Piano Americano – DUE, ottobre 2002
Bigino da combattimento sulle convenzioni del ritratto.
Mi piace ripetermelo: raramente una bella immagine è l’immagine di qualcosa di bello.
Dico ripetermelo perchè tanto poi a esserne fautori non si è mica così tanti: in una assemblea di addetti ai lavori, magari dal tono annoiato che non guasta, tutti pronti a levare la mano… ma poi, non appena ci si distrae dal trend (quella cosa che si insegue come un aperitivo o una inaugurazione… lo stesso) ecco le levate di scudi.
Finché si parla d’altro va bene, ormai tutto è stato digerito e vomitato. Ma col ritratto no. Soprattutto col proprio, che se non è edulcorato a puntino non lo si riconosce.
E lo si rispedisce al mittente.
Il problema della riconoscibilità diventa un fatto di dignità, di passaporto per l’immagine: è il problema della memoria, della relazione tra noi e il ricordo di noi stessi.
Il ricordo di noi stessi… un’icona inviolabile e inalterabile. Una roba simile al look.
Primo punto sostanziale: chi se ne frega.
Non ritraggo con la demagogica presunzione di restituire una memoria che non mi appartiene: io racconto la mia storia.
E la memoria è la mia.
Con tutto il resto funziona: col paesaggio urbano e non, con la moda e lo still-life, persino col food, il formaggio svizzero e le famiglie dissestate inglesi. Con le tentazioni pedofile.
Col reporatage, quello colto e un po’ saccente, tanto incline alla lacrima e alla miseria.
Si è disposti a tutto col resto, a ubriacarsi d’immagine e stracciarsi entusiasti le vesti e far finta che va tutto bene e che ci piace la minestra.
A comando ci ficchiamo in code chilometriche per la visione de La Dama con l’ermellino, quella leonardiana o di chiunque altro. Ce ne stiamo umili in saio pronti alla rivelazione del ritratto. Sicuri che così sarà.
Secondo punto sostanziale: così non è.
Il ritratto rivela solo all’autore, che è l’unico a goderne nell’essenza.
Le popolazioni che temevano il furto dell’anima operato dalla fotografia avevano parzialmente ragione: l’anima resta dov’è, nella stessa sede, solo che è quella di un altro.
Ma non si tratta di una deriva inconsapevole: è una scelta imprescindibile per chiunque usi un linguaggio, a discapito anche delle convenzioni grammaticali e dei riti sociali.
Per questo la fotogenia è un’idiozia, un concetto vuoto, perché ha a che fare con la gradevolezza, che è puro fatto mediatico.
Il linguaggio è altrove.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Nota: questo testo è stato la traccia di due conferenze, la prima nel 2003 a Savignano sul Rubicone in occasione del Festival Foto, la seconda a Milano alla Fondazione Forma in occasione di Fotografica 2009.
Oggi l’ho manipolato per questa di occasione, ma il concetto è lo stesso: la fotogenia non esiste!
Polaroid 55. Riproduzioni di RX.
Però questo non è un piano americano.
assolutamente lo è! trasla… e lo vedi
Meraviglioso Efrem!!!!
Sto leggendo il tuo blog come un libro…………….. partendo dal basso……. come si leggono quei libri che vorresti non finissero mai, stillando pagine e parole…
e mi fa bene, credo faccia bene alla fotografia, in questi tempi oscuri dove forse il prodotto delle immagini è solo e davvero, purtroppo, lo specchio di ciò che siamo diventanti… non ci inrcazziamo più, siamo troppo “perfetti”, forse troppo post prodotti…
Vanessa – forse troppo post tutto…
ma sono certo che ce la faremo.
very nice.
nice report…
“raramente una bella immagine è l’immagine di qualcosa di bello”, leggendo il tuo articolo e gli interventi qui sopra, si, qual’è il concetto di bello? bello per chi ritrae o per chi guarda il risultato? bisogna andare oltre alla “bella immagine”? spesso ritoccata per darle lustro, parlo per le riviste, attrici, modelle perfette, con una pelle perfetta, che poi nella realtà non sono così…perché allora questa smania di farsi ritoccare falsamente? dare un’immagine falsa di sé?
l’immagine e la realtà, che sta in mezzo a chi sta per essere ritratto e chi sta per ritrarre. la finzione e la verità.
a me piacciono i ritratti spontanei, rubati. I ritratti in posa non sono studiati, quindi finti?
io poso molto, concedimi il termine: ti sembra roba finta?
no, non sembrano finti…mi riferivo alle immagini che si vedono sui giornali, ma forse ho errato…immagini sulle riviste, le “dive” ritoccate, ecc. questo intendevo.
mi piacciono i ritratti quando esce fuori il personaggio, Sakamoto è uno sballo! quando riesci a tirare fuori il suo essere, il suo io, questo si che mi piace!
leggi questo se ti va:
http://www.nikonclub.it/forum/index.php?act=attach&type=post&id=107739
tutto decisamente interessante… sul tema del ritratto la riflessione è oggi più che mai d’obbligo. per diversi motivi, anche evidenziati da altri interventi.
esiste luisa, certamente un gioco delle parti: chi sta di qui, chi sta di là dalla camera. sull’autoscatto sto elaborando un percorso che esclude una delle due parti, chi sta di qui, cioè chi aggiusta la mira. ma in fondo non cambia molto, una regia c’è. più o meno consapevole, ma un autore, un responsabile al quale imputare esiste.
tornando al tradizionale, il fatto che ci siano almeno due protagonisti, non fa sì che giochino alla pari. né che il risultato sia condivisibile fifty fifty. appena “rivelato” il ritratto in questione, diventa libero di viaggiare ovunque, e di assoggettarsi alle interpretazioni più disparate. e in questo non credo che il copratagonista abbia alcun privilegio, alcun diritto di prelazione insomma. può o no riconoscersi, può o no piacersi. ma in quella foto c’è indubbiamente lui. mediato non solo da altro occhio, ma proprio da un sistema di codici che potrebbero essere totalmente estranei. per chiarezza, se mi avesse ritratto bacon, non mi sarei potuto aspettare che un bacon. va be’, lasciami forzare un po’.
Concordo, totalmente.
Forse non era chiaro, ma, a rafforzar la vita propria di un’immagine, io introducevo il terzo soggetto, il lettore dell’immagine. Lui, decisamente più della persona ritratta, si fa coautore dell’immagine, qualsiasi essa sia. Per questo escludo che l’unico ad esser rivelato è sempre e solo l’autore, anche nell’ipotesi, che condivido, che il fotografo racconti se stesso tramite l’effige di un altra persona; tanto, che piaccia o no, dipende anche da chi legge. Occorre, nel fotografare, considerare anche ciò che arriverà a chi guarderà la fotografia. Accettando, con umiltà, con divertimento, con disappunto, ciò che si suscita nel lettore, che naturalmente avrà del suo da introdurre. Questo in fondo credo sia una caratterstica di ogni comunicazione e diventa tanto più rilevante quanto più si perde quel rapporto biunivoco tra significante e significato più tipico della parola e che genera moltiplici interpretazioni del messaggio partito dall’emittente e diretto ad un destinatario. Il codice fotografico è decisamente più vago. Il risultato, poi, dipende molto anche dalla scelta del fotografo di dirigere l’interpretazione, oppure di lasciare possibili interpretazioni; ci sono immagini che addirittura si svincolano dall’autore per raccontare altro, rispetto a quanto avrebbe voluto. In tal caso chi raccontano? Forse chi le legge.
A volte le immagini sconvolgono pure il messaggio di chi le crea: mi è capitato di partire con un’idea, un progetto fotografico, ma buttate in fila sul tavolo le immagini del portfolio mi urlavano altro rispetto a quanto avevo pensato. A quel punto la comunicazione era addirittura rivolta dal fotografo …al fotografo.
eh già luisa, succede che le fotografie sfuggano al controllo. anzi, è normale che sia. anzi, son fatte apposta: non è interessante controllare il viaggio, è fondamentale farlo. e non sempre, vero, i presupposti coincidono con l’esito. però è ciò che dovrebbe accadere, cioè che i presupposti coincidano con ciò che è prodotto. col ritratto le cose si complicano.
sull’accettazione delle risposte da parte di chi guarda concordo. per lo stesso motivo non credo invece utile in fase di shooting considerare anche ciò che arriverà a chi guarderà la fotografia.
troppi futuri che non ci riguardano.
capisco perfettamente il tuo averne le balle piene di cose gradevoli. carine. ma esattamente come dicevi, non sono prodotti della fotografia, la manipolano e basta.
Sono sostanzialmente d’accordo sulla fotogenia come idiozia; ne ho le balle così piene di cose gradevoli e vuote. Ci sono milioni di discorsi al riguardo da fare, e, perlopiù, esulano dal campo fotografico.
Per me l’unica cosa che posso davvero ritenere accettabile è una sorta di “minimo termine”, che per me è “la fotografia rivela”. Cosa? Bella domanda. Parliamo di ritratto, da qui siamo partiti; in teoria la rappresentazione di una persona, e, sempre in teoria, la persona oltre l’obiettivo, non quella dietro al mirino. Utopia, ovvio. Anche ammesso che dietro al mirino non ci sia nessuno, ma solo uno scatto automatico, appena il soggetto si para davanti all’obiettivo, ciò che ne esce è comunque il risultato di luci, ombre, focali, inqudratura… insomma “mediato”. Se poi dietro, invece, c’è qualcuno che conduce la regia dello scatto, scientemente, beh, è evidente che il primo ad esser rivelato è lui. Ma, in questo caso, occorre ammettere che, come in un gioco di specchi, sarà il destinatario delll’immagine ad interpretare l’immagine scattata, e l’interpretazione dell’autore, per il tramite del volto della persona ritratta, resta comunque non univoca e neppure biunivoca.
Insomma, per onestà, per me il lettore è sempre coautore dell’immagine e perciò trovo troppo stretto, in termini assoluti, affermare che l’autore è l’unico rivelato. I soggetti, sono sempre due: autore (emittente) e destinatario dell’immagine. Sono questi due i veri protagonisti di una fotografia, che è un linguaggio più aleatorio, meno stringente, ad es., della parola. Se, nel caso, del ritratto, il soggetto rappresentato è persona, forse è probabile si complichino le cose. Forse una pianta non avrà mai da ridire sull’esser venuta bene. Un uomo/donna, celebrità o meno, probabilmente sì. Il gioco diventa solo più interessante, o, a seconda del carattere di chi scatta, più logorante: si tratta di inglobare un’altra interpretazione, a volte anche di diritto (ehi, ci sono io in quella foto!!). Può essere gradevole che il soggetto al di là dell’obiettivo si riconosca, ma questo non rende “migliore” il fotografo. Può essere altrettanto interessante che si veda diverso, oppure che scopra qualcosa di sé, che non aveva mai considerato, eppure gradito.
Certo, credo, che l’autore sia potentemente parte del ritratto, come lo è per qualsiasi immagine.
Ps: immagina un mese (basterà???) di quarantena fotografica. Nessuno che ne parli, nessuno che pubblichi, nessuno che avatarizza. E dopo il disintossicamento, ricominciare un po’ più leggeri.
Gli RX, quale miglior mezzo per l’indagine profonda di noi stessi! Anche da un punto di vista semplicemente estetico, impariamo a vedere qualcosa che non sappiamo di noi.
nessuno che pubblichi sarebbe bello!
Ieri ho fatto per la prima volta in vita mia l’anestesia dal dentista. Lui diceva che avrebbe cessato gli effetti dopo un’ora e mezzo. Invece sono state 5 ore di emiparesi: mentre mangiavo mi sentivo claudicare, disarmonico, incapace.
Il ritratto, la fotografia, un po’ tutto in verità, hanno assunto una preponderanza fenomenologica tanto che siamo portati a desumerli o capirli dalle proprie manifestazioni anzichè dai loro princìpi. Peccato che queste manifestazioni siano buone o meno buone, utili o meno utili a seconda della fortuna.
Mi viene da dire che per rimettere ordine, non bisogna spiegare ancora, di più. Bisognerebbe smettere di costruire teorie e vedere fotografie innalzate ad esempio di questo o quello. Bisogna fare ritratti partendo sempre da zero, senza sapere di cosa c’è bisogno, nè dove si finisce. C’è bisogno di sentire che ti manca un pezzo di bocca per ritrovarsela addosso e riconquistarsela.
Finisco con uno spunto non personale, forse più utile alla discussione.
Qualcuno dice che la nostra “storia” (non solo le nostre vicende, ma tutto quell’insieme di informazioni/nozioni/impressioni) la possano vedere solo gli altri. Noi al massimo si cerca la nostra storia. Si cerca un’immagine alla quale aderire, si cerca la tranquillità di collocare noi stessi nel perimetro noto di “quella roba lì”. E’ per questo Efrem che il committente si vuole vedere come si vuole. Perchè tu lo rompi in frammenti se il ritratto gli suggerisce che proprio lui è un’identità che non vuole vedere (o non sa vedere). Questa reazione di presunzione ce l’ha chi ha smarrito diottrie. Chi sa vedere, vede nella foto il principio di un’autocoscienza rinnovata. Mi sembra un discreto risultato…
comincio dall’inevitabile marco, comincio dal dentista: non ne conosco uno che dica con certezza cosa accadrà da lì a tre ore dopo che t’ha messo
gli attrezzi in bocca. questa almeno è la mia storia. che però mi sembra coincidere con la tua.
parlando di percorsi fotografici non so, per me è difficile partire da zero. o meglio, non sono in grado di partire a prescindere da me.
non per presunzione o millantate capacità creative (o di trasformazione), ma proprio perché la relazione che si crea nel fotografare è molto
simile a un meccanismo proiettivo. la capacità di assecondamento del soggetto ritratto è una porzione importante del percorso. ma non la sola.
credo esista una zona di imponderabilità (quello che credo tu intenda dicendo “… senza sapere dove si finisce”).
è vero, hai ragione, si cerca un’immagine alla quale aderire. una questione di comfort emotivo. è che forse, dico forse, la soggettività dell’autore
inevitabilmente potrebbe prendere un’altra strada. il cui risultato potrebbe sorprendere. mica per forza negativamente, o no?
chi sa vedere, come tu dici, chi va oltre l’immagine mediatica e pensa davvero a un ritratto, non può che credere appunto che sia lo sguardo di un altro
a raccontarlo.
forse hai ragione, non c’è da spiegare quando si fa. ma è inevitabile tentare di farlo quando si è arrivati all’attuale situazione di grande confusione.
quando le tavole rotonde, le conferenze, gli ambiti didattici, il tutto assortito e precotto, non danno neanche un tentativo di risposta alla domanda: ma per che cazzo fotografiamo?
in questo non credo c’entri la storia. ma appunto noi. ognuno di noi.
o no?
Sinteticamente.
Forse c’è un equivoco. Partire da zero, non significa partire dal vuoto. Significa incominciare dalle 2 o 3 cose in cui si crede ciecamente. Tipicamente sè stessi, il proprio “approccio” e poco altro. Intendevo lasciar fuori i procetti, i dogmi, il come ci vorrebbero, il cosa si aspettano dal lavoro, a chi è meglio ammiccare per oliare i canali di diffusione dell’immagine.
C’è un meccanismo proiettivo: vero, giusto. Per questo gli altri (plurale) sanno vedere la nostra storia. Perchè anche l’io è molteplice (v. Pirandello): è come se offrisse da ogni angolo una vista in luce e una in ombra. Ogni osservatore ha un punto di vista differente, tangente ad una nostra faccia differente, ergo cogli peculiarità differenti che necessariamente sono qualcosa che per consonanza o dissonanza risuonano col proprio occhio.
Riguardo il carrozzone delle conferenze. Ad ognuno il proprio mestiere. Che si affannino a capire e parlarsi addosso. Noi avanti a fare foto. A chi ti chiede perchè fotografi, la risposta più di merito credo che sia: “…E perchè no?”
assolutamente d’accordo: lasciamo le aspettative fuori dal nostro sguardo. è la prima regola che un giovane fotografo deve imparare.
se è di fotografia che si vuole occupare.
e la peculiarità, la dissonanza, la relatività, fanno la differenza attraverso la quale raccontare. o meglio, raccontarsi.
non risponderei “e perché no” invece all’eventuale fatidica domanda… è una mia urgenza. questo direi.
sono parole tue queste?
Non credo che la fotografia sia una questione di genere. Credo piuttosto che essa sia il risultato di una propria visione critica, emotiva ed allegorica del mondo.
Pare di sì. Peccati di gioventù :)
condivisibili pienamente.
Piano Americano – Due. Perché? C’è un uno?
Mi piace ma non capisco il nesso. Scusami.
sì valeria, c’è un uno. sono delle mie vecchie rx. che ho riprodotto e ricomposte. facendole diventare roba a sé, almeno nell’intenzione.
“piano americano” per duettare un po’ sul contenuto iconografico e la convenzione di ripresa fotografica (e televisiva) che appunto è omonima.
il nesso con l’articolo è solo ironico, sempre nell’intenzione… e cioè associare il concetto di fotogenia alla nostra parte nascosta… quella scheletrica. un azzardo?
non hai nulla di che scusarti.
Chiarissimo!
Cambiando discorso ma rimanendo nel tema dell’articolo e cioè la fotogenia come puro fatto mediatico: quanto ha contato secondo te la diffusione del digitale? E il pullulare non secondario dei social network?
mi è capitato, non sto scherzando, che un signore (mica un fanciullino dell’oratorio) mi chiedesse di fargli il ritratto per facebook.
vaffanculo! è stata la mia risposta. mi si perdoni ma una citazione ha l’obbligo della precisione.
è indubbio valeria che l’esplodere della produzione di immagini sia condizionante. è anche indubbio che i social network hanno parametri
condizionati da i media “superiori”. quelli istituzionali per intenderci: riviste, televisione, cinema e compagnia bella.
è un fatto culturale imprescindibile. mi viene in mente una canzone dei clash: the right profile.
“raramente una bella immagine è l’immagine di qualcosa di bello”, il concetto è perfetto così, meditabile per ore. Non ho domande, solo una certezza (provvisoria) in più… Grazie.
no domande, no risposte. condivido il fatto che le certezze siano provvisorie.
e il dubbio il motore.
Ciao Efrem! Ciao tutti! Condivido il concetto pienamente: la fotogenia non c’entra nulla con la fotografia di ritratto. Come sottolinei perfettamente tu rigurda “l’esportazione” della nostra persona fotografata. Ma allora come te la cavi tu quando fotografi i personaggi che fotografi? Non è la stessa cosa fotografare una persona “normale”, scusate il termine, e una celebrità. E la fotogenia agisce su entrambi?
Mi piacerebbe sapere la tua opinione. Grazie Efrem
diletta buongiorno… e buongiorno a tutti. il timore della fotogenia agisce soprattutto sulle persone non esposte mediaticamente. è la prima cosa che mi viene detta quando le ritraggo: non sono fotogenica/o. per le celebrità (complimenti per il termine, quasi desueto… si preferisce dire celebrity, chissà perché?), che invece hanno l’abitudine all’esposizione, la questione è la stessa. solo camuffata da argomenti davvero più immediatamente mediatici che hanno a che fare con la credibilità.
solo che spesso l’immagine restituita è talmente edulcorata (non uso il termine photoshoppata per evitare equivoci), addomesticata al trend iconografico del circo mediatico che si rischia di andare col lentino alla ricerca dei punti di similitudine con l’originale. sono allergico a ‘sta faccenda.
Quindi se non ho capito male, è la stessa cosa? Cioè sia per le persone normali che per le “celebrity” la fotogenia è un valore ricercato nel buon ritratto? Ma tu lo dici che non ci credi?
l’unica vera differenza che colgo, diletta, è che mentre le persone non avvezze alla fotocamera (a starci davanti) è la prima cosa che dicono dopo le presentazioni,
i personaggi non usano il termine. ma la preoccupazione è la stessa: essere venuti bene (terra a terra ma è così). la fotografia, cioè l’insieme di
ciò che è prodotto, è in subordine. in genere i personaggi sono sul set, qualunque esso sia, accompagnati da collaboratori che si occupano proprio dell’impatto
mediatico del lavoro che si sta facendo. non sono poi tantissimi, credimi, che discernono dalla ruga.
certo che lo dico! appena ci si arriva la mia dichiarazione è “la fotogenia non esiste”. ed è vero. per cui concentriamoci su altro.
si potrebbe parlare di un punto d’incontro tra l’anima di chi fotografa e un pezzettino di quella di chi viene fotografato – pezzettino in cui abbiamo cercato e riconosciuto la nostra? Infatti se non troviamo quel pezzetto e siamo costretti a scattare comunque la foto viene male…
(a me è capitato di sentirmi dire “ma sei tu?” davanti ad un paio di ritratti di amiche che non mi somigliavano neanche tanto…salvo per quella espressione, riconosciuta e scelta tra mille altre)
dei punti di contatto ci devono pur essere, laura. penso che l’autore sia determinante, un po’ come dici tu.
interessante, davvero interessante a proposito del “falso riconoscimento” dei ritratti alle amiche… la dice lunga.
da approfondire…
due robe laura… perché verrebbe male se non troviamo quel pezzetto che dici?
seconda: ti è mai capitato che quella somiglianza che ha originato l’equivoco “ma sei tu?” tu, dico tu, la cogliessi ritraendo anche un maschio?
i ritratti di cui sono più scontenta son quelli in cui non si è creata una connessione: chi avevo davanti mi è rimasto estraneo, cioè non ho trovato “il pezzettino” che mi (cor)rispondesse (o per colpa mia o perché non c’era)…è difficile descrivere qualcosa che non si (ri)conosce.
sulla seconda…non mi è capitato, potrebbe capitare, ma dipende dai fattori in gioco…
…complicità-fratellanza o tensione seduttiva…nel primo caso potrebbe, nel secondo direi di no, perché la tensione scatta in presenza di “differenziali” di corrente…
scusami laura, sono rallentato… non ho capito. anche senza dentista.
immagino tu ti riferisca al secondo criptico commento…in effetti (s)ragionavo mentre scrivevo… ci riprovo:
parlando dal mio sguardo di (almeno finora) eterosessuale, se fotografo una donna, più facilmente sarò in modalità di identificazione, che è quella che porta a ricercare il pezzettino di cui sopra e quindi a generare l’eventuale “somiglianza”. Se fotografo un uomo potrebbe esserci ugualmente questo meccanismo nel caso che il soggetto mi ispiri vicinanza (fratellanza) – e in tal caso il ritratto potrebbe “somigliarmi”, oppure può insinuarsi un’energia di segno diverso, più positivo/negativo, una tensione data dalla differenza che con l’altro sesso più facilmente si trasforma in attrazione. In questo caso a farmi scattare non sarà il quid della “somiglianza” ma piuttosto un elemento di contrasto….
non so se si capisce, ovviamente non sono neanche certezze provvisorie, solo ipotesi…il dubbio sia con noi, sempre!
è interessante come gli approcci possano cambiare… dovrei pensarci, ma d’acchito ti dico che per ciò che mi riguarda non faccio distinzioni. uomo donna, intendo.
e non so dire se però questo sia percepibile dal mio percorso, ma forse non è poi così importante.
assolutamente! il dubbio sia con noi. a volte anche nostro malgrado
brutto quando accade. e accade. la ricerca di quel pezzettino è tutto. non trovarlo, e se hai la fotocamera in mano, rischia di diventare una sorta di accanimento terapeutico… terribile, condivido.
è interessante quando succede (seconda question), perché proprio in quel caso si è in assenza di equivoci: il tuo pezzettino ce l’hai proprio in pugno!
“Non ritraggo con la demagogica presunzione di restituire una memoria che non mi appartiene: io racconto la mia storia.”: non posso crederci che non cerchi una relazione empatica con l’altr@!!! …
è che non credo, dana, al vecchio adagio del ritratto inteso come capacità dell’autore di cogliere l’essenza, l’anima appunto del soggetto ritratto: per me non funziona così.
chiaro che una relazione esiste, ma da qui a cogliere l’anima! è sempre un fatto speculare. io mi aggrappo essenzialmente alle sfumature. forse ai dettagli insignificanti,
ma che per me sono tutto: è forse lì che mi riconosco e comincio a lavorare.
succede che si complimentino con me (mica è una medaglia) perché ho colto e restituito. rimango sinceramente perplesso… io non lo vedo. ti giuro.
anche del lavoro di altri ciò che colgo è la mano. lo sguardo dell’autore. non so, se c’è un’anima è la mia (nostra).
mi viene un sospetto dana… ma ti riferisci allo shooting? cioè mentre il tutto avviene?
sì. non è che abbia capito bene la tua posizione, sinceramente. perché quando dici “Non ritraggo con la demagogica presunzione di restituire una memoria che non mi appartiene: io racconto la mia storia.
E la memoria è la mia.”, resto un po’ perplessa, non posso crederci che non si crei un ponte energetico o empatico fra te ed il soggetto. come lo dici tu sembrate due monoliti, di cui uno è statico e “vuoto” mentre l’altro ha il potere di plasmare, riempire l’altro…occhei così l’ho interpretato io :)…
e se certi popoli non vogliono essere fotografati è proprio perché la cosa rappresentata, in questo caso il soggetto fotografato/colto non è inerte ma ha la stessa forza, lo stesso essere, “é” come quello reale.
mmmm… non mi riferisco all’atto, a ciò che accade sul set (qualunque esso sia). perché è vero come dici, l’energia c’è ed è binaria. a volte c’è anche empatia… intendo affermare una supremazia, questo sì. che non coincide però col rapporto da te descritto: da una parte un robo e dall’altra un dio :)
è sulla questione dell’anima… sulla faccenda che il ritratto è quella fotografia che coglie l’anima che obbietto. io faccio un’associazione, discutibile vero, tra anima e memoria. molto spesso, anzi quasi sempre, non conosco le persone che ritraggo. figurati cogliere l’anima! non nego lo scambio, nego l’appropriazione debita di qualcosa che non conosco. per cui ne faccio una indebita, che rivendico con la conoscenza del mio percorso, della mia memoria. che conosco. estremizzando ulteriormente, ho sempre pensato a un autoritratto. ed è difficile che parli al plurale, cioè ritratti. incappo sempre nel singolare, cioè ritratto.
sempre però assolutamente rispettoso dell’altrui opinione. soprattutto della tua.
ora capisco perché nella tua pagina web parli di autoritratti. te lo volevo chiedere da tempo :)
pardon, ho cliccato troppo veloce, parli di autoritratti, pur ritrattando facce altre dalla tua…
comunque questo concetto di supremazia su qualcosa/qualcuno perché non lo conosci ci andrei cauta…perché sai poi per traslato passa anche ad altri ambiti, può diventare una forma mentis… uhmmmbohbohboh!!! :)
dunque dana, anche se lo conosco. chiaro che intendo dire possesso del timone… un fatto di regia insomma. e di autorevolezza del percorso.
ultimo spazio di sottolivello disponibile. oltre devi andare in cima… o ovunque riesci, sorry.