“Ma davvero sei fotografo?”
“No, per finta. La fotografia è finzione.”
La domanda mi è stata posta in un bar.
Nello stesso bar la risposta.
È andata così. Ma non c’è mai una risposta univoca. Salvo in casi estremi o immediatamente pratici, tipo “Vuoi del bourbon?”
O sì, o no. Forse, non è una risposta.
“Forse…”
Ecco fatto… poi facci sapere.
In fotografia, essendo un altro mondo, una realtà parallela ma in quanto tale non coincidente, FORSE è la condizione.
La fotografia decalcomania, quella che aveva nella catalogazione del mondo il suo motivo di esistere, è sparita. Forse.
Ma da una cifra, appena s’è stufata di fare gara di realismo.
La fotografia assertiva, quella che si prende la briga di affermare semplicemente se stessa, è quella che a me interessa.
E qui sì che c’è una coincidenza e riguarda la visione dell’autore.
Che è una finzione, una simulazione di realtà.
Qualsiasi cosa ritragga è una rappresentazione del sé.
Dico subito che non me ne frega niente di scadere nella sociologia spicciola e nella psicologia, spicciola anche lei, e cominciare a disquisire sull’uso degli smartphone negli asili e il loro impatto sulla famiglia moderna… che s’impattassero pure.
Quindi il soggetto della fotografia è se stessa.
Ed è superfluo invece sapere in che percentuale sia prossima alla realtà. O peggio, alla verità.
Mi preme sintonizzarmi con ciò che rappresenta. Di più! Sul come lo rappresenta.
In sostanza mi interessa la rappresentazione della realtà e la sua manomissione. Il grado di possesso dell’autore.
Quando il mondo vide Morte di un miliziano di Robert Capa, 1936, i peana non si contarono. E andarono avanti fino ai primi ’70, quando si cominciò a dubitare dell’autenticità della fotografia.
Prego??? Già, perché pare, si dice, ci sono prove, analisi e dibattiti che invece no: il miliziano è soggetto sano e vegeto, mentre fuma sigaretta, in fotogrammi successivi; che il miliziano è caduto due volte; che non nei pressi di Cordova ma in località Cerro Muriano e poi e poi non mi dilungo, tanto è tutto noto.
Questa fotografia è stata l’icona del reportage, la foto delle foto… e adesso no, che mica si fa così, che Capa ci ha preso tutti per il culo.
Che smacco! Che smacco?
Susan Sontag in Sulla fotografia, nella prima edizione del 1973 – Einaudi 1978 – dice:
Le conseguenze della menzogna sono necessariamente più importanti per la fotografia di quanto potrebbero mai esserlo per la pittura in quanto le fotografie avanzano pretese di veridicità che non potrebbe mai avere un quadro.
Quando lo lessi da ragazzo mi piacque molto. L’ho sfogliato recentemente e ho riletto le precise sottolineature che feci allora: ecco, adesso sarebbero molte meno.
Non so dire se all’epoca della sua pubblicazione la Sontag fosse al corrente o meno dell’ambaradan che si stava mettendo in piedi intorno al miliziano di Capa. Presumo di sì.
A scanso di equivoci in Davanti al dolore degli altri, Mondadori 2003, che invece trovo comunque molto interessante dice: L’efficacia di “Morte di un miliziano repubblicano” sta nel mostrarci un momento reale, catturato fortuitamente; perderebbe ogni valore se dovessimo scoprire che il soldato sul punto di cadere ha recitato per l’obiettivo di Capa.
Quindi il vero soggetto non è più l’immagine, ma la sua veridicità.
Questo viene detto. Di fatto.
Ma cosa cambia!?
È assolutamente probabile che Capa abbia assistito in altre circostanze alla morte essendo un fotografo di guerra.
E questa è una fotografia verosimile. Quanto percentualmente sia prossima alla verità è importante?
No. Nella misura in cui Capa si preoccupa di rappresentare la realtà che continuamente vede. E ce la restituisce.
Può essere un falso storico?
Sì, nel suo specifico. No nella sua rappresentazione.
E fine della faccenda.
Questo è un esempio molto pertinente sul come diversamente si può intendere la fotografia. Ed è indubbiamente considerabile come estremo, quasi oltre. Quasi non accettabile. Quasi blasfemo.
Ma la fotografia che ci interessa e che facciamo non è la perizia di un sinistro.
E non ha alcun obbligo col reale, verso l’esistente tangibile e catalogabile, che è solo una comodità fotografica, un luogo dal quale attingere a piacimento.
Detta piatta: prendo ciò che voglio e lo restituisco come voglio ex novo. Ma perché sia davvero finzione, e quindi fotografia, non si nota. Compresi mossi e sfuocati, che dichiarano apertamente l’essere una rappresentazione.
Architettare la propria finzione… che per quello che mi riguarda ha sempre a che fare con la rappresentazione della realtà percepita. Compresa quella dell’inconscio. Comprese emozioni, passioni, pruriti e idiosincrasie.
Rappresentazione, non didascalia. Rappresentazione, non escamotage manieristico.
Rappresentazione, cioè quella roba che prevede un’appropriazione e una restituzione che non riguarda la Storia.
Che poi, come se la Storia fosse un certificato di morte.
Magari lo è, ma apparente. Che a scriverla notoriamente sono i vincitori.
Paradossalmente è proprio quella fotografia che ha nell’intenzione una certificazione di verità che oggi si ammanta di beltà ultramediatica. Perché la realtà non è abbastanza vera… non somiglia alle cover di certi bei magazine.
Fino a diventare caricatura.
Un parossismo comico. Che però piace alla gente che piace.
E che è di un trash cosmico. Globalizzato si direbbe.
Ma che bella faccia! Fresca di carrozzeria si direbbe se non fosse di Steve McCurry… ma vi piace davvero questa fotografia?
Che a me non sembra diversa dall’iconografia cara alle suicide girls.
Come tornare al vecchio pittorialismo. Uguale.
E in tutto questo si trova il tempo per esporre al pubblico ludibrio, con espulsione da tutto, il fotografo Narciso Contreras reo di aver contraffatto una fotografia scattata in Siria eliminando una cinepresa da un angolo: ma fatemi il piacere!
Quante anime candide… quanta demagogia.
Sotto cieli che manco il giorno del Giudizio Universale, si decora la morte.
Senza indugio, butta tutto.
E si ricomincia.
Si può fare.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
@vilma per quanto mi riguarda non sei “infiltrata”, questo blog è una fonte inesauribile di spunti per me, tanto nei post di efrem quanto nei commenti di chi lo segue. e tu mi sembri una delle più assidue frequentatrici. quindi…grazie
@Paolo – “……Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo”, scrive Pessoa, non ci sono “limiti in materia”, nessuno ti deve/può/vuole insegnare nulla, basta esercitare lo sguardo (la filosofia direbbe problematizzare l’ovvio), trovare lo speciale nel banale (mi viene in mente Ghirri), l’immagine è autopoietica, si crea negli occhi di chi guarda, infiniti occhi ed infinite letture, e tutte sono giuste.
Scusatemi, io parlo sempre da infiltrata e posso anche risultare incomprensibile…..
@efrem :))))))))))) ma no!!! non intendevo dire questo :)…era riferito ai miei due precedenti commenti che denotano ed evidenziano i miei limiti in materia!
@paolo – è una battuta la mia ;)
@efrem @vilma grazie! ora ci sono, con calma ma ci arrivo anch’io :-) è sempre interessante ma soprattutto utilissimo leggervi. portate pazienza…un caro saluto
@paolo – pazienza? non sono un didatta :)))))))
@Paolo – Lo stesso autore, Andreas Gursky, di questa foto, la più cara del mondo (una sua stampa – su un totale di sei – nel 2011 è stata venduta per 4,3 milioni dollari), una veduta del Reno pesantemente ritoccata dove sono stati digitalmente cancellati tutti gli elementi del contesto, spiega che la visione del fiume così ottenuta è più adatta di quella vista in loco per rappresentare quel corso d’acqua.
L’intenzione del fotografo non è tanto quella di produrre una fotografia credibile, anzi Gursky non se ne preoccupa minimamente, nella consapevolezza che un’immagine è sempre una parte (non credibile) di un tutto che non si può rappresentare e quindi mente sempre, tanto vale eliminare quel ‘tutto’. Probabilmente Contreras parte da presupposti opposti, lui vuole semplicemente eliminare la cinepresa e vuole che l’operazione non si riveli, mentre Gursky non vuole ‘mentire’ ricorrendo ad un sotterfugio digitale, ma anzi vuole che chi guarda la foto si renda conto che l’elaborazione rende meglio della visione diretta l’idea di un fiume ‘moderno’ (questo era il tema del suo servizio fotografico). Forse si potrebbe dire che l’uno vuole dare un’immagine (di sé, come sempre) imparziale ed oggettiva, l’altro personale e soggettiva, uno ci dice “questo è ciò che ho visto”, l’altro “questo è ciò che voglio farvi vedere”.
Resti spiazzato quando Efrem dice “a me basta che sia credibile”, ma dice anche “Può essere un falso storico? Sì, nel suo specifico. No nella sua rappresentazione”, la rappresentazione deve essere credibile (“mi interessa la rappresentazione della realtà e la sua manomissione.”), non la foto la quale “non ha alcun obbligo col reale”.
Il confronto non ti torna perché trascuri il fatto che siamo davanti a due personalità molto diverse, un quadro di De Chirico è molto diverso da uno di Barnett Newman, al quale Gursky viene spesso accostato, eppure sono tutti e due pittori. Due fotografi muniti di macchina fotografica sono come due pittori muniti di pennello, le analogie finiscono qui.
Varrebbe anche la pena di considerare il background culturale di Gursky e le sue relazioni con la pittura di Anselm Kiefer e con i miti tedeschi del fiume Reno e della selva germanica, perché nessuno può prescindere da sé stesso.
Se si tiene presente questo, i conti tornano sempre.
certo efrem, sono due ambiti molto differenti. ma ad un certo punto tu scrivi: “a me basta che sia credibile”. quello che non mi torna è il “pubblico ludibrio” di contreras che ha eliminato una telecamera dalla foto originale, contro la cifra esorbitante spesa per acquistare un’opera risultante da una fotografia da cui è stato artificialmente eliminato tutto il panorama reale. da qualche parte ho letto che “Il fotoritocco fu quindi impiegato da Gursky non per mentire, ma per supportare una poetica ben definita”. quindi? diventa una fotografia credibile?
vorrei semplicemente una tua/vostra opinione, vorrei capire…
non conosco la questione del fotoritocco di gursky… francamente l’ho presa per come si presenta. e certamente contreras è stato un bersaglio facile. quello che a lui si imputa è l’alterazione di un documento storico sostanzialmente. altro ambito cioè. a me sembra di una sproporzione incredibile. più che a fronte del lavoro di gursky, appunto, di tutto quello che molto reportage produce. o postproduce.
Buongiorno Efrem, buongiorno a tutti
ho letto, riletto e ancora riletto, mi è tutto molto chiaro, compresi i sempre interessantissimi commenti ai tuoi post ma in tutto questo non riesco a collocare “The Rhein II”. guardo la foto di Contreras, penso a Gursky, i conti non mi tornano.
è un mio limite culturale, ne sono sicuro, mi piacerebbe superarlo.
in che senso paolo non ti tornano? che in effetti sono due operazioni diverse. e distanti. temo, mio limite, di non aver capito
Tanti anni fa vedevo in Steve Mc Curry, o meglio nelle sue fotografie, un riferimento, un modello. Dopo qualche viaggio in Asia ho sviluppato una sorta di intolleranza alle sue fotografie che mi sembrano tutte delle grandi messe in scena…ma come si fa a guadare un fiume durante un’inondazione con una macchina da cucire sulla testa, che è l’unica parte visibile fuori dall’acqua, mantenendo tuttavia un’espressione ieratica, quasi serena!?!
E quelle immagini manieristiche come avete detto e sdolcinate aggiungerei io di Doisneau…ma chi se ne frega se quei due del bacio davanti al comune (perchè già hotel de Ville rende tutto più fiabesco per noi Italiani) siano attori o comuni cittadini..ma cosa mi rappresenta quell’immagine? Vuoi mettere i baci di GBG con la mano di lei che fa ghirigori sulla gamba ed è perciò mossa o con i piccioni anch’essi mossi sotto i portici?
Meglio la fotografia americana di Frank e Klein e Arbus:cruda, schietta, scioccante e a suo modo vera, anche se falsa come quei personaggi sorpresi dalla flashata a ciel sereno di Gilden che assumono espressioni demoniache. ciao
@eloj – non è tanto la fotgrafia di tizio versus la fotografia di caio… a me basta che sia credibile. e non in rapporto a una qualche verità assoluta. o a un unico parametro estetico. ma semplicemente che non sembri una taroccata. detta proprio piatta
Caro Efrem, trovo positivo questo: che si chiarisca che la fotografia non testimonia un bel nulla. La fotografia registra una porzione talmente piccola di tempo e di spazio che non può essere assunta a testimonianza di realtà enormemente più grandi. Come giustamente dicevate si può parlare di traccia, non di testimonianza. La fotografia lavora come una sineddoche, la figura retorica in cui la parte sta per il tutto: un singolo miliziano per un’intera guerra. Ma a questo punto non siamo più nel giornalismo o nella cronaca, siamo già nel letterario. Ciò che fa Capa non è diverso da quello che ad esempio fa Fenoglio, che attraverso la figura di un singolo partigiano ci racconta la Resistenza, o da quello che fa Verga, che attraverso Rosso Malpelo ci parla dei carusi nelle miniere siciliane dell’800. E certo che l’autore è importante, è fondamentale: è fondamentale come si rapporta alla realtà, come la legge, come la racconta e con quale linguaggio. E l’unica onestà che conta è l’onestà intellettuale dell’autore.
E trovo positivo che finalmente si possa dire che il valore sociale di chi fotografa soldati e profughi (penso a McCurry) non è necessariamente maggiore a quello di chi nelle sue fotografie non ci mette neanche una persona (penso al lavoro di Gabriele Basilico).
@giancarlo – a volte sì, non testimonia nulla. e fortemente si riflette in se stessa. insomma il soggetto è lei… questa la fotografia che principalmente mi interessa.
sul reportage credo che molti siano ancora fermi a ciò che è stato e alle esigenze giornalistiche che doveva assolvere. non credo, mia opinione, che oggi sia più così. il giornalismo lo fanno altri. e se qualcosa dev’essere testimoniato, spesso c’è un milione di persone con uno smartphone che assolvono immediatamente il compito. pare una provocazione? io non penso.
e hai ragione secondo me: qual’è il valore della testimonianza? esatto! questo per me. che ha un valore estremamente relativo. sono un relativista :)
Vedi, Efrem, anni fa m’incazzavo per queste cose:
http://www.fotoinfo.net/articoli/detail.php?ID=233
Ora ho capito che la finzione è l’elemento costitutivo della realtà contemporanea e che “louder you speak, the best are your arguments”.
L’importante è rendersene conto e non pensare che fare le foto che ci sono concesse (e che ridondano nei media) sia una scelta nostra: siamo semplicemente parte di un sistema propagandistico di una industria culturale, o cultura industriale. Basta essere “chiari” con se stessi, visto che l’onestà è negoziabile.
C’est tout.
@fabiano – interessante! la realtà è davvero in fondo ciò che vogliamo vedere. poi però esiste una realtà più socialmente condivisibile. che è quella che generalmente la spunta dal punto di vista informativo.
però colgo l’occasione per dire che la finzione alla quale mi riferisco vale più per le immagini che NON sono di reportage. e comunque la finzione ha immediatamente passaporto quando viene chiamata rappresentazione… per tutte invece per me vale il FORSE.
dulcis in fundo credo si possa e si debba oggi fare un reportage che non abbia un vincolo esclusivamente informativo. anzi che proprio vada da un’altra parte. altro discorso lungo, complesso e rischioso…
avevo appena iniziato a scrivere ma il commento mi si è inviato da solo…vabbe’
quel che volevo dire è che secondo me tutta la parte del giudizio verità/finzione e il conseguente “sospetto” dovremmo spostarlo dalla fotografia alle parole che l’accompagnano. Se una foto non ritrae veramente ciò che la didascalia (o chi per essa) dice, la colpa è di quel che dice la didascalia – ovvero di quel che vuole far dire alla foto. Vale per (scusa se lo cito di nuovo) il miliziano e per tante altre. Il processo va fatto alle parole e alle intenzioni, non alle foto in sé. La foto di McCurry invece è un caso di “foto che mente” rispetto a se stessa….e questo sì, è un tipo di menzogna “intrafotografica” che può valere un processo!
@laura a. – su mccurry, come si può ben immaginare, sfondi una porta aperta. non essendo però “informativa” pare non crei alcuna allergia. anzi!
la questione che poni della didascalia la trovo interessante… perché in effetti sposta un po’ il fuoco. per le intenzioni credo che nello specifico al miliziano venga imputato anche questo. al miliziano viene imputato tutto.
a me, sinceramente, sembra tutto un po’ pretestuoso. come ho cercato di dire.
ho “recuperato” un po’ di discussioni, qui e altrove…
Parto da qui: delle due versioni della foto di Contreras preferisco la prima, quella con la cinepresa. Non perché non è photoshoppata (come si dice oggi), cioè è meno artefatta: la fotografia è un artefatto comunque, un po’ più artefatta o un po’ meno non mi sembra una gran differenza. Fanno quasi tenerezza quelli che scrivono sotto le foto “nessuna postproduzione”, come se quello che esce direttamente dalla macchina fotografica fosse un prodotto biologico.
Ma la presenza della cinepresa mi sembra ciò che rende interessante l’immagine, ciò che introduce un elemento di complessità, un punto interrogativo, un “forse”. La fotografia è un fatto dialettico: la realtà propone delle sollecitazioni e il fotografo sceglie quali accogliere e come: qui ci vedo una occasione mancata. Proprio perché traccia e perché la realtà è sempre più complessa di quanto si pensi, la fotografia è una portatrice sana di domande, dubbi, complessità: un atidoto a luoghi comuni e propagande varie.
@Giancarlo – una antidoto ai luoghi comuni? la fotografia? invidio il tuo ottimismo. a me sembra che ne scateni di continui.
@vilma – riletto. confermo ciò che allora. cioè mi piace sempre. hcb aveva perfettamente ragione. ma ho l’impressione che visto che le immagini, soprattutto di reportage, sembrano assomigliarsi sempre di più, si ricorre all’aiutino
Vilma, il mondo non è affatto ininfluente sulla mia fotografia. La fotografia è la mia chiave per leggerlo (o almeno ci provo)…è il concetto ghirriano (lo so, finiamo sempre li, ma cosa ci posso fare se lui ha scritto quel che ha scritto!) di “pensare per immagini” e già che ci siamo, userei anche un’altra sua frase, che secondo me definisce bene il problema di cui stiamo parlando “La realtà in larga misura si va trasformando sempre più in un colossale fotografia e il fotomontaggio è già avvenuto: è nel mondo reale”. Poi Vilma, sui concorsi e premi fotografici di oggi sfondi una porta aperta: “bubbles” e non credo valga la pena di dire di più. E sono d’accordo con Efrem sul reportages….il momento ha le sue tendenze (come qualcuno ha scritto, forse Smargiassi, vanno molto le sfighe altrui) e si dovrebbe ascoltare in proposito la bellissima intervista ad Alex Majoli e magari, meditare sull’ultimo libro dei coniugi Webb (Memory city) per capire cosa voglia dire e come si possa raccontare per immagini….mi fermo qui. Cari saluti a tutti.
Solo un P.S.: su Doisneau sono d’accordo…su Mc Curry no, almeno non per le sue opere migliori, quelle del ciclo asiatico. Ma …”De gustibus non disputandum est” (ossia, come traduceva il mio compagno di banco del liceo: sui gusti non ci si sputa!).
qualcosa su certo fotogiornalismo l’ho scritto pure io in tempi non sospetti:
http://www.artonweb.it/fotografia/articolo35.html
non condanniamo l’artificio ‘strumentale a’, ma non premiamolo con tanto di medaglia per quello che non è fotogiornalismo così come viene definito dagli stessi fotografi, che non significa appropriazione e restituzione, non prevede di ‘architettare la propria finzione’. Altrimenti che si inventino un altro nome che possa comprendere anche Narciso Contreras e la smettano di assegnare premi fasulli.
Non apprezzo particolarmente Capa, che avrebbe dovuto assumere una posizione (deontologica?) più coraggiosa, trovo che McCurry sia un furbo mestierante e Robert Doisneau quello che meglio ha sfruttato per fini commerciali il filone dell’ “escamotage manieristico”.
Ciò detto, aggiungo che ‘forse’ è una parola che mi piace, non è un paravento qualunquista, è quella che meglio definisce la nostra condizione di esseri umani, quindi fotografi, scrittori, pizzaioli, dog-sitter ecc. Parola coraggiosa, denuncia i nostri dubbie e le nostre incertezze, guai se non ne avessimo!
Credo che Roberto abbia puntualizzato in maniera perfetta il senso globale del discorso, in sintesi, non è il ‘cosa’ che conta, ma il ‘come’, tuttavia, sia per Roberto che per Efrem, vorrei sottolineare una certa autoreferenzialità: uno fotografa perché non può farne a meno, l’altro prende ciò che vuole e lo restituisce come vuole, la presenza del mondo è ininfluente, ancor più perché, aggiungo io, il digitale ha cancellato il concetto di analogia speculare e sciolto “suoi diretti legami chimico-fisici con l’oggetto riprodotto.”
Liberi di dire “sono autoreferenziale e me ne vanto!”, nulla da eccepire!
Forse.
Perché l’idea di fotografia resta comunque legata al concetto di ‘traccia’, inteso come modalità concettuale, appunto, attraverso la quale guardiamo il mondo.
Perché la fotografia è una pratica sociale (per approfondimenti rivolgersi a Umberto Eco).
lo sai vilma, sfondi una porta aperta: la priorità del come sul cosa rappresenta la centralità della mia fotografia e di ciò che dico. però non è, per ciò che mi riguarda, ininfluente la presenza del mondo: una dialettica esiste. e alla traccia ci tengo.
avevo letto il tuo articolo. e mi era molto piaciuto. con calma lo rileggo così ti confermo che mi piace ancora.
non frequento gli ambienti del fotogiornalismo, ma penso che il reportage, oggi, debba occuparsi diversamente dell’attualità. vista la piega, non capisco la messa all’indice di contreras: perché allora un cielo taroccato è la stessa cosa. così come l’immagine alla quale ti riferisci nel tuo articolo. in questo caso comunque, il miliziano di capa è per me il pretesto perfetto.
Ma non potrebbe essere che la fotografia è finzione perché ci sono troppi fotografi improvvisati che imitano stili e usano solo programmi di fotoritocco?
O addirittura amatori che si sentono galli da competizione perché hanno succeso sui social, sui blog, ma che non sanno cosa voglia dire costruire una storia?
Non so è una domanda e chiedo a te…
@sara emma – per quello che mi riguarda è finzione a prescindere. software ecc più o meno esasperati appartengono a un’altra categoria, dove c’è tutto e il suo contrario. chissà…
Caro Efrem, io credo che il problema “rappresentazione della realtà” sia un problema sopravvalutato…dipende dal contesto e da quel che è l’intento dell’autore; non mi sento di trarre conclusioni assolute. la fotografia ha ormai ampiamente debordato dalla semplice rappresentazione della realtà ed è diventata un linguaggio articolato, usata ai fini più diversi. Può piacere o no, ma così è. Poi, ognuno è libero di considerare “vera fotografia”, solo quella realistica, discutere all’infinito sull’uso dei programmi di post-produzione ecc…..io ho perso da tempo interesse per questi dibattiti. Di base, fotografo semplicemente perché non posso farne a meno, perché ho trovato in questo linguaggio il mio “sistema” per misurarmi col mondo. In linea di massima, come usi il linguaggio fotografico per raccontarlo non credo abbia eccessiva importanza; credo conti quel che hai da dire e se riesci a dirlo efficacemente. Alla domanda se nell’era digitale hanno ancora senso i fotografi il vecchio Elliott Erwitt ha risposto «Tutti possono avere una matita e un foglio di carta, ma pochi sono i poeti». Forse è tutto qui, non credi?
@roberto – veramente sono d’accordo su tutto. solo, il linguaggio fotografico non ha valore se non è il tuo.
http://en.wikipedia.org/wiki/Raising_the_Flag_on_Iwo_Jima
Qual’è il limite della Propaganda, allora?
http://www.military-history.org/articles/world-war-2/raising-the-flag-on-iwo-jima-joe-rosenthal.htm
@fabiano – la propaganda non si pone limiti, mi sembra. e la fotografia si presta benissimo. la falsificazione è però altra faccenda. o no?