Rincorrere i generi, parcellizzare, classificare, incasellare…. seppure siano operazioni superflue dettate da esigenze di mercato, di critica o di semplificazione, sono anche il modo in cui leggiamo la realtà, la nostra vita, gli eventi con quella inevitabile tendenza alla storicizzazione grazie alla quale elaboriamo la temporalità e ci creiamo riferimenti simbolici eterni e universali.
Attraverso la parola, la didascalia o la definizione di genere riordiniamo e risignifichiamo il senso della nostra realtà.
Da Heidegger a Lacan, non si è trovato (ancora) un altro modo di essere uomini.
Liberi tuttavia di esercitare la nostra “avversione ideologica”.
vilma – concordo. ma, perdonami, mi preoccupo di qualcosa che è oltre il flusso, storico o quotidiano. non eludo il genere, ravviso solo che la fotografia che m’interessa è fatta di fotografie che lo trascendono. che potrebbero stare ovunque
Condivido questa avversione per i generi. Tra l’altro sono cresciuto in una Palermo in cui l’unico genere riconosciuto era il reportage, tutto il resto era fotografia indistinta.
Ma perché, secondo te, questa tendenza a classificare e incasellare? Una esigenza del mercato di definire categorie merceologiche? o una più generale tendenza ad addomesticare la fotografia e ridurla entro confini rassicuranti?
non è un’avversione pratica. piuttosto ideologica direi…
perché capisco bene l’utilità di certa fotografia. la funzionalità. solo che se parliamo di Fotografia, parliamo d’altro. e il genere è un limite.
èsoprattutto un’esigenza del mercato. tutto. compreso quello dell’arte che si misura con figure – la critica – estremamente contemporanea. anzi, direi legata all’attualità del momento.
e parcellizzare semplifica.
mi chiedo chi invece la fotografia la fa… o ne fruisce non professionalmente: ma che motivo ha di rincorrere i generi?
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Rincorrere i generi, parcellizzare, classificare, incasellare…. seppure siano operazioni superflue dettate da esigenze di mercato, di critica o di semplificazione, sono anche il modo in cui leggiamo la realtà, la nostra vita, gli eventi con quella inevitabile tendenza alla storicizzazione grazie alla quale elaboriamo la temporalità e ci creiamo riferimenti simbolici eterni e universali.
Attraverso la parola, la didascalia o la definizione di genere riordiniamo e risignifichiamo il senso della nostra realtà.
Da Heidegger a Lacan, non si è trovato (ancora) un altro modo di essere uomini.
Liberi tuttavia di esercitare la nostra “avversione ideologica”.
vilma – concordo. ma, perdonami, mi preoccupo di qualcosa che è oltre il flusso, storico o quotidiano. non eludo il genere, ravviso solo che la fotografia che m’interessa è fatta di fotografie che lo trascendono. che potrebbero stare ovunque
Condivido questa avversione per i generi. Tra l’altro sono cresciuto in una Palermo in cui l’unico genere riconosciuto era il reportage, tutto il resto era fotografia indistinta.
Ma perché, secondo te, questa tendenza a classificare e incasellare? Una esigenza del mercato di definire categorie merceologiche? o una più generale tendenza ad addomesticare la fotografia e ridurla entro confini rassicuranti?
non è un’avversione pratica. piuttosto ideologica direi…
perché capisco bene l’utilità di certa fotografia. la funzionalità. solo che se parliamo di Fotografia, parliamo d’altro. e il genere è un limite.
èsoprattutto un’esigenza del mercato. tutto. compreso quello dell’arte che si misura con figure – la critica – estremamente contemporanea. anzi, direi legata all’attualità del momento.
e parcellizzare semplifica.
mi chiedo chi invece la fotografia la fa… o ne fruisce non professionalmente: ma che motivo ha di rincorrere i generi?