo fronte, solo Giorgio Bocca.
Altri autori non pervenuti, a proposito di coerenza…

Don Gallo by Efrem Raimondi - Così in terra, come in cielo - MondadoriLa genesi di questa copertina è interessante. Perché è ciò che assolutamente non doveva essere. Che anzi neanche era immaginabile.
A testimonianza del fatto che l’improvvisazione e la capacità di cambiare in corsa è una prerogativa che si deve avere.
Non dichiarata ma richiesta nelle specifiche di un assignment.

Può anche andar male. Ma a volte se non cambi in corsa va certamente male.
Le situazioni non coincidono sempre con il quadretto che ti sei fatto. O che altri hanno fatto in tua vece.
Sul campo, che è roba più ampia e complessa di una riunione preliminare, ci sei tu e la responsabilità è tua. Sempre.
Anche se fai macro in giardino.
Assumersela significa sostenere ciò che fai mentre lo stai facendo. Mica dopo.
Dopo tu sei muto. Per te parla ciò che si vede. Stop.
Vale per tutto, cosiddetti progetti inclusi.

Quando dico copertina mi riferisco a una singola immagine.
Ma il ventaglio prodotto è ovviamente più ampio.
In questa circostanza sei immagini per due set.
Poche? Non lo so. Son sempre stato moderato nello scattare.
Talvolta decisamente castigato. Sarà stata la scuola banco ottico, non lo so.
E il digitale non mi ha cambiato significativamente.
Non è né giusto né sbagliato: ognuno trova la propria misura.

In redazione se n’era discusso dettagliatamente di questo libro.
Ma io non conoscevo personalmente don Andrea Gallo…
Tutto preciso: l’immagine di un uomo predisposto al sorriso, anzi alla risata… un po’ pretaccio di strada… un barricadero gioviale. Esagero un po’.
Già, e tutt’intorno disagio sociale, prostituzione, alcolismo, tossici. E altro.
Comunità di San Benedetto al Porto, Genova, lì a chiacchierare aspettando che lui arrivasse. Ma non arrivava mai e nessuno sapeva dove fosse.

Non ero esattamente in un salottino dell’800 e non sorseggiavo Sherry.
Ma è stato molto meglio.
Anche per capire che bisognava cambiare rotta al percorso che
mi riguardava.
Quando è arrivato era buio pesto e io sotto la doccia a Milano.
Per cui la settimana dopo appuntamento alla Trattoria A’ Lanterna, gestita dalla comunità – adesso la gestione è altra e tutto cambiato mi dicono.
Giusto per fare due chiacchiere tra un boccone e un bicchiere di vino m’ha detto don Gallo al telefono.

Bene. E più bocconi e più chiacchiera, più il telaio redazionale andava a ramengo.
Perché di fronte avevo una persona sottile e complessa. Profondamente arguta.
E cinica nei confronti del potere e della fama. Della ricchezza smargiassa.
Gesuitico nell’eloquio mi stava convincendo che in fondo non era poi così necessario fare questa copertina, cioè qualsiasi copertina lui presente.

Don Gallo a chiacchierare, io ad ascoltare. Ma decorosamente attivo.
Entrambi molto seduti: la rappresentazione dello stallo.

Poi scorgo la mia assistente guardare l’orologio: le tre pm!
Bellissima chiacchierata: andiamo a far queste benedette  fotografie don Gallo, dai…

Prima in una zona del Porto Nuovo se non ricordo male.
Scatto. Ma non mi convince.
Ci spostiamo allora dall’altra parte, Porto Antico zona Magazzini del Cotone.
Nel tragitto guardo sul portatile i jpg. E più li guardo più emerge una figura alla Simenon, quasi un Maigret.
Ma che c’entra un commissario? Invece caratterialmente me lo ricorda eccome don Gallo.
Un quarto d’ora dopo insisto. Controluce, bn preimpostato mentalmente, Lastolite a schiarire.

don Andrea Gallo by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedA mano libera. Micromosso che ride mi piace.
Non basta. Non ancora.
Fermo fermissimo; sguardo in macchina come una fucilata; io un po’ più alto…
Questa sì. Questa è esattamente quella che cercavo:

don Andrea Gallo by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedMi piace davvero, ma so che non sarà mai la copertina.

Intanto sono le quattro e qualcosa.
Praticamente tramonto al 5 di dicembre. Non ho molto tempo.
Monto un ring flash, piccolo, e provo la luce al volo… quasi ci sono. Ma sai che faccio?
Do via libera al flash incorporato, tengo il ring a un quarto di potenza e piazzo l’Hasselblad a f 8, me ne frego e scatto…

don Andrea Gallo by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved Scatto fino alle 16,23. L’ora esatta della cover.

don Andrea Gallo by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedTutto ciò che di norma non va fatto l’ho fatto.
Incluso il grandangolo – paragonabile a un 35 mm scarso, che però non fa testo perché praticamente lo uso sempre.

In Mondadori all’inizio sono titubanti, scettici: c’entra niente con tutto quello che ci siamo detti. Vero.
Poi qualcuno che evidentemente ha voce in capitolo dice che è perfetta.
E chi se ne frega se non rispetta il brief, evidentemente era sbagliato.
Ha detto proprio così.

Io ci ho creduto durante. Anche se avessi preso una sberla poi.

Di don Andrea Gallo ho un ricordo indelebile.
Rafforzato da una attualità indecente.

©Efrem Raimondi – All Rights Reserved

Assistente fotografia Emanuela Balbini.

N.B. Questo articolo l’ho pubblicato la prima volta nel 2013.
Rivisitato, lo ripubblico adesso. Per diversi motivi.

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Una questione semplice – 1

Il ritratto è una questione semplice.
È come fare una fotografia.
Prendiamo questo, Valentina

Valentina by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved           Valentina, 2010 © Efrem Raimondi – All Rights Reserved

Un fondo nero, di carta.
Una luce flash con una parabola stretta 18 cm e frostata con della carta da lucido;
uno stativo a circa un paio di metri d’altezza e poco meno da lei, che è fermissima al centro e occupa lo spazio. Proprio lo possiede.

Un polistirolo nero per fianco a segnare la luce che mira il viso.
Alti 3 metri, così segnano tutto il fotogramma.
La luce mira il viso.
Io sono a circa settanta centimetri, con un obiettivo equivalente a un 35 mm, poco meno. Un grandangolo medio insomma. Un obiettivo da evitare, dicono. E che invece uso per la stragrande maggioranza dei miei ritratti. Raramente il cosiddetto normale.
Stop, non ho altro. E vale per qualsiasi formato.
Quanto allo sbandierato 85 lo userei solo come fermacarte.

La guardo in macchina… cerco la mia ombra e la trovo.
Le chiedo cortesemente di sbilanciare il peso e di abbassare di un niente il viso.
Lei è così. Solo in questo tempo.
Scatto.
Fine.

Per par condicio ottica, anche questo: Vanessa Beecroft

Vanessa Beecroft by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved           Vanessa Beecroft, 2011 – ©  Efrem Raimondi – All Rights Reserved

Un obiettivo cosiddetto normale, l’equivalente di un 50 mm per capirci.
Una rarità per me… È quando voglio schiacciare leggermente i piani.
A volte con l’ausilio di un tubo di prolunga.
E non so perché, ma con lei, guardandola, non ho pensato a altro.

Esterno, luce ambiente coperta. Ma una direzione ce l’ha.

Ammorbidito il contrasto con un banalissimo pannello circolare bianco, un lastolite a sinistra. E solo perché, sempre cortesemente, le ho chiesto di voltare il viso su di me.
E alzarlo un niente.

In fondo, a pensarci, ricorro spesso al niente. Che è una misura precisa.

Fotocamera su cavalletto a un metro; questo sguardo così in macchina, che a ingrandirlo si coglie perfettamente cosa vede; diaframma moderatamente aperto e la spalla sinistra su un piano altrove.
Ma la pelle la sento. La pelle una cifra imprescindibile.

Lei è così. Solo in questo tempo che è un altro.
Che è una interruzione della norma.
Insomma è una fotografia.
Scatto.
Fine.
Semplice.
Basta avere chiara l’intenzione e assecondarla. Non pensare ossessivamente a cosa si sta facendo.
Il gesto, in fotografia, non sta nel produrre ma nel prodotto.
Come fare un girotondo.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Pagherete caro, pagherete tutto.

C’è questa tendenza a pensare che i fotografi che non fanno reportage – quello maiuscolo, colto, incline alla lacrima – o aderenti a questa iperbole della fotografia sociale, siano dei fighetti.
Mi spiace deludere, non è così.

La fotografia è un luogo intimo. E si vede.
Coincide nella migliore delle ipotesi con la visione che hai del mondo.
Con te.
Qualsiasi cosa tu faccia.
Soprattutto se è chiaro chi è il soggetto: tu! E la tua fotocamera che ti asseconda. Sempre.
Senza un attimo di tregua. Nemmeno se stai ritraendo Dio.
È davvero così.

Pagherete caro, pagherete tutto.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedRitratto a questa vacca, Trentino 2014

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedAcquario, Lombardia 2016

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedFiorellini, non ricordo dove 2017

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedDolomiti, Pinzolo 2015

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Noemi Batki – Sport Week

Noemi Batki: Sport Week mi chiede di fotografarla.
Questo il giugno scorso.
E io lo faccio. Con vero piacere.
Perché è lei; perché è Sport Week, con la quale non collaboro da un po’ di tempo; perché è un percorso duplice che mi interessa molto.
Uno decisamente ”tecnico” e lei in volo.
Dove fare e rifare, seguendo sempre lo stesso copione, è la soluzione.
A colpi di flash.
E non è facilissimo. Ma l’ ho fatto altre volte, con Roberto Bolle per esempio.
Ed esattamente come con lui, c’è anche l’altro percorso, quello sulla persona.
Che è sempre motivo di stimolo: hai davanti una identità, anche legata a ciò che fa, e tu restituisci altro.
Interagisci, ma restituisci altro. Cioè fotografia.

Tutto potrebbe anche non coincidere.
E neanche lo sapremo mai davvero: è importante?
Per niente.
A me interessava solo Noemi Batki. Proprio lei lei.
E ritrarla per come la vedevo. Che è il prodotto di una relazione data in un tempo che è quello.
E forse non si ripeterà più.
Quindi va tesaurizzato anche il minimo dettaglio, ogni marginalità.
Come il segno della spallina del costume, che non ci penso nemmeno a togliere.
E anzi mi aggrappo.
Se davanti hai una persona disponibile e intelligente, non c’è molto altro da fare.
Ed è molto semplice.

Su Noemi Batki: c’è una gran bella vetrata, fai una esposizione, inquadri, scatti.
Stop.
Non serve altro.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Noemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights ReservedNoemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights ReservedNoemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights ReservedNoemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights ReservedNoemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights ReservedNoemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights ReservedNoemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights ReservedNoemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights ReservedNoemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights Reserved

Noemi Batki by © Efrem Raimondi. All Rights Reserved© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Assistenti alla fotografia: Nicole Marnati e Giulia Gibilaro.
Make-up & Hair: Matteo Bartolini.
Management: LGS Sport Lab.
Studio: MilanoStudio Digital.

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INTERNI magazine – Mirror & Mirroring

Efrem Raimondi for INTERNI mag.

Interni magazine, adesso in edicola.
Il soggetto è davvero lo specchio.
O meglio, lo specchiare.

Altre volte l’ho affrontato ‘sto specchio… e per un redazionale ha problematiche diverse dal semplice andare in giro per campi, o dovunque sia.
Perché è duplice: c’è un’azione, lo specchiare, e c’è l’oggetto formalmente composto e in sé finito.

Le sedute…
Le sedute assistono mute. Tutto sommato composte.

Fotografare design… ci tornerò. Con precisione.
Perché è un ambito complesso fotograficamente educativo.
A partire dalla specificità dei materiali, dal rapporto con la luce, dalla relazione con lo spazio qualunque esso sia.
E poi c’è il rapporto con le aziende, coi designer, con la produzione industriale. Una certa concretezza che disciplina e mi affascina.
Un percorso che mi ha insegnato molto.
Insomma ne riparleremo.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Efrem Raimondi for INTERNI mag.

Efrem Raimondi for INTERNI mag.

Efrem Raimondi for INTERNI mag.Stylist Nadia Lionello
Assistente Nicole Marnati

Efrem Raimondi for INTERNI magazine

Specchi:
Galileo by Mario Ferrarini per Living Divani,
Shimmer by Patricia Urquiola per Glas Italia,
Christine by H.Xhixha & D.O. Benini – Luca Gonzo per Fiam,
New Perspective Mirror by Alain Gilles per Bonaldo,
Archipelago by Fredrikson Stallard per Driade,
Stone by Sante Cantori per Cantori.

Sedute:
Mammamia by Marcello Ziliani per Opinion Ciatti,
Winston by Rodolfo Dordoni per Minotti,
Rapa by Studio Mentsen per Zillo Aldo & C,
Lido Out by This Weber per Very Wood,
Odette by Carlo Trevisani per Al Da Frè,
Clipperton by Marc Sadler per Gaber.

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Parametro Pupo

Ho fotografato Pupo. Lo dico alle lectio appena finita la proiezione del mio lavoro intorno alla figura umana, convenzionalmente detta ritratto.
Tra tutte le persone che ho fotografato, nella circostanza è l’unico nome che cito.
Perché è un parametro perfetto se intendi fare ritratto.
Ci sono cliché e postulati sul ritratto tutti frutto di una serie di equivoci.
Almeno per ciò che mi riguarda.
In primis che sia un ambito chiuso, la cui essenza e cifra espressiva si misurano con la capacità dell’autore di restituire l’anima del soggetto.
Bene…
Tu guardi Pupo. Ma vedi me.
Quindi di che anima stiamo parlando?

Non ho mai pensato di fotografare la persona, qualsiasi persona, con la presunzione tipica del ritratto: non   c a r p i s c o   un cazzo!
Una presunzione pericolosa. Perché più che in ogni altro ambito fotografico riduce la dialettica iconografica entro il recinto del genere. Ed è facile crollare.
Lavoro. Ed è un lavoro che coinvolge tutti i sensi che hai.
Ciò che si vede è solo un abbaglio: è ciò che non si vede, è lì che lavori. Lì che risiede la tua cifra espressiva.
Stiamo facendo Fotografia…
La cui dialettica non ha restrizioni: o è così o per me non è Fotografia. L’unica cosa che mi interessa produrre.
Ci provo. E qualche volta ci riesco.
Sai che mi frega del Ritratto!
Altrimenti in Pupo non mi sarei mai riflesso.
E al massimo avrei potuto restituire una didascalia.

L’ho ritratto nel 2006, in partenza per non ricordo quale posto impronunciabile dell’ex Unione Sovietica: se usassimo la presunzione del ritratto, se usassimo la nostra presunzione estetica, musicale in questo caso, restituiremmo ciò che non ci riguarda.
Invece l’intento è di restituire qualcosa che ci riguarda intimamente.
Detesto chi fa calcoli in fotografia.
E si risparmia perché la persona che sta ritraendo non corrisponde al suo circuito… Culturale? Estetico? Morale?
Quella faccia lì, quella che poi mostriamo, è la nostra!
Porta la nostra firma…
Qualcuno mi dica perché dovremmo certificare così banalmente i nostri limiti espressivi…
Invece la faccenda è molto più semplice. E ha a che fare con la complessità di Pupo.
Ed è qui che ti devi fermare.

Qui, per andare oltre la didascalia di genere.
Qui, disintegrando il paravento della privacy.
Qui, e non hai alibi.

Tutto è possibile. Con chiunque se davvero comunichi.
Una qualità dialettica direttamente proporzionale alla fotografia prodotta.
Anche nella divergenza. Anche quando c’è scontro.
Anche quando ciò che fa il soggetto che ti tocca non ti riguarda.
E anzi, più non ti riguarda più la fotografia che produci deve essere roba tua.
Anche per questo Pupo è perfetto.
Amo l’immagine che ho restituito. Una di quelle che amo di più.
E questo affetto è davvero gratis. Perché a prescindere da qualsiasi aspettativa.
Che poi, altro errore capitale: avere delle aspettative.
Le fotografie si producono facendole.
Non pensandole. Non parlandone.
Nel ritratto è quando hai la persona davanti.
Il prima, con tutte le sue sovrastrutture, e il dopo con tutte le promesse non mantenute, contano zero.
Non conta chi hai ritratto. Non è una questione di tacche e quante più persone famose hai mirato più sei figo. Forse per la vanagloria mediatica, solo per questa, ha un valore.
Ma in Fotografia conta solo il come.
E chi hai davanti in quel momento è tutto.
Io avevo davanti Pupo.
Sei tu.
Sono io.
Sono felice di averlo ritratto.
Dovesse succedere a te, cosa faresti?
Non chiedertelo. Fallo.

Pupo by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved

Fiumicino. Hilton Rome Airport Hotel, dicembre 2006.
Quando collaboravo con Grazia magazine.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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leggero

 

Leggero…
Si può fotografare una fanciulla di diciassette anni?
Anche se sei punk? – voce fuori campo.
No. Se sei punk solo brandelli di vita sderenata.
Oh! Sai quando hai l’impressione di essere inattuale…
Lo sai?
Ma quale impressione, è proprio così.

Solo che me la godo tutta questa divergenza.
E la ribadisco ogni volta.
Ma non c’è ostinazione, nessun artificio: non so fare che sempre la stessa fotografia.
Anche quando è mossa. Sempre la stessa.
Stai invecchiando: l’hai già detto – voce fuori campo.
A me tutte ‘ste voci fuori campo…

Ma se ho ancora tre anni!
Fa’ una roba: pensa al trend e lasciami crescere.
Che la strada è infinita.

 Maddalena by Efrem Raimondi

Maddalena by Efrem Raimondi

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Maddalena… mossa: assolutamente diciassette anni.
Milano, maggio 2016.

Make Up, Laura Stucchi
Tubino ”vecchio Armani di mamma”.

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Instagram terapia. Giovanni Picchi interview

 

Giovanni Picchi by Efrem Raimondi - All Rights Reserved

           Giovanni Picchi, aprile 2016. © Efrem Raimondi – All Rights Reserved           

Giovanni Picchi e io ci conosciamo da una quindicina d’anni.
Forse di più. Dai tempi dell’agenzia Grazia Neri.
Co-fondatore dell’agenzia LUZ Photo, che mi rappresenta, ha un rapporto diretto con la produzione fotografica da un ventennio.
È persona solare, lo stimo molto, e nutro del vero affetto nei suoi confronti.
Tutto ciò non è per nulla scontato, soprattutto se è di fotografia che parliamo.

Un bel giorno sul suo account Instagram vedo la sua faccia, diversa… un selfie si direbbe, che mi fa letteralmente saltare dalla sedia: rasato e dimagrito, modello punk… solo è evidente che non può essere.
Gli scrivo e poi lo chiamo.
Chemio…

E tutto quanto a seguire. Più o meno all’inizio di quest’anno.

Ho cominciato a monitorare – il termine è esatto – la sua produzione Instagram. 
Per accorgermi a un certo punto che stava facendo un percorso fotografico su sé stesso. Senza chiamarlo Progetto
In mezzo a tanta produzione confusa e inutile, manieristica e brutta, questa ha per me un senso. 
Che è terapeutico, ma anche fotografico.
A me interessano entrambi.
Ed è il motivo per cui siamo qui.
Gli ho chiesto se gli andava di parlarne usando la formula dell’intervista: sì.
Allora la pubblico integralmente.

Insieme abbiamo fatto anche una piccola selezione delle immagini che ha pubblicato sul suo account Instagram.
Non aggiungo altro a riguardo: dall’intervista emerge tutto.

Prima di attaccare il registratore, l’ho ritratto.
Non potevo evitare… è sempre da lì che parto. Per tutto.
Quasi tutto…
Poi abbiamo mangiato una zuppa di lenticchie gialle.
Una signora zuppa, con curcuma e zenzero.
Quindi, Play

ER – Partiamo dall’inizio: la cosa che mi ha scosso guardando il tuo account INSTAGRAM è che il tuo rapporto con l’immagine, la fotografia per meglio dire, a partire da un momento preciso è cambiato. Violentemente direi. E coincide con l’approccio terapeutico alla malattia… ci puoi dire cos’è successo, o per meglio dire, cosa ti è successo per aprire pubblicamente il tuo sguardo rispetto a ciò che stavi, e stai, affrontando?
Giovanni Picchi – Dunque… questa è la seconda recidiva della malattia…
Possiamo dire di che malattia si tratta?
Assolutamente sì. È un sarcoma, un tumore quindi, la cui prima manifestazione è stata nel 2001, avevo 28 anni, e l’ho vissuta tenendomi un po’ dentro questo problema. Forse anche perché era ancora un periodo in cui la parola tumore, cancro, non si esprimeva con grande facilità e poi…

Scusa Giovanni, allora ti eri comunque posto il problema di esternarlo e hai fatto una scelta di chiusura o… anzi diciamola tutta: ti eri posto il problema di usare un medium come la fotografia per esternare il percorso clinico e personale, o no?
No, assolutamente no. Proprio non ci ho minimamente pensato.
Ne erano a conoscenza soltanto gli intimi.
Diciamo che però la malattia è tornata in maniera importante lo scorso autunno e lì, visto il ritorno, ho fatto la scelta di cambiare approccio… ho proprio deciso di esternarlo.
Perché?
Be’ intanto c’è da dire che a causa della malattia, della sua ricomparsa in questa forma più aggressiva, ho deciso di cambiare tanti approcci della mia vita… perché questa è una recidiva… la malattia che ritorna… in qualche modo ce l’ho dentro, non l’ho mai tirata fuori e quindi… insomma non posso dire con certezza che questo suo ritorno sia dovuto al fatto che io non abbia esternato, ma è certo che ho sentito fortemente il bisogno di sputarla fuori.

Perché hai deciso di usare la fotografia?
Perché mi risulta più semplice… c’è da dire che ho iniziato con l’idea di fare un diario personale, a partire dal primo intervento che è stato l’ottobre scorso, ma non con l’intenzione di pubblicare… pensavo che mi servisse per guardarmi un po’ dentro… e anche fuori.
Poi quasi come un processo di maturazione e precisazione di un percorso che ho ritenuto subito terapeutico, ho deciso di buttare tutto fuori, di esternare. E quindi Instagram e il social network più in generale.
La fotografia è immediata… e poi è la forma di comunicazione che più mi appartiene pur non essendo un fotografo… sono vent’anni che lavoro con la fotografia e di fotografie ne vedo proprio tante, quotidianamente… la fotografia mi piace e mi piace farla amatorialmente e per una volta ho pensato che volessi usarla, proprio usarla in prima persona.

©Giovanni Picchi - All Rights Reserved

Sfogliando questo tuo album ho immediatamente pensato a due cose.
La prima: pur usando uno strumento come l’iPhone ed essendo tu stesso autore e soggetto, non ci troviamo di fronte al selfie tradizionale. Sembra tutto più prossimo all’autoritratto, che è strumento di un’indagine più intima.
La seconda, in qualche modo più importante se si intende fare fotografia, e cioè che la ragione, il cosiddetto perché, è davvero una reductio ad unum: raccontare la propria storia.
Ed è esattamente l’esigenza primaria per chi fa fotografia. Indipendentemente dal soggetto.
Quando hai iniziato col diario, ti sei posto dei limiti e una eventuale meta, o hai semplicemente fatto e poi si vedrà… una sorta di work in progress così com’era, senza alcuna pianificazione…
No, non c’è stata alcuna pianificazione.
È iniziata per documentare il primo intervento chirurgico, poi si è delineato quello che sarebbe stato il percorso terapeutico, inclusa della chemio piuttosto pesante e lì, proprio a partire da lì osservavo il cambiamento fisico della persona. Che volevo documentare, anche a scopo terapeutico dove per terapeutico intendo proprio la volontà di esternare il mio cambiamento…
Scusa se ti interrompo: ha un destinatario questo percorso iconografico che hai deciso di rendere pubblico?
Direi di no… poi sai, per come tecnicamente funziona il social network… per esempio ho evitato hashtag particolari per andare a raccogliere all’esterno di quello che invece è il mio network. Quindi forse se un destinatario c’è è proprio una precisa cerchia di persone.
Dalle quali ricevo una energia positiva…
In che modo?
È proprio nel principio della comunicazione, nell’esigenza direi primaria che ho di raccontare l’esperienza che sto vivendo. Anche attraverso il cambiamento della mia persona, del mio fisico, della mia immagine più immediata. E sapere, avere testimonianza del fatto che c’è chi raccoglie… che poi non è la pacca sulla spalla, ma proprio il fatto che davvero c’è qualcuno che intercetta questa mia esigenza di esternazione. Già solo questo mi aiuta e mi fa stare meglio.

Dunque… la prima volta che si è manifestato il tumore avevi ventotto anni e non hai pensato neanche lontanamente di esternare un bel niente. Adesso ne hai quarantatré e l’atteggiamento è opposto. Una sorta di estroversione… Trovi che questo passaggio brusco sia positivo? Ma anche pensando a una terapia più ampia, non conclusa insomma in quella medica…
Assolutamente positivo, non fosse altro che a differenza di allora non ho alcun problema a parlare del mio problema… non ho nessun problema [ride] non ho vergogna. A differenza di allora, che però ero molto più giovane e forse va messo in conto.
Be’ certo, anche perché non si può certo trascurare che in qualche modo questa attualità può avvalersi della precedente esperienza, quella nella quale ti sei rifugiato in una comprensibile introspezione e nel silenzio
Ecco appunto, adesso so che il silenzio non ha fatto bene. Non in termini assoluti chiaramente, non voglio generalizzare: so che non ha fatto bene a me

Vedo distintamente il percorso del tuo Instagram… adesso, proprio adesso andando a memoria: un percorso piacevole, lineare, le vacanze… e quelle con un chiaro intento fotografico: tutto piacevole… tutto compreso direi simile ad altri, di quelli con gusto e senza strappi. Poi, me lo ricordo bene, improvvisamente uno shock… tu rasato con gli occhi piantati nell’obiettivo. Ti ho telefonato
Sì ricordo. Io abbastanza disinvolto a parlarne e tu un po’ rigido
Davvero in questo non c’è come la fotografia… uno shock.
Derivato anche dalla conoscenza diretta della persona che vedevo e che non lasciava alcun dubbio… non ho pensato insomma a una improvvisa nostalgia punk.
Ecco, da quel momento il tuo Instagram ha una cifra precisa, che non comprende praticamente altro… sì ogni tanto compare qualcosa, ma è come sfumato, risucchiato da una nuova e netta centralità: il tuo rapporto con questo tumore di merda… dove ti porterà? Fotograficamente intendo, fin dove ti spingerai? Dove deciderai di interrompere?
Anche perché molte immagini sono piuttosto forti.

Ipotesi splendida: decorso positivo, tutto risolto e fine del diario?
Cosa succede a questo percorso fotografico?
Ehhh… in realtà non ci ho pensato. Adesso è difficile pensare a questa ipotesi splendida che tu tratteggi [risate robuste] perché il percorso sarà piuttosto lungo. Be’, può essere sicuramente uno start per continuare a raccontarsi in maniera molto diretta, senza eccessive mediazioni. Questa recidiva, che è certamente più tosta dal punto di vista clinico, e proprio l’aver pensato a un certo uso della fotografia, come dicevo prima anche terapeutico nel modo più ampio, che cioè coinvolge l’interezza della persona, la mia vita e gli atteggiamenti, questa recidiva dicevo mi ha dato l’opportunità di riflettere su molte cose. E di cambiarle. Quindi non escludo affatto che anche in assenza della malattia possa avere un seguito. Come, in che forma, non sono in grado di definirlo adesso. Quello che so è che adesso, questo percorso fotografico, questa tranquillità nell’esporlo, mi fa bene.
E mi fa davvero bene. Perché il fatto di raccontare, senza voler essere necessariamente new age, mi restituisce un’energia positiva che mi serve molto.

Non c’è assolutamente un uso esibizionistico del social network… parlo di qualcosa di profondamente vero… e forse è il pretesto per raccontarsi, un modo di mettersi in gioco per ciò che realmente si è.
La malattia, per me, è una opportunità di cambiamento e se si riesce a viverla così forse… forse anche questo è parte del percorso della guarigione.

I tuoi figli hanno accesso al tuo account?
No. Ma puramente per una questione anagrafica, sono ancora piccoli…
Quindi non hanno mai visto queste immagini…
No… però mi vedono di persona! E devo dire che l’atteggiamento di condivisione ce l’ho anche con loro: mi vedono esattamente così, cambiato a seguito di questa malattia e delle cure che sto affrontando.
Sì vero Giovanni, però un conto è vederti in camicia e in movimento, un conto è vedere alcune delle immagini che hai pubblicato… la staticità, fermezza descrive meglio, della fotografia amplifica l’impatto emotivo
Certo, però da questo sono protetti, non hanno accesso ai social network.
E non credo che abbiano un altro modo di vederle, tipo l’amico dell’amico… no, non credo proprio. Comunque se dovesse accadere non credo sarebbe traumatico proprio per come anche con loro ho affrontato questo percorso clinico…
Ma anche per quello che potrebbe riguardare la mia famiglia, sinceramente il problema non me lo sono posto, perché fa parte prorprio del voler buttar fuori… è insomma davvero un fatto terapeutico che mi fa stare bene. E che quindi serve così com’è

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Più in generale dal punto di vista fotografico, in questo percorso c’è stato un qualche riferimento o no?
No, alcun riferimento… sai, poi è tutto iniziato come diario, come una raccolta di istantanee e quindi mi fotografavo pronti via… senza neanche pensarci troppo
E c’è una cadenza? Da cosa è determinata?
I momenti terapeutici a partire dall’intervento chirurgico, prima e appena dopo. Poi durante i vari cicli. E assolutamente post ciclo, perché è il momento di maggiore caduta fisica e psicologica… poi sai, c’è anche l’effetto accumulo e mentre i primi cicli li reggi meglio man mano diventa sempre più pesante. E a pensarci è proprio in questo apice che diventa per me importante documentare… mi aiuta davvero molto

Non è possibile prescindere dalla conseguenza del gesto… l’immagine che ti viene restituita, la tua immagine, ti aiuta?
Mi aiuta sì. In consapevolezza… però c’è anche da dire che a volte c’è l’effetto sorpresa perché in fondo conservo ancora una memoria del me precedente… insomma un certo effetto straniante…
Quasi ci fosse una distanza della quale prendi davvero consapevolezza nel momento della restituzione dell’immagine?
Sì, un po’ sì pensandoci adesso. Però mi serve molto perché mi certifica una attualità rispetto alla quale devo rimanere molto vigile.
Anche perché la sto prendendo un po’ come una battaglia…
In effetti perdonami, alcune tue immagini sanno di ”guerriero” e a proposito: hai anche qualche t-shirt con in mezzo la tua dichiarazione di guerra: #attack

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[ride di gusto] Sì sì… quella con l’hashtag me l’hanno regalata i colleghi, poi una dai cugini e altre… è diventato anche un gioco divertente tutto sommato. È una vera battaglia insomma, e come in tutte le battaglie occorre avere una certa lucidità… e forse guardarsi restituito ha anche questo scopo: non perdere di vista l’obiettivo
Prima ti ho ritratto… molto tranquillamente, niente computer tutto in macchina. Però le immagini le abbiamo guardate sul display, non abbiamo evitato, e soprattutto non hai evitato tu. Immagini dirette, qualcuno potrebbe anche dire violente… tranne i mossi le altre hanno una certa coerenza con alcune tue, eppure guardandole hai avuto un sobbalzo che ho avvertito istantaneamente e mi ha sorpreso: cos’è è successo? Cosa cambia rispetto ai tuoi autoritratti? Di fatto stiamo parlando di immagini parenti…
Bah… sì vero, ho avuto un sussulto… ma forse perché come dicevo rispetto alla memoria che ho di me… insomma non sempre sono così agganciato all’attualità… o forse è un po’ l’effetto specchio perché mentre mi sto fotografando con l’iPhone mi vedo e mi concentro forse di più sullo scontro col tumore e anche quando prima si diceva del guerriero, non escludo che un po’ di recitazione ci sia da parte mia. Mentre quando mi hai fotografato tu non avevo alcun controllo
Ma può essere che mentre ti stai ritraendo, tu trascuri alcuni elementi che al momento reputi marginali? Se ci penso ti focalizzi molto sul tuo sguardo… mentre l’immagine poi è tutta quanta, tutto dentro quel perimetro. E a proprosito dello specchio, sinceramente penso che sia una autoriflessione parziale, perché quello sguardo sembra invece essere rivolto a qualcuno o qualcosa che è altro, che è esterno
Ma in effetti rimanendo sulla metafora della battaglia, mi è chiaro che nella circostanza io tendo a caricarmi, a darmi maggiori munizioni nell’affrontare il nemico che ho di fronte. E che però è anche dentro. Tu sei l’unico che mi ha ritratto, non ho precedenti, forse anche questo…
D’accordo l’immagine del guerriero e la metafora della battaglia, comprendo perfettamente… esagerando un po’ una figura epica e …
Be’ a me piacciono molto i Supereroi, così nella letteratura… così mi sono anche divertito a usare certe magliette, che però indossavo anche prima… Credo che consciamente o anche no, affiancarsi all’immagine dell’eroe in qualche modo mi aiuti a combattere questa battaglia

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Ti sei mai posto il problema della reazione di altri, estranei allo stretto giro che ti appartiene, e che magari potrebbero essere inclini a pensare a un atteggiamento voyeuristico?
Francamente non è questo e quindi non mi sono mai neanche posto il problema

Se sfogliamo le pagine nobili o per nulla della fotografia, ogni tanto incontriamo autori/autrici che si sono ritratti in condizioni poco ortodosse diciamo, con l’intento di interpretare il proprio malessere restituendo immagini inclini all’autocommiserazione.
Invece guardando le tue immagini non trovo alcuna interpretazione del malessere, e anzi è l’esatto contrario: l’interpretazione di un combattimento
Assolutamente sì per quello che mi riguarda. Io cerco il positivo di questo percorso
Io però voglio scavare un po’. Alcune tue immagini sono violente.
O forti se vogliamo usare un eufemismo… e un conto è produrle, un altro pubblicarle. Davvero non ti sei mai posto alcun problema?
No… sinceramente no. Ribadisco poi la convinzione di rimanere entro i confini del mio network, che è fatto di conoscenze dirette
Questa perdonami è un’illusione. Le immagini circolano liberamente in rete…

Allora diciamo che non ho ricevuto alcun ritorno da parte di altri, di persone insomma con le quali non ho rapporto diretto. Però nell’eventualità non avrei alcun problema ad affrontare la questione.
Quindi no, non mi sono mai posto il problema

Così d’emblée: come trovarsi di fronte a un bivio… se uno decide di raccontare sé stesso, a questo livello, lo fa senza schermo alcuno. Altrimenti diventa solo la parodia di un racconto.
Può essere che proprio la criticità della condizione abbia sciolto qualsiasi ritrosia da parte tua? In fondo è come oltrepassare un confine avendone piena coscienza. E controllo. Anche di fronte all’estremo di certe scelte iconografiche ci si autolegittima, indipendentemente dal grado di accetabilità, sociale in generale ma dei social in particolare. A me sta bene eh… solo per capire
Anche a me sta bene… se posso dire mi starebbe bene anche da fruitore. I social network sono strumenti un po’ omologanti, è proprio nelle regole: se il 50% pubblica ciò che mangia anche io mi adeguo. Nulla da scardinare, però da fruitore mi piacerebbe vedere qualcosa di più sincero, diretto e anche umanamente coinvolgente.
In che misura secondo te questa produzione ha una valenza fotografica? Ti interessa che l’abbia? Perché oltre qualsiasi discorso, una scelta estetica l’hai fatta
Mah… in un certo senso mi interessa anche… nella misura che si diceva prima e cioè di uscire da una certa omologazione, da certi cliché, anche comportamentali nei confronti della fotografia sui social. Però non c’è altro… non ricerco consenso.

Tu sei co-fondatore di Luz Photo, e hai una abitudine professionale all’immagine. Questa tua produzione, che non ha nessuna pretesa se non quella di riguardarti intimamente, è secondo te in qualche modo in conflitto con la tua figura professionale?
No… non c’è conflitto… a me la fotografia piace e mi piace farla anche se non sono un fotografo. Sono una persona di questo tempo e con questo tempo mi misuro… uso la fotografia, questa fotografia per ottenerne un beneficio. E poi per me è un tutt’uno… non vedo conflitto con la mia figura professionale… anzi direi che c’è coerenza.
Vediamo e produciamo tantissima fotografia anche inutile e…
Ecco qui scusami ti interrompo perché se no dimentico una cosa per me importante. Forse vediamo e produciamo tantissime fotografie e poca fotografia. Spesso ciò di cui sento la mancanza in ciò che vedo, forse anche superficialmente ammetto, è il gesto: vedo bei compitini – ma anche no – assolutamente privi di gesto. Come rimanere sempre a una distanza dalle cose, da ciò che accade.
Forse abbiamo anche perso il soggetto, cioè noi e ciò che intimamente ci riguarda e che poi dovrebbe essere il vero motivo per cui si fotografa.
Qui vedo invece una persona che si appropria davvero della propria soggettività e la traduce con un linguaggio che gli appartiene…
Che mi è famigliare… sì, in qualche modo è così

In alcune tue immagini noto un certo cinismo, proprio nel trattarti e mi riferisco a quelle che almeno a me hanno immediatamente evocato la morte, poi per pudore possiamo tutti far finta che non è così e non se ne parla…
No, parliamone
Per esempio quel video che sembra quasi un GIF animato, nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna col sottofondo del Requiem di Mozart… più che una modulazione ironica mi è parsa cinica
Vedere la morte e raffigurarla è anche un modo per esorcizzarla… sai, saperla sempre presente e non vederla perché si nasconde… insomma se la vedi ne prendi una immediata consapevolezza e provi a difenderti, in qualche modo rapportandoti
Questo cinismo, o meglio, una certa saltuaria rappresentazione cinica, in qualche modo mi ha evocato una dialetticca con la morte, una dialettica per nulla evitata
Ne ho semplicemente preso atto. Del resto la trasformazione fisica, un certo deperimento, questo asciugarsi… insomma un’immagine sinistra, indubbiamente. E allora questa dialettica che dici è stata inevitabile: se lei, la morte, si nasconde ma è presente, voglio stanarla… far finta, nascondermi a mia volta, non è utile alla causa.
Poi ci sono circostanze casuali… per esempio mi sono trovato davanti a La vita e la morte di Klimt e mi sono messo in mezzo… un gesto che ritengo semplicemente ironico

Stai in qualche modo didascalizzando, anche? Non so, alcune immagini le sento decisamente più intime e tue, altre, forse le più facili, mi sembrano più a uso esterno, rivolte a altri mi viene da dire
Non c’è una premeditazione, però sì, è vero. Questa di Klimt certamente lo è. Quelle che invece mi appartengono intimamente, come dici tu Efrem, sono quelle relative ai momenti di solitudine, in genere post-terapia, quando sono lì da solo un po’ a rimuginare, con però la determinazione a resistere… vale sempre la metafora bellica. Se mi viene detto, come mi è stato detto, che la settimana post chemio è quella nella quale ci si lascia un po’ andare, non si ha voglia di far niente, anche perché oggettivamente indebolito, ecco questa è la settimana nella quale lotto di più. Proprio per evitare…
Un fattore reattivo insomma
Assolutamente sì

Ci sono due aspetti di questo percoroso INSTAGRAM… di quello terapeutico abbiamo detto. C’è poi un fatto di linguaggio estetico che tu comunque non trascuri. E che io riconduco a una matrice espressiva punk: diretta, non leziosa, di glam manco a parlarne… insomma con un suo peso specifico. Secondo te Giovanni, potrebbero queste immagini fare testo a sé? Cioè indipendentemente dalla malattia…
Ma in effetti anche questo, moderatamente ovviamente. Però se vuoi il percorso clinico è stato anche questo: cioè l’opportunità di affrontare in prima persona un’altra fotografia, e di misurarmi anche da questo punto di vista sulle mie intenzioni espressive… intorno a una questione che mi riguarda profondamente.
Volendo esternare con l’immagine, ho dovuto necessariamente farmi carico anche del modo espressivo.
A ben pensarci il motivo iniziale è terapeutico, poi però ho cominciato a immaginare che potevo avere in mano anche un qualcosa con una valenza iconografica… che avesse una certa coerenza

Ultima domanda: perché hai accettato questo confronto, qui sul mio blog?
Be’ innanzitutto perché quando ci siamo sentiti le cose che mi hai detto, poche ma chiare, ho sentito che proprio mi riguardavano e riguardavano quello che sto facendo sia di fotografico e anche come gesto diciamo poco consueto. Per quanto esiste una ricca letteratura a riguardo, cioè di protagonisti di storie simili che ne scrivono e parlano pubblicamente, più o meno come sto facendo io. E poi mi interessava molto sia parlarne sia essere fotografato da te, da un’altra persona con una visione diversa, esterna.
E sento già esserci un beneficio, un momento di arricchimento di questo mio percorso di vita. Perché è di vita che abbiamo parlato, e per questo ti ringrazio molto.

Milano, aprile 2016
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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So che ho dimenticato di chiedere qualcosa.
E forse Giovanni di rispondere.

Questo lo scrivo adesso. A due anni di distanza…
Giovanni ci ha lasciato. Stamattina.
Lunedì 21, presso la basilica di Sant’Eustorgio, Milano, il saluto.
Alle 9.
Un grande dolore. Non aggiungo altro.

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