Street Photography a chi?

Street Photography…
Di quando eravamo ignoranti.
 Per strada.
E non sapevamo che stessimo facendo Street Photography.
Quanto eravamo ignoranti…

Ci consola, un po’, il fatto che non lo sapevano neanche i Robert Frank, i Cartier Bresson, i Weegee – più strada della sua! – e tutta quella compagnia lì, randagia, zingara e precisa come il bisturi di un chirurgo. Intenta a fare Fotografia.
Incluso Eugène Atget, al quale Wikepedia mi pare, attribuisce la paternità. Della Street Photography. Amen.

Non m’interessa occuparmi delle denominazioni. Non in questo caso.
Non m’interessa quando la motivazione è formale e il neologismo sembra mosso dalla necessità di puntualizzare una distanza artificiale.
Frutto di un intellettualismo puerile, scolastico.
Frutto di un’esigenza commerciale.
Dettata da un mercato, quello dell’arte finanziata – spesso non coincidente con quello dell’Arte – che ha la necessità di sdoganare i prodotti di un’epoca fastidiosa e inattuale: quella della carta stampata.
Quando tutta questa fotografia si chiamava reportage.
E per quanto nobile sia il prodotto, la denominazione soffre dell’equivoco che la vorrebbe dedita alla documentazione.
In questo subordinata ad altre esigenze, più cognitive che espressive.
Una fotografia utile e basta.

Personalmente sono affascinato dall’inutilità delle cose.
Un po’ come dell’inutilità dell’uomo e del suo instancabile produrre.
Questo come postulato. Ideologico direi.
Poi, immischiandomi un po’: ma chi l’ha detto che Caravaggio è inutile?
Sì certo, forse per qualche ministro di questa repubblica…
E sporcandomi un po’ entro nel dettaglio per dire che l’utilità in Fotografia non è mai la discriminante.
Non lo è neanche la sua collocazione di genere.
Lo è solo la sua potenza espressiva. Indipendemente da ciò che rappresenta.
Da ciò che arbitrariamente impone.
E tu autore, chiunque tu sia, possiedi l’arbitrio per fottertene di qualsiasi denominazione?
Non si tratta di esporre. Si tratta di imporre.
La differenza tra esprimersi e emulare.
La differenza tra l’usare un linguaggio e farne la parodìa.
Questa è l’unica cosa della quale dovremmo preoccuparci.
E magari capire che la cosiddetta posa, cioè la percezione inequivocabile che il soggetto ha di noi, lì per lui che lo stiamo mirando, non rende la fotografia borghese.
O come ho sentito recentemente classica – magari! Provaci tu a diventare un classico!
Mentre se non si capisce un cazzo e tutto viene preso a randellate di flash allora è underground.
Quando stiamo fotografando, in quel momento lì, tutto il mondo è in posa per noi.
E ci tiene a una restituzione degna di una rappresentazione.
Se così non fosse non avremmo uno straccio di fotografia.

Le due fotografie sotto, realizzate con una Tri-X tirata a 800 ASA sono del febbraio 1982 e febbraio 1983, quando consapevolmente ingenuo girovagavo accompagnato spesso da una fotocamera 35 millimetri.
È stato un periodo utile al fine del ritratto che cominciavo a immaginare e che da lì a poco ho affrontato.
In banco ottico.
Ero timido con le persone. E l’idea di piantar loro addosso un obiettivo mi terrorizzava.
Ma la figura umana volevo affrontarla.
Il ritratto volevo affrontarlo.
Stare per strada, o comunque in luogo pubblico, è stata una palestra.
Uscivo con due ottiche: un 20 e un 35 mm.
Perché mi costringevano ad avvicinarmi.
A sentirla proprio la persona. Percepirne la fisicità.
A volte con la fotocamera puntata partivo da un po’ lontano e mi avvicinavo.
Dritto come un tram alla sua fermata.
Era fondamentale che mi vedesse distintamente.
Nessun equivoco: ce l’avevo con lui.
Lui il soggetto, lui al centro della scena, lui che  a quel punto mi distingueva bene.

Non scattavo finché non ero sufficientemente vicino.
E col suo sguardo in macchina gli dicevo: La sto fotografando… sia gentile, mi guardi, mi guardi bene.

Scattavo solo quando avevo la consapevolezza che non stessi facendo uno scatto.
Ma che avevo davvero qualcosa di simile a una fotografia. A quello che pensavo fosse una fotografia.
Che è anche la storia di una relazione.
A volte non dicevo assolutamente nulla.
Ma alla fine due chiacchiere si facevano sempre.
In assoluto non è così importante. Relativamente al percorso che stavo impostando, alla mia palestra di strada, lo era.
Comunque sia, i fotografi non rubano niente. Semmai ammazzano.

©Efrem Raimondi, 1982 - All Rights Reserved

©Efrem Raimondi, 1983 - All Rights Reserved

Mi resta solo un rammarico.
Del signore ritratto in treno, che mi guarda così, non ho saputo più niente.
Com’è nell’ordine delle cose.
E se non avessi scartabellato nel mio archivio, giusto per vedere cosa combinavo un po’ di tempo fa per strada, non avrei neanche la sua fotografia.
A questa ci tengo.
E ce l’ho.
Matrice solida.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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57 thoughts on “Street Photography a chi?

  1. Alla domanda di Efrem do la mia risposta (in ritardo): sono due bellissime fotografie, nel senso che prima di tutto sono buone e poi anche belle. Anche se la mia preferenza va nettamente alla prima. Abbracciano un genere piuttosto che un altro? Mi sembra poco interessante saperlo.
    Lo stesso non lo posso dire dei tanti esempi visti nella discussione. Grandi lavori di ricopiatura nella gran parte dei casi e senza accendere mai il cervello. Addirittura quelle a colori su flickr sembrano quasi tutte scattate dalla stessa persona (con le dovute eccezioni). Ma la cosa che più mi fa pensare è che nel 99% delle foto scattate in strada è costante la presenza dell’essere umano. E’ così necessario? Eggleston, uno che in strada ci ha passato la vita (e se qualcuno in più si prendesse davvero la briga di studiarlo e vedere come lavora ne avrebbe tantissimo da guadagnare), ne ha fotografate pochine di persone. Eppure la sua fotografia abbraccia anche questo genere (e non solo) e anche se adesso, grazie al digitale e agli smartphone, è un fiorire di epigoni (col cavolo avrei sprecato pellicola per fotografare banalità, cartacce a terra, pali della luce) mantiene intatta tutta la sua forza.
    Perché la presenza umana? Perché il barbone per forza? Il cane che salta addosso al padrone per forza? Il tizio ripreso dal basso con la fotocamera sulla pancia per non farsi vedere che vi ha visto invece, lo si vede dal suo sguardo per forza? L’ubriacone per forza? La tizia che mangia il gelato per forza?
    Certo in sua assenza molti non potrebbero bullarsi del loro “manico”. Ma questo forzato andare a braccetto non mi è mai piaciuto. Però funziona sempre e non solo in questo caso. Reportage significa quasi sempre guerra, sangue, morti ammazzati o storie brutte e a livello grammaticale orizzonte perennemente e precariamente storto, grana finta stile tri-x, grandangolo. Storytelling (che genere orrendo) significa quasi sempre tante locandine di brutti film (americani) o pessime serie tv (americane), luce ambiente (poca), digitale piatto, chirurgico, asettico.
    E questo brusio più o meno chiaro che sento da anni quando si parla di fotografia con il flash? Probabilmente la più geniale invenzione legata alla fotografia (il flash), che i fotoamatori non capiranno mai (per fortuna mi viene da dire). Weegee, con il grande formato, lo usava.

    • NNNNAAAA… quand’ero un ragazzo sostenevo che il flash no. che la mia luce era ambiente. in realtà semplicemente non sapevo come si usava. poi…

  2. Vilma, sono d’accordo con questo “riassunto”… e mi piace una parola in particolare: “caso”. Nella street ci si lascia affascinare dal caso e chi ha una buona capacità di improvvisazione riesce ad afferrare il famoso momento decisivo e far vedere una realtà possibile (e/o fotograficamente possibile), mediata ovviamente dalla sua sensibilità. Non dico che nel reportage non ci sia spazio per la serendipità, ma se vogliamo fare un discorso ben preciso (l’approfondimento su un tema deciso a monte) magari diventa qualcosa di fuorviante.
    La differenza, poi, è per me rintracciabile (nelle foto meglio riuscite, ovvio) nel momento in cui si lascia all’osservatore una grande libertà interpretativa, senza che sia guidato da testi e contesti.

  3. Lorenzo, ricondurrei il discorso alle origini, sintetizzate nella domanda di Efrem: “le due fotografie che pubblico, cosa sono?”. Questa la domanda retorica, quella criptata è: “E tu autore, chiunque tu sia, possiedi l’arbitrio per fottertene di qualsiasi denominazione?”
    Appropriato il modo in cui fai slittare l’idea di fotografia a quella di reportage fotografico, individuandone i punti chiave: qualcosa di scritto, altre immagini affiancate…. la fotografia non deve necessariamente essere sola. Va benissimo se vogliamo codificare cosa si intende per ‘reportage’, “un genere fotografico che fornisce informazioni e si occupa d’indagare e documentare vari aspetti della realtà, sostituendo alla parola scritta la sola forza comunicativa delle immagini [……] riprese singolarmente in maniera analitica, e assemblate al fine di costruire un discorso unitario e sintetico.” (dall’enciclopedia Treccani alla voce reportage http://www.treccani.it/enciclopedia/reportage_(Enciclopedia-Italiana)/
    Ma la domanda su cui discutiamo ci obbliga a definire parallelamente cos’è la street photography, questa sconosciuta.
    Storicamente legata alla nascita delle macchine fotografiche portatili e all’epoca digitale, si potrebbe accostare alla cultura di strada ed a quella hip hop degli anni ’80, con qualche legame ideologico con il writing (depurato della carica eversiva di un movimento che è e vuole restare illegale!), tutti fenomeni culturali estemporanei, irripetibili, con la comune intenzione di uscire dalle righe e recuperare, con l’uso di strumenti basici ed in circostanze non preordinate ma casuali, un linguaggio iconico non celebrativo, spontaneo, un ‘qui e ora’ di episodi anche insignificanti, con un suo risvolto sociale perché focalizzato sul mondo delle persone comuni e sulla banalità del quotidiano, veicolando il messaggio puramente semiotico dell’immagine.
    Prima di tutto, dici, la street photography non prevede didascalia, non porge chiavi interpretative verbali, e questa è una differenza.
    Invece per il fatto che, dal punto di vista delle regole percettive, “linea, contorno, colore, rapporto luce/ombra, struttura compositiva ecc.” siano il passepartout per decifrare ogni immagine e si possano applicare sia al reportage che alla street, che a un quadro di Caravaggio, che ad un manifesto pubblicitario, non ci aiuta, se cerchiamo differenze e non analogie.
    Rispetto al reportage, che documenta una presenza ‘in medias res’ nel tempo reale di un evento di risonanza collettiva, la street photography ferma un’esperienza individuale, la visione istantanea di un frammento temporale entro il quale il fotografo si trova per caso e non alla ricerca della notizia o dello scoop.
    Ciò potrebbe essere una integrazione della tua distinzione tra approfondimento e superficialità dei due generi?
    E può bastare per segnare una divisione? È una differenza oggettivamente rintracciabile o è soprattutto nella testa del fotografo, che vuole affermare una propria specifica identità culturale?
    Ad inquinare la riflessione: credo che ci ricordiamo tutti di una celebre foto “Le baiser de l’Hôtel de Ville” di Robert Doisneau, street photographer ante litteram casualmente seduto al tavolino di un bar, due innamorati che si baciano, sullo sfondo una folla indifferente in movimento e un’infilata di palazzi con effetto flou…… un ‘attimo fuggente’ bugiardo, falsificato, costruito in un’immagine melensa e manieristica commissionata da Life, che per qualche tempo ci ha abilmente ingannati. La confessione dell’autore ha scandalizzato pubblico e critica, ma, dopotutto, Doisneau non ha fatto altro che mostrarci ciò che ha visto in un certo istante guardando con un occhio solo in un obiettivo e tenendo la testa ben ferma.
    Come fa qualunque fotografo, street photographer, reporter, sincero o bugiardo che sia……

  4. Ciao, Vilma!
    La garanzia (minima) per l’osservatore finale potrebbe essere l’assenza di una didascalia, oltre forse una data e un luogo. Un po’ poco per farsi un’idea. Spesso nel reportage un qualcosa di scritto ha anche più importanza della foto stessa. Dà una chiave interpretativa che può farti cambiare totalmente opinione su quel che vedi. (È una sorta di instabilità percettiva “opzionale”?) Son d’accordo che l’involucro sia il contenuto, a volte. Se però ci affianchi altre immagini con una logica, una frase scritta… mi pare che ci spostiamo verso il punto in cui l’involucro si fa pretesto per messaggi più articolati, che non siano un “qui e ora” in forma armonica. Non tutta la fotografia è fatta per stare da sola! :)
    Per quel poco che conosco Kant: mi pare di ricordare che le categorie avessero un’accezione positiva, non angosciante. Dedicando meno tempo agli sforzi “meccanici” si potrebbe avere più tempo a disposizione, che so, per essere curiosi. Non giurerei sulla fondatezza della cosa. :)
    Se cerchiamo “linea, contorno, colore, rapporto luce/ombra, struttura compositiva ecc.” la possiamo trovare benissimo in una foto di street e in una di reportage, e magari anche su un manifesto pubblicitario. Affascinante anche che esistano immagini dove la didascalia (o meglio: una chiave interpretativa visiva) è parte integrante della foto, solo che arriva in seconda o terza lettura.

  5. anche la mia era una risposta retorica :)
    la risposta ‘seria’ te l’ha data Lorenzo, forse anche lui facendo un po’ di ironia ……

    • ma era una domanda retorica, per me, che non ha poi così importanza collocarmi. anche se una vaga idea, nello specifico, ce l’ho. proprio di massima eh, mica esageriamo vilma :)
      mi interessava invece il punto di vista di chi fa street.

  6. Lorenzo, personalmente ho qualche dubbio sul fatto che la differenza tra reportage e street photography la faccia l’intenzione del fotografo, in un caso privilegiando ‘l’approfondimento’, nell’altro la ‘superficialità’ dell’approccio.
    O meglio, quand’anche ci sia questa diversità intenzionale, credo che sia inutile, che non ci sia nessuna garanzia che l’osservatore finale possa coglierla e tradurla in una diversità del messaggio visivo.
    “prediligere a volte più l’involucro che il contenuto” secondo me è impresa impossibile, perché nel linguaggio visivo l’involucro è il contenuto, né potrebbe essere altrimenti in un sistema di codici non verbale, così come, secondo me, l’instabilità percettiva che la foto di street dovrebbe suscitate non ha niente a che vedere col ‘tema’, ma col ‘segno’ o, come dici anche tu, col ‘come’ e non col ‘cosa’, il tema può venir letto da ciascuno in modo diverso trattandosi di un contenuto concettuale, il segno ha concretezza reale: linea, contorno, colore, rapporto luce/ombra, struttura compositiva ecc. sono gli unici mezzi di comunicazione quando si parla di visione.
    “l’occhio innocente è cieco e la mente vergine è vuota” ci dice Kant, una tabula rasa vagamente angosciante sulla quale l’uomo costruisce il proprio senso del mondo guardandolo con un occhio sempre antico che seleziona, interpreta, elabora, classifica, non rispecchia.
    E non si chiede se sta guardando una foto di street o di reportage, mi spiace per Efrem, la sua domanda non ha risposta.

  7. Se vogliamo cascare nella trappola della classificazione: sono ritratti. Ho come l’impressione che lo sfondo sia stato fotografato più come ricordo geografico che come complemento. :) Se poi t’hanno lasciato anche delle buone sensazioni addosso son anche utili, più come esperienza che come rappresentazione. Per finire: sono fatte in spazi pubblici e quindi sono decisamente Street! ;-)

  8. Secondo me perché gli stilemi della street son derivati dal reportage. Ma l’approccio, appunto, può esser differente… E magari non viene percepito, per limiti dell’autore o del fruitore. Spero solo che se vedi una buona (qualsiasi cosa voglia dire) foto di street tu ne possa godere quanto per una di reportage. :)

    • ah ma puoi starne certo! forzo il limite ogni volta che intercetto Fotografia. indipendentemente dall’etichetta e dal manifesto… mica ci penso io alle dichiarazioni d’intento :)
      tant’è che mi capita di pescarne – anche recentemente – nella cosiddetta street a mia insaputa ;)

  9. Per me la ridefinizione è utile quando cambia l’approccio verso quello che si fotografa, quindi il “come”. Ho provato a spiegare cosa intendo nel post di prima. Non vorrei sembrare troppo quadrato o irretito nelle definizioni, ma qualche differenziazione e non solo di ambito (reportage sociale, di guerra, antropologico, di eventi, ecc.) può giovare alla comprensione del perché una persona decida di fotografare una certa cosa in un certo modo.
    Il senso del limite (e magari il suo superamento) è utile secondo me averlo, finché ovviamente non diventa un’imposizione (o un’autoimposizione) che limita l’espressività di chi fotografa. Altrimenti tutto è reportage, quindi niente lo è… ed ha poco senso anche fare questa macrosuddivisione.
    Certo, il risultato finale è quello che comunica, che emoziona, che lascia indifferenti, ma un approccio differente influenza in prima istanza l’autore e da lui deriva, quindi la matrice espressiva potrebbe risiedere in buona parte qua, oltre al fatto di saper reagire di fronte all’incontrollabile. Di solito, chi fa reportage ha bene in mente un approfondimento… parola che mi pare più adatta di “racconto”.
    Continuando ad attingere dal letterario: è meglio una poesia o un romanzo? chiaramente è una domanda che ha poco senso porsi, ma uno spartiacque a monte c’è.
    D’accordissimo sul fatto che sia inutile scannarsi sulla definizione se poi quello che è il risultato finale risulta sterile. Ben venga quindi la contaminazione e la trasversalità di genere, basta che in chi scatta ci sia un po’ di consapevolezza che con approcci diversi si possono (è una possibilità, non un’equazione) avere risultati diversi e tutti ugualmente validi.
    Non mi addentro nel rapporto esporre-imporre vuoi perché, come dici tu, lo spazio è un po’ angusto, vuoi perché sull’interpretazione cosciente della “realtà” e sul legame (in estrema sintesi) fra uomo e mondo sono stati scritti fiumi di parole a cui personalmente sento di non poter aggiungere niente. Ciò nonostante sono argomenti che affascinano, da sviluppare magari in altre sedi.
    Grazie mille a te del confronto!

    • il fatto è questo Lorenzo: nella sostanza di ciò che scrivi sono perfettamente d’accordo. anzi, spesso mi sono espresso in modo simile. su qualcosa anche coincidente. e sulla diversità dell’approccio, anche qui, sono d’accordo. l’approccio appunto.
      insomma in generale ciò che dici mi trova piuttosto allineato.
      ma com’è che ciò che vedo, ciò che percepisco girovagando per fotografie denominate street, mi riconduce con lieve modulazione, a seconda, alla fotografia di reportage? questo è il mio problema. forse il mio limite. tutto qui

  10. Salve Efrem, a quel che ho capito dall’articolo ti stai interrogando sulle definizioni di reportage, di street, di quanto possano essere assimilabili e quali siano, se ci sono, le differenze, per poi “concludere” che di fronte a una potente capacità espressiva non c’è definizione che tenga. Un ottimo punto di partenza per far riflettere chi fa questi “generi” di fotografia e su quanto abbia da dire, ma anche sul come lo dica. Ok, provo a dire la mia: a me piace fotografare per strada o in spazi pubblici, quindi rientrerei nel genere street… e mi va bene. Le categorie vincolano, ma aiutano anche a capirsi, se non prese troppo rigidamente. Specialmente poi quando si parla di reportage, dove possono serenamente convivere foto (tanto per scomodare ancora le etichette) di still life, ritratto, ambienti, ecc..
    Per me cosa muove il fotografo di reportage è spesso l’approfondimento, il cercare un legame con quel che fotografa e quindi la produzione di una storia, personale e articolata, cercata e sviscerata, anche se dovesse essere “solo” la conoscenza di un estraneo. Della street invece (mi) attira l’aspetto opposto; la superficialità, se vogliamo, il non dovere entrare necessariamente in contatto con quel che si fotografa e prediligere a volte più l’involucro che il contenuto. Pigrizia? Timidezza? Spinte probabili. Ma anche il contrario: nella street c’è spazio (e considerazione) per la performance, la velocità di esecuzione e pure per la sfrontatezza con cui si approcciano certe scene e certe persone.
    Se da un lato il reportagista si muove per tradurre un’idea in immagini, chi fa street prova a “ricevere” – quindi senza imporre, se non a livello istintivo – una scena e restituirla in una qualche forma più o meno gradevole, rappresentando qualcosa di non necessariamente pregnante o funzionale a un discorso, ma di possibile.
    Ricerca della sintesi, del significativo istantaneo più che di trama e legami. Tentativi di sublimazione della realtà, più affini alla rappresentazione pittorica che al discorso giornalistico/letterario, dove mi pare che il reportage sia più a suo agio.
    Altro interessante stilema della foto di strada è il provare a suscitare in chi guarda un’instabilità percettiva (niente di nuovo nelle arti visive, ma comunque affascinante), insinuare un dubbio “organico” sul rapporto occhi / cervello, su come verrà visto e interpretato ciò che è dentro il fotogramma. In un reportage non credo sia di fondamentale importanza.
    Grazie per la riflessione!

    • buonasera Lorenzo. innanzitutto grazie per la riflessione. poi… più che altro mi sto chiedendo il motivo di una ridefinizione. nel senso che personalmente non colgo le differenze che tu sottolinei. anche perché il reportage è vero che parte da un’ipotesi di racconto, ma ugualmente può condensare in una sola immagine un’intera storia. che per quello che mi riguarda resta patrimonio espressivo dell’autore.
      la denominazione “racconto” è in parte fuorviante. e fa intendere che debba necessariamente avere un incedere discorsivo. ma è esattamente come nella street. solo che viene denominato “progetto”.
      insomma penso che ci siano più reportage. la street è uno di questi. che si rinomina.
      quanto alla convivenza di ritratto, still life, ambiente e qualsiasi altra eventuale connotazione di genere, diciamo così per capirci appunto, direi che equivale sulla sponda street: la presenza umana non è di per sé ritratto, come gli oggetti still life o i luoghi fotografia di ambiente. poi… il rapporto esporre-imporre è complesso. meriterebbe uno spazio altro rispetto a questo. ma comunque su tutto, il motivo di questa mia riflessione è dettata dalla preoccupazione che la ricerca della definizione, e del genere, qualsiasi esso sia, stia inquinando sia la riflessione che la Fotografia realmente prodotta.
      ci vorrebbe un sacco di spazio. e tempo. ma davvero ti ringrazio per la tua chiarezza

  11. inorridire a fronte delle catalogazioni o servirsene come stampella sono facce della stessa medaglia.
    Quella che conta è l’autenticità del proprio lavoro, le parole vengono dopo… molto dopo, e anche fra loro ci sono significati e scatole vuote.
    Grazie per l’articolo, ciao!

  12. Pingback: street photography, equazione del nulla? – fotoreportando

    • letto. non è possibile commentare credo… per cui: in linea di massima condivido. soprattutto l’ultima parte.
      però ci tengo a dire, a ribadire, che certi cortocircuiti non sono esclusiva di alcuni “manifesti”. e che per me la questione è giusto il pretesto per tentare una possibile dialettica. per andare oltre. non una messa al bando tout court

  13. Una lucidissima analisi. Bellissime le due fotografie: dicono molto di te e delle tue proiezioni future. Chissà che contorcimento gli streeter ahahahah…

    • credo nessun contorcimento Francesco. mica me la prendo con loro o con la street. puntualizzo solo due robette. che in fondo sono più ampie. almeno nelle mie intenzioni.
      quanto alle mie proiezioni non saprei. certo che più o meno è da lì che sono partito

  14. Mi sembra che gran parte del dibattito si articoli attorno alla definizione di “street art” o “street photography”, cosa sia, se differisca da qualcos’altro, se la definizione le vada stretta, se è opportuno confinarla in un club ecc.
    Chissà se lo stesso problema si è presentato quando la pittura degli impressionisti è stata definita “en plein air”, dipingere all’aperto era una novità, bisognava darle un nome….. o forse no, non era così nuova, non era forse la Monna Lisa di Leonardo la prima pittura en plein air?
    Personalmente concordo con il fatto che sia difficile e forse sbagliato cercare di limitare fenomeni trasversali come l’umana creatività in categorie, ma se qualcuno non avesse parlato di street photography questa discussione non sarebbe possibile, dopotutto, la categorizzazione delle informazioni è un processo cognitivo del nostro cervello, ci aiuta ad imparare, ragionare, discernere ed ottimizzare le notizie sul mondo che ci circonda.
    Tenendo presente che, essendo il linguaggio una convenzione, il rischio è quello di creare degli stereotipi che hanno origini culturali e che sono tuttavia inevitabili.

    “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”: è solo un nome, la rosa è altro, street photography è solo una definizione, se vogliamo, possiamo chiamarla Andrea.

    • la street qui e per me è di fatto solo il pretesto per altro. le definizioni appunto, vilma.
      ciò che a me sembra è che un nome ce l’aveva già questa fotografia. rinominarla mi sembra non tanto un processo ulteriormente cognitivo, ma un tentativo di fusione del nostro cervello

  15. Qui o si è confusi o si fa confusione artatamente. Dunque la fotografia di Street, maiuscola oblige, deve mostrare l’attimo fuggente, mettiamola così. Senza didascalia, senza testo e ci potrebbe pure stare se non fosse che lo “stilema” è quello del NULLA di matrice anglosassone. Di chi vive, forse, ma in loculi scambiati, nientemeno, per Metropolis alla Fritz Lang ante litteram. Attaccato al pari di flebo ad uno schermo-ombelico materno, cui recidere è controproducente alla giostra degli acquisti. E se Steve Jobs proibiva l’Iphone ai suoi pargoli, qualcosa di vero ci sarà. Ma non è qui sede.
    Ora che la fotografia, tout court, deve/debba fare a meno delle stampelle del linguaggio curiale (scrittura) è decisamente auspicabile, lo diceva pure Ernst Haas. Resta da capire quale sortilegio fa si che la “strre” conservi le stimmate, essere universale, quando ci sono scaffalature di NULLA che pure maledicono (sono scritturali onanisti incalliti e falliti ma non si dica in giro) ancora la fotografia e sua pretesa di “universalità”.
    Un caso il Miliziano di Capa? Il soldato di E. Smith che tiene in mano un bambino deceduto? Il salto dell’acqua di HBC…. E via enumerando. Forse per R. Barthes, principe del “foro” onanista “accidente”.
    No lo “street” è parto moderno del NULLA (Carpe diem trota gnam) una società più che post moderna, post mortem, dove non ce ne po fregà de meno: io scatto. Asseriscono. E si capisce è ‘bbne si no te futt’ alla Pino Daniele, dicono, così i michiapixellisti a tutto spiano non meno di quei con “mano lesta”.

    Ps. Michia + pixel che più calembour non si può, neologismo coniato e ritrovabile a “piene mani” sul Diario internauta che scriviamo da cinque anni in qua.

    • Manunzio! ma sei un fiume in piena!
      molto sinteticamente: sul nulla inteso come no testo a parte data e luogo – se proprio – sarei d’accordo anch’io. poi dipende dal contesto. o dalla destinazione d’uso per dirla meglio. ma questo vale per TUTTA la Fotografia. non è prerogativa di qualcuno insomma

  16. La forma, quella la metti tu, consapevole che non possa essere una sola, anche se in tanti lo vorrebbero. Qui sta il punto: oggi con il termine street photography si vorrebbe omogeneizzare, creare un pensiero unico, oltre il quale non puoi e non devi andare. Ecco, dunque, spiegate le regole e i codici visuali che tanti accettano come vangelo. I soliti tips sui blogs, le solite idee, il come fare street photography. Poi magari ti dicono pure che la street photography parla dell’esperienza del fotografo in strada, ma questo non è applicato quando si ripetono pedissequamente clichè e formule create e sfruttate da altri. E certamente una street photography più semplificata fa comodo a tanti, anche se poi ci dovrebbero spiegare il perchè delle tante differenze e soprattutto della personalità dei vari Klein, Moriyama, Leiter, Friedlander, Shore. Teniamo presente che qualcuno non contento del termine street photography andò oltre in un eccesso di megalomania e ci appiccicò davanti la parola hardcore. Ecco, il ricorso alle etichette, proprio quelle mal digerite da Garry Winogrand, rivela pochezza di idee e soprattutto una tendenza al conformismo, che se da una parte è innata in molte persone, rivela parte dei problemi oggi fomentati dal web. Si dice bene, dunque, a dire che la street sia qualcosa strettamente connesso alla personalità e all’esperienza del fotografo in strada, ma oggi con il dilagare dei gruppi su internet, stiamo assistendo ancora di più ad una ripetizione/riproduzione continua, priva di identità, pedissequo ricalcare cose dette e viste da altri.

  17. Grazie Efrem ! Non mi sento così autorevole ma sono contento di risponderti ;) Per come la vedo io ( e da ora in poi smetto di fare questa premessa perchè vale per tutto quel che dirò ) l’approccio alla post è lo stesso del reportage ! Ridotta ai minimi termini..quello che si faceva in camera oscura e poco più, la post eccessiva è mal vista. L’ideale è riproporre quello che era nel mirino al momento dello scatto. Si tratta sempre di una realtà mediata, una fotografia è una porzione di realtà estrapolata dal tutto fermata nel tempo con uno strumento capace di farlo, ma è in quel momento che va fatto, non dopo. In questo credo che la street contemporanea sia rimasta ai suoi primi maestri come HBC. Ti rispondo anche alla domanda successiva..che immagino sia : Ed allora quale è è la differenza col reportage ? La didascalia, il titolo, e la descrizione ad esempio. La foto “street” non ne ha bisogno, deve essere in grado di parlare da sola. Infatti di solito sono foto singole, a volte anche il reportage ha questa capacità di sintesi, ma in genere una sola foto non può raccontare una storia, il mezzo non consente di avere abbastanza informazioni. Nella street la storia che la foto ci racconta è un’esperienza personale, ed ognuno la vive e la interpreta diversamente a seconda del proprio background culturale. Ci sono molte altre differenze, ma non mi dilungo perché anche definire cosa è il reportage oggi è cosa ardua..ciaoo

    • Roberto… tutte le fotografie dovrebbero essere in grado di parlare da sole. solo che non è il postulato di un qualsiasi manifesto che le rende autonome

  18. Una volta c’eran di quelle, donne di strada. Altro che lucciole per lanterne. Poi son venuti gli artisti, di strada alla Fellini suppongo. Poi il cibo di strada: ‘na botta in bocca e via. Altro giro altra prova, e mica dirsi friggitoria che is out and not in. Mc Donald’s proteggici tu. Precotti uber alles.
    Poi certo, fu coniata di zecca amerikana (k come killer di Costa Gavras) la Street photography. In mezzo ad una strada di tante Metropolis, o meglio loculi a cielo aperto. E sarà il Carpe diem la
    Street photography opposta, e non solo semanticamente, al road e sua cultura? Un modo come un altro per “fare” click clik casomai pure “bello” e più ancora la “bella” foto da award. Je e schitt’ lu cuan’ (slang per dire io e il cane) che è la cifra. Mordi e fuggi via, omologati, allineati e coperti.
    E pensare che una volta, tanto tanto tempo fa come nelle fiabe, il Reportage (entarto in linga inglese con altre vagamnte o forse no latinegiante) bastava ed avanzava anche solo ad una solo foto, casomai à la sauvette. More or less candid camera. E dietro c’era pure un pensiero, pensa te, prima dello scatto.
    Sia come sia, avanti con i buoi e non a caso tutti a inzuppare il “biscotto” certi calembour: come si dice in Yankee language: playng word? Siamo tutti fotografi ‘ncoppa ‘na via, e con le digitali, no? No.

  19. Sprovveduto..? Tu ? Nooo..se ti ho dato questa impressione mi sono espresso male ;)
    A me non importa nulla se una foto è staged oppure no, non la apprezzo di più o di meno per questo motivo, basta però che lo sappia. Penso che sia un forma di rispetto verso lo spettatore ma anche verso gli altri fotografi che magari stanno un pomeriggio ad aspettare che una cosa succeda, invece che metterla in scena. Il gioco è questo, costruire è un pò come barare, tutto quà. Nel gruppo che ti ho postato le immagini sono importanti, ma relativamente, di più lo sono le circa 3000 discussioni che in 10 anni di esistenza hanno contribuito attraverso il confronto, a formare una visione, o se preferisci un’estetica di riferimento più o meno condivisa. Non è fotografia commerciale e come hai ben detto non ha nessuno scopo, se non quello di gratificare chi la fa. In più fino a ieri era un “genere” di nicchia in cui la prima preoccupazione era quella di ricevere critiche costruttive e migliorasi. Oggi questo approccio è superato dal fatto che essendo divenuta commerciale, soffre di tutte le derive tipiche della massificazione, si tende a derogare sulla qualità, si cerca di far passare l’idea che è facile, che tutti possono farla che basta avere la macchina giusta o scegliere il workshop con il migliore sul campo etc etc.. Ragionamenti più complessi, come quelli che esponi invece necessitano di una consapevolezza artistica difficile da raggiungere in poco tempo.
    Come farlo e con quale forma dici ? Non ho una risposta che vada bene per tutto e tutti, così come non credo in un’ideale di estetica assoluto ed immodificabile nel tempo. Bisognerebbe cercare sempre di migliorarsi credo, di produrre immagini che stupiscano ed il rischio in questo senso se vuoi è la spettacolarizzazione fine a se stessa, ma il fine ultimo è la formazione di uno stile personale, riconoscibile possibilmente… ci vuole tempo ed esperienza..cosa che tu sicuramente hai da vendere.. Per cui massimo rispetto per la tua visione anche se per tua fortuna sei fuori dal giro degli streetari e quasi ti invidio per questo :D

    PS : se ti vuoi fare un’idea più precisa iscriviti ad HCSP e mandacela la tua foto sul barbone russo, te la metto nelle discussioni, così vedi che cosa succede..magari può essere divertente ;) ciaoo

    • per chi fa fotografia l’icona è tutto. da lì poi se ne parla. mi fa piacere Roberto che ci siano fotografi, fotoamatori, didatti, e tutti quanti gli addetti ai lavori che riflettono su ciò che stanno facendo. oggi più che mai. quindi ben vengano i luoghi di riflessione.

      però più ne parli più mi sembra di confrontarmi col reportage. che assolutamente non c’è niente di male. è la questione della ridefinizione che facevo prima.
      tu fai parte del collettivo InQuadra. del quale ho avuto il piacere di vedere il lavoro un paio di settimane fa al PHIFEST milanese. e di partecipare alla discussione che è conseguita. altrettanto piacevole. quindi sei persona auterovele… non ti importa se una fotografia sia staged o no. ma vuoi che si sappia. perché la messa in scena non è ammessa. e questo per una questione di onestà. di etica. legittimo. e anche questo mi ricorda il reportage. uguale mi vien da dire. e allora ti chiedo: qual’è il rapporto con la postproduzione? m’interessa davvero capire

  20. Aloha Efrem ! Cosa è street e cosa no e se esiste o meno è un dibattito tutto italiano in cui alla fine sei caduto pure tu ! ahahah ! Occhio perchè è un campo minato ed a queste latitudini è tutta una gara a chi ce l’ha più lungo e duro ! Personalmente anche se faccio questo tipo di fotografia ( e la chiamo pure così, sorry ! ) quel che più mi interessa è evitare foto banali, scontate , trite e ritrite, brutte copie di foto di grandi meastri del passato riproposte fino alla nausea. E’ questo che comunemente viene inteso come “street photography” da chi si affida wikipedia per capirci qualcosa ed a me personalmente annoia. Quello che ci si dimentica spesso di dire è che prima di tutto la street photography ha alle spalle una vasta comunità di fotografi che la pratica e che ama il confronto e la critica ed è sempre diffidente se non ostile nei confronti del nuovo arrivato che scopre che all’improvviso le sue foto sono diventate “strit”. Non esiste una definizione che metta d’accordo tutti , così come non c’è via facile per fare buone foto. L’unico modo è metterci impegno, passione e non dimenticarsi che street photography vuol dire soprattutto fallimenti ( Alex Web dice che ne salva 1 su 1000 ) e selezione. Poi ci sono varie consuetudini che chi più chi meno ritiene “accettabili” L’unica cosa non ammessa per quanto mi riguarda è la posa, ma non perchè è borghese, semplicemente perchè lo voglio sapere se una foto è costruta oppure no e la street io la considero “candid” , non “staged” insomma.

    PS : Del concetto di “classico” magari ne parliamo con più calma… Intanto se vuoi ti invito a buttare un’occhio qui. E’ il gruppo Flickr di cui ti parlavo e dove sono tra i moderatori…ciao

    Peaz&lov

    https://www.flickr.com/groups/onthestreet/

    • no dai Roberto, do l’idea di essere così sprovveduto? :)
      dico che il mondo si mette in posa ogni volta che si alza la fotocamera, e tu, perdonami, mi costringi tra le strette mura di una definizione?
      anzi, di una ridefinizione. ma l’ho scritto, detto… perdonami la presunzione, lo faccio: la trasversalità dello sguardo non ha confini invalicabili. il più è fare Fotografia. oltre la vastità di qualsiasi comunità. sarai d’accordo spero.
      ora, non so se le due immagini che ho pubblicato sono candid o staged… ma è così importante? lo chiedo eh?

      ho sfogliato il gruppo flickr – per quello che mi è permesso non essendo registrato. ho visto cose che mi interessano e altre no. ma questo è un problema mio.
      però ho anche visto un intero mondo in posa. facciamocene una ragione ;)
      ciao!

  21. Per me si tratta di uno dei migliori articoli scritti a proposito di street photography e dell’approccio che avevamo rispetto a quello che si è imposto oggi come moda e fenomeno di ‘collocazione’ per tanti fotografi in cerca di identitù e soprattutto del voler entrare a tutti i costi in un club. Ricordo bene quando per noi si trattava solo di reportage. Ricordo bene, si stava meglio e ci si concentrava sull’essenza e il contenuto.

    • non so se sia così valido Alex. anche perché in realtà, come noti, il tentativo è di andare oltre.
      all’essenza e al contenuto dobbiamo, credo, dare comunque una forma. quale? come? questo è un punto per me importante. e credo lo sia sempre stato per molti.
      così almeno mi pare. poi…

  22. mi ha sempre salvato la voglia di conoscere, ho sempre chiesto a chi volevo fotografare se potevo ma solo dopo averci raccontato reciprocamente di come eravamo finiti li…..io per cercare una foto loro per raccontarsi a chi si fermava a chiedere.

  23. Forse il prendere a randellate la gente (col flash )può essere un modo per sgaiattolare da quella responsabilità che viene dal sapere che quello/a lì è lì per noi. Proprio noi. È un po fuggire dalla responsabilità di ciò che ci viene restituito , accettarlo o magari adattarlo a quello che si vuole dire. Così io urlo, ti randello. Veloce. Un millimillimilli nano secondo autofocus , gesto e via. Come puoi fare questo con un banco dove il mondo si dilata , sei lì col peso addosso di sto sguardo che poi magari scappa e vallo poi a riprendere . Chiaro che se sei abituato ad esprimerti con un certo linguaggio , quella cosa lì la fai anche con L iPhone , rallenti comunque. Non è meglio o peggio, Non è un giudizio , al limite dico mi piace non mi piace, ma credo che la randellata ( di flash) sia proprio figlia del tempo attuale, veloce, urlato. Anche la randellata , purtroppo lo è. Che sia di luce o no.

    • ma vedi Claudio, non è col flash che ce l’ho ovviamente. e ci sono immagini che apprezzo molto. è che pensare che basti questo per essere underground…
      significativamente alternativi…
      ed è vero, hai ragione, a volte sembrano solo urla fastidiose. insomma: si ha coscienza di ciò che si fa? o è solo un mordi e fuggi col bottino…

    • devo tornare molto indietro nel tempo Ale. cioè a quando fotografavo persone per strada. una produzione piuttosto limitata comunque.
      ho il ricordo di qualche rifiuto. raro a dire il vero. ma in questo caso evitavo.
      ah! a dire il vero non è esatto… mi viene in mente che proprio quest’anno mentre stavo facendo un lavoro in esterno, girandomi e un po’ lontano da dov’eravamo noto una signora anziana. elegantissima. seduta su una panca. e l’ho puntata come descritto – è stato come tornare bambino. lei mi ha detto che non voleva, che non era più tempo. le ho risposto che capivo il suo negarsi. che era così anche per me. il tutto con una nikon abbassata. mi ha sorriso e m’ha detto: faccia quello che vuole. giuro. ho capito che in fondo non era così tassativo il suo rifiuto. quindi l’ho ritratta

  24. non mi è ben chiaro il concetto dei fotografi che ammazzano. Nel caso specifico mi pare che la Tua sia più una “resurrezione”…

    ciao

  25. Ingabbiare la Fotografia in un genere trovo sia un errore madornale. Che possa aiutare a indicizzarne il contenuto può essere vero, ma è puramente convenzionale. Per il resto, con più ci penso, con più mi convinco che hai ragione. La fotografia è una cosa che attraversa trasversalmente la vita ed è fortemente e fondamentalmente soggettiva così come lo è la sua definizione e il suo godimento. In qualche modo la fotografia è sempre un documento di se stessi e di come si vede e si vuole rivelare qualcosa. Si documenta sempre in qualche modo la relazione tra l’autore e il soggetto. Ma la figura che prevale è l’autore, non il soggetto. Il soggetto mi appare sempre di più come il mezzo che veicola un esperienza espressa attraverso la Fotografia.
    Almeno che la fotografia sia emulativa, nel qual caso potrebbe essere un bell’esercizio ma poco a che che fare con quello che anche io cerco.
    In questo senso ti devo ringraziare Efrem, perché è anche grazie al confronto con te che credo di aver capito quello che voglio ora.

  26. Ci sono sguardi che lasciano il segno, durano un istante ma restano eterni lì, ad interrogarci, muti eppure così eloquenti. Mi piace molto il signore del treno. Buona giornata Efrem :)

  27. eh già , le catalogazioni e le definizioni servono solo a chi non sa fare e non ha un io da esprimere e ai critici ( che poi uno diventa critico perché non è capace di essere ciò che critica) !!
    Se hai qualcosa da esprimere non ti importa come lo fai , e non hai bisogno di dire : ” io faccio street ” o ” io faccio ritratti ” , ma più semplicemente fai quello che non potresti evitare di fare , magari in modo trasversale alle catalogazioni .
    Bellissime le foto !

    • più o meno così, federica.
      sui critici e la critica in genere esistono però dei distinguo. non è indispensabile fare fotografia per rifletterne. quello che credo importante è che i fotografi, soprattutto i giovani, si prendano il tempo per farlo

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