Irene Grandi e Stefano Bollani

Milano, ottobre 2012 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Li incontro mercoledì 24 ottobre, a Milano nello studio di registrazione Artisti Nascosti.
Scala ripida che porta giù giù… atmosfera underground e luce soffusa. Ottima per l’ambiente… insufficiente per fare foto.
Creiamo una postazione fissa in nove metri quadri, dove c’è una batteria: due generatori, due torce riflesse dritte al soffitto e luce sufficientemente diffusa.
Qui si lavora prevalentemente in Hasselblad. Mentre poi in giro si va in Nikon con flash sparato. E magari qualcosina che aiuti l’ambiente.
Irene Grandi l’avevo già ritratta per GQ Italia anni fa, poi l’ho incrociata altre volte. Mentre per Stefano Bollani è la prima volta.
Non sapevo bene che diavolo fare, ma visto che c’era una batteria e una chitarra, magari… penso a questo mentre mi fumo una sigaretta in superficie. Emerge anche Irene Grandi con la truccatrice e si parla di luci e make up.
Ma Bollani dov’è? Una botta di batteria definisce il punto esatto.
Perfetto, coi musicisti è così. Credo sia più forte di loro.
Mi è successo anche con Noel Gallagher, con Mark Knopfler e forse anche altri: se c’è uno strumento nei paraggi ti mollano e ciao, suonano.
E chi se ne frega se non è un pianoforte, in fondo la batteria è comunque uno strumento a percussione. E Stefano Bollani un musicista.
Così improvvisano un duetto. E io scatto. Mica c’è da dire un granché, giusto due accorgimenti puramente tecnici… siamo in nove metri quadri!
C’è un ottimo feeling tra loro. E ne beneficiamo tutti.
Poi c’è l’intervista di Angelo Sica, giornalista. Per il magazine Grazia.
Assisto e faccio qualche scatto così, molto leggero.
Fine dell’intervista e io ricomincio, random per corridoi e spazi assortiti. Loro sono entrambi gradevoli e disponibili.
Fine. Quello che dovevo fare l’ho fatto. Postproduzione veloce e consegna al magazine. Adesso non è più affar mio.
E qui pubblico ciò che a me piace.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Tutte le immagini sono state realizzate a Milano il 24 ottobre 2012, presso lo studio di registrazione Artisti Nascosti. Si ringraziano per la cortesia Chiara Fella e Mauro Abbiatello.

Assistente fotografia, Alessandro Albano.
Fotocamere: Hasselblad H3D II-39 con ottica 50 mm e Nikon D700 con ottica 24-120.
Luce, flash: Profoto e SB 900 Nikon.

FB_efrem

 

 

No Profit ADV

Alessandro e Elisabetta © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Se è gratis c’è un motivo. Trasparente e preciso. E a me basta per condividerlo.
Ed è l’unico etico… tutto il resto gratuito è infame, e chi si presta dovrebbe essere costretto a spiegarsi.
Non a caso è l’unica circostanza in cui le grandi agenzie di pubblicità non hanno alcuna ritrosia a rivolgersi senza budget a fotografi che sono tali, autori riconosciuti o giovani di talento non cambia: la faccia è quella.
Niente soldi e niente gloria, solo il piacere di dare il proprio contributo.
Che a volte è significativo.
E il coinvolgimento emotivo è forte: non sto parlando della donazione di un’opera, già bella e pronta, che contribuisce insieme ad altre a uno scopo certamente ugualmente lodevole… ma non è la stessa cosa. Per l’autore non è lo stesso.
Per me non è mai stato lo stesso.
Se parti da zero, se conosci direttamente le persone coinvolte, se parli coi famigliari, se ti addentri e ti mischi, non è la stessa cosa.
E ciò che produci è specifico e non intercambiabile.
Ne ho fatte diverse, anche recentemente, ma le due che pubblico qui hanno un valore per me particolare. E sono diverse tra loro.
La prima, campagna stampa del 1990, per ANFFAS, agenzia Carmi e Ubertis, è tutta immagine.
Alessandro e Elisabetta li ricordo ancora bene, lì in studio, testa bassa e una inaspettata reazione positiva al lampo dei flash, che calmava quel moto perpetuo del busto ficcato sulla sedia a rotelle, vera emanazione del loro corpo.
Del 1993, per AIP, agenzia McCann Erickson, la seconda campagna, stampa e affissione.
La faccia è quella di Paolo Ausenda, allora presidente dell’associazione. E parkinsoniano. Ricordo molto bene anche lui e il suo sguardo dritto in macchina. Ricordo le chiacchierate… in studio e poi al telefono, dopo l’uscita della campagna e della violenta polemica che ci fu.
Perché in questo caso la fotografia era complice dell’headline ”SPERO CHE IL MORBO DI PARKINSON COLPISCA ANCHE TE”.
E in questo caso mi fu chiesto se me la sentivo o meno di aderire con un mio lavoro. E fui totalmente solidale, perché quando sei dentro le cose la solfa cambia. Eccome. Tanto che conobbi anche la figlia di Paolo Ausenda, Raffaella. Che ho rivisto recentemente.
E il suo sorriso è lo stesso.
Questo è una campagna benefica. Per me.
E per farla devi essere un fotografo.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamera Toyo 45G con Rodenstock 90 mm.
Film Polaroid 55.
Luce Bowens Flash.

Paolo Ausenda, API / McCann Erickson © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Paolo Ausenda, API / McCann Erickson © Efrem Raimondi. All rights reserved. 

API / MCCANN ERICKSON, AFFISSIONE 1993-1994 © EFREM RAIMONDI. ALL RIGHTS RESERVED.

API / MCCANN ERICKSON, AFFISSIONE 1993-1994 © EFREM RAIMONDI. ALL RIGHTS RESERVED.

Fotocamera Toyo 45G con Rodenstock 180 mm.
Film Agfapan 100.
Luce Profoto Flash

Acquaplus – Asta benefica

Mare Nostrum, 1998 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Un’asta benefica delle opere di diversi autori sul tema dell’acqua: un’occasione per vedere sguardi diversi concentrati sullo stesso soggetto.

Programma

Cat Power – Rolling Stone

RS, ottobre 2012.

Un pomeriggio di giugno, quello scorso… arriva al Magnolia, noto locale milanese in zona Idroscalo, accompagnata da Micro (ufficio stampa), la giornalista Veronica Raimo, e una sua amica americana. O inglese…
Giulia e io eravamo lì da un po’ prima, giusto per capire dove ritrarla. E guardando lo spazio appena dietro al locale mi viene in mente un po’ Blow Up, effettivamente come dice la giornalista nell’intervista.
A questo proposito devo solo rettificare: “il fotografo” non cerca di recuperare un bel niente e anzi garbatamente insiste per una sequenza. Che puntualmente si fa.
Con la consapevolezza che difficilmente sarebbe stata editabile da Rolling Stone per i noti problemi di impaginazione che la sequenza si trascina, soprattutto se lunga. E questo vale per tutti i magazine.
Ma intanto si fa. Semmai poi si estrapola. Come infatti è accaduto.
E non c’è nulla di orrendo in questo… la sequenza te la metti in tasca, conscio che è un’altra cosa… conscio che lo spazio dev’essere altro e ampio. Ma non c’è il minimo fastidio ad assecondare le esigenze redazionali… basta che ogni singolo frame abbia una coerenza propria. Per questo vanno pensate e la raffica serve a niente. Se non a sovraccarsi di repliche inutili.
Diversa invece la sessione dei primi piani: ogni immagine è singola. E Blow Up non c’entra più un cazzo.
Mi ha fatto un gran piacere ritrarre questa donna, questa grande cantautrice americana, alias Charlyn “Chan” Marshall… mica interloquivo con lei chiamandola Cat Power!
Ma il piacere sta nello shooting e per come lei si è data… una vera performer che non si è lesinata. Non capita spessissimo.
Qualcuno che non sia stitico ogni tanto ci vuole.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Rolling Stone mag© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Assistente fotografia: Giulia Diegoli.
Fotocamera Hasselblad H3D II-39, con ottica 50 mm.
Luce ambiente.

Cara signora Tosoni.

Myriam Tosoni – © Laura De Tomasi. All rights reserved.

Myriam Ada Tosoni… sempre chiamata Myriam. Di Ada io non ne sapevo niente.
Per diversi anni ho avuto il piacere e l’onore di frequentarla, grazie a Laura, mia moglie.
E loro sì che si conoscevano bene malgrado la diversa anagrafe.
A dire il vero io ero un po’ di rimbalzo, ma ci stava… l’importante era esserci. E ascoltare. Perché di cose da raccontare Myriam Tosoni ne aveva parecchie. E non erano cianfrusaglie.
Questa donna è stata la segretaria di redazione della rivista Casabella (f.1928), una delle più prestigiose del mondo, dal 1958 al 1996, anno in cui è andata in pensione.
Sotto la direzione di questi signori: Ernesto Nathan Rogers, Gian Antonio Bernasconi, Alessandro Mendini, Tomas Maldonado, Vittorio Gregotti. Ecco.
Myriam conosceva e si rapportava direttamente con architetti, designers, fotografi, critici, diventando un vero punto di riferimento. Solo che era una delle persone più garbate che abbia mai conosciuto.
Colta, acuta, ironica e anche sarcastica… e anche bella tosta.
E anche un sacco di altre cose…
Gran fumatrice alla faccia di una serie di controindicazioni, aveva una risata esplosiva.
E contagiosa.
In questo momento ho dei flash di casa sua e della prima volta che ci ho messo piede: ricca di sorprese straordinarie e di libri che conoscevo. Solo che non sapevo del suo contributo.
La segretaria di redazione di un certo periodo era una figura centrale. Una sintesi di photo editor-redattrice-traduttrice-organizzatrice… nel suo caso al massimo livello. Senza di lei sarebbe stato lo sbando.
In Electa, la casa editrice, Myriam Tosoni era un’istituzione.
E in ambito design/architettura tutti conoscono il suo nome. Qui e altrove: sto parlando di storia dell’editoria italiana, quella vera.
Mica ciance, smancerie e gridolini entusiasti…
Protagonista di un caso credo unico nella storia dell’editoria: le cartoline che Jacques Gubler, grande storico e critico dell’architettura, le ha inviato dal 1982 al 1996 direttamente a Casabella e che hanno accompagnato la direzione Gregotti.
Tutte con lo stesso attacco: Cara signora Tosoni…
E tutte racolte in un meraviglioso libro edito da Skira, Le cartoline di Casabella. 1982-1996. Cara signora Tosoni.
(http://www.skira.net/le-cartoline-di-casabella-1982-1996.html ).
Proprio così, cara signora Tosoni…
Proprio così, un paio di giorni fa vengo a sapere della sua scomparsa. Mi sono sentito male. Perché era un po’ che non la si vedeva. Colpa mia… sempre rimandato.
La Triennale di Milano le dedica il 21 di questo mese l’evento ”Cara Signora Tosoni”.
(http://www.triennale.it/it/triennale-design-museum/mostre-e-attivita/1298-cara-signora-tosoni-evento-in-ricordo-di-myriam-a-tosoni )
Ho cercato, adesso, sul sito di Casabella… nisba. E certamente sbaglio la ricerca, perché sarebbe molto grave se non ci fosse un ricordo sulle pagine della rivista per la quale ha lavorato, nel suo modo, per trentotto anni.
Ho cercato anche freneticamente una fotografia che so di averle fatto… nisba, non la trovo. Quella che pubblico è di mia moglie. In ricordo di una serata.
Certe cose non tornano e non hanno rimedio… cazzi tuoi Raimondi!
Però mi resta indelebile il suono della sua voce. Che è la cosa più struggente.
Ciao Myriam!

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

P.S. Ho ricevuto la segnalazione della pubblicazione di un articolo da parte di Casabella:

http://casabellaweb.eu/2012/09/15/myriam-a-tosoni

Foto a cazzo.

Ovvero analogico versus digitale.

Sto iniziando una collezione di immagini dal titolo Foto a cazzo.
Sono fotografie realizzate senza pensare, puntando dove capita… dove comunque l’occhio ha una minima attrazione. O distrazione. Fotocamera in completo automatismo, autofocus incluso. Prevalentemente con una compatta, col cellulare o con qualsiasi cosa rigorosamente digitale.
Alcune di queste immagini racimolate anche dal passato più o meno recente e ammetto, anche in pellicola.
Quindi  si possono fare comunque delle immagini così come capita, e magari ugualmente a cazzo anche con l’analogico… solo che il fatto di non vederle subito e il costo del processo mi inibiscono. La disinvoltura del digitale è altra roba insomma.
Tutto ciò, ricorda qualcosa?
E qui comincia la faccenda… l’analogico prevede un maggiore rispetto per ciò che si sta facendo e schiacciare un tasto ha a che fare con un processo che si rivelerà un tot dopo, a seguito di un percorso che richiede tempo. Lo scatto resta in tempo reale, ma la sua conferma no. Non solo… è completamente assente il tasto che ti permette eventualmente di riacquistare la verginità perduta: la memoria non si recupera e quella a disposizione coincide col tòcco di pellicola che resta. Dopo di che fine. Dopo di che passi ad altro rullo. Ad altra attesa. Nel frattempo magari rilassi il dito.
Non è lo stesso! Non è meramente un fatto tecnico legato alla diversa tecnologia… è un fatto fondamentalmente culturale!
La percezione analogica richiede maggiore consapevolezza!
E questo plus incide sulla proprietà di linguaggio. Direttamente.
La fotografia è cambiata! Analogico, scansati!
È la parola d’ordine vuota e stupidamente appiattita alle regole di un mercato il cui unico interesse è massificare il consumo.
Certo che la fotografia è cambiata, cambia di continuo. Da sempre.
Ma mai come oggi è offesa. Al punto che varrebbe davvero la pena dichairarla morta.
Solo che è un cadavere non sepolto trasformatosi in zombie.
Non ho preconcetti nei confronti del digitale, lo uso come chiunque altro. Per cui non sono tacciabile di purismo. Puro cosa? Sono lercio e uso qualsiasi strumento mi serve allo scopo.
Solo denuncio la demagogia di una democrazia digitale che permette libero sfogo a chiunque, specialmente se privo di capacità espressiva ma che grazie al mezzo trasforma qualsiasi momento in esibizione. Siamo nel vuoto temporale, quello in balia del trend momentaneo. Dove il valore aggiunto della postproduzione è in molti casi folklore. Quando non devianza ideologica.
Ed è ora di dare una bella stoppata a Photoshop, non al programma, ma a chi lo masturba. Però di questo ne riparleremo.
L’editoria periodica è ridotta a pezzi e gli editori si lamentano… ma le vogliamo guardare ‘ste riviste? Fanno mediamente schifo.
Non è diverso lo stato della comunicazione pubblicitaria e dell’arte: quali sono le mostre che si ricordano?
Non è che magari ha a che fare con la negazione della memoria?
Con la necessità di un totale indistinto che evita accuratamente il linguaggio, cioè la capacità di rendere intelligibile la percezione, la propria, e magari produrre qualcosa di meno volatile di una scorreggia?
Solo apparentemente i due percorsi, l’analogico e il digitale, conducono allo stesso risultato, per cui di che diavolo sto parlando?!
Lascio perdere in questo caso discorsi sul volume e la piattezza e tutte quelle belle cose che sono peculiarità dell’uno e non dell’altro, quello che dico è che ci sono similitudini nel risultato solo in subordine al cranio di chi ne fa uso.
Altrimenti, vista la quantità spaventosa di immagini che rimbalzano da ogni dove, no, non sono per niente la stessa cosa.
Un improvviso azzeramento delle performance digitali in ambito fotografico decreterebbe una caduta verticale della frenesia produttiva di immagini. Ma questo non accadrà.
Ci vorrebbe un trattato sull’argomento, ma questo non è luogo e io non ho la patente.
Foto a cazzo è il mio personale contributo all’album di famiglia, quello della post-fotografia.
Work in progress.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nota: la fotografia pubblicata non fa parte della collezione.
Fotocamera Leica CM. Film Fuji NPS 160.
Errata corrige: fotocamera Ricoh GR1s.

Alex Schwazer

Giugno 2011. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Questo è un blog di fotografia, vero.
Ma ci sono anche le persone da me ritratte, che almeno in quella circostanza ho incontrato. E ci ho passato del tempo. In quel tempo un’opinione te la fai.
Non è la verità, che non inseguo ossessivamente. Anzi non mi riguarda. Ma non è neanche un’idea astratta. Né limitata al grado di simpatia. Non millanto niente: i fotografi hanno un’epidermide a vari strati. Tutti piuttosto sensibili e sfumati. E non solo alla luce, spesso anzi al buio. A ciò che non si vede. Anche se non sempre trova forma in una fotografia.
Io non fotografo eroi. Ma uomini e donne. E credo, spero, si veda.
Alex Schwazer l’ho fotografato per un progetto Mondadori un anno fa.
E questa è un’istantanea in una pausa.
Una giornata lunga, dalle sue parti in Sud Tirolo.
Si è riso, scherzato, fatto sul serio. Chiacchierato della sua vittoria olimpica a Pechino, della marcia e dei sacrifici che comporta.
La notizia di questi giorni mi ha davvero sorpreso. Tanto che se non avessi sentito dalla sua viva voce l’ammissione di doping non ci avrei creduto.
Ho poi visto la conferenza stampa da lui indetta: impressionante!
Tutto sembra un suicidio, sportivo e mediatico. La scelta deliberata di tagliare nel modo più traumatico e disonorevole possibile per un atleta… per un campione olimpico! Uno che andava a Londra col titolo in tasca!
Solo che non ce la faceva più. E non sapeva come fare. Questo è ciò che ha detto.
Oltre a una serie di altre cose. Tutte da ascoltare per bene.
Non entro nel merito della vicenda. E certo non giustifico il doping.
Credo però che ci si trovi di fronte a una situazione imprevista e nuova. Molto diversa da tante altre. Almeno mi sembra.
Questo è un blog di fotografia. E ai fotografi non è chiesto di dire la loro. A qualsiasi pirla televisivo o pseudo fighetta dell’ultima ora sì, ma ai fotografi no. Per una volta me lo concedo.
E spero che coloro che hanno la cortesia di frequentare queste pagine me lo perdonino.
È che proprio davanti a ‘sta crocefissione non è possibile tacere.
Io non fotografo eroi, ma uomini. E sono contento di avere ritratto Alex Schwazer.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Assistente fotografo Giulia Diegoli

Fotocamera Hasselblad H3D II-39, con ottica 50 mm.
Flash Profoto

AAA Assistente

Lucia e Giulia. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Via subito un equivoco: l’assistente fotografo non è un portaborse. Neanche un paggetto. E nemmeno un apprendista.
Un lavoro tosto in cui la relazione col fotografo è fondamentale.
La lacuna, la mia, è che non l’ho mai fatto. Perché quando avrei voluto non c’è stato sbocco. Ho capito poi il perché. E cioè: come puoi offrirti a un fotografo se non hai idea di cosa si sta parlando?
E io non avevo idea. Per cui mi sono arrangiato… certo mi sarei risparmiato un po’ di fatica e di sberle.
Quindi questo è solo il mio punto di vista di fotografo.
La fotografia non è un ambito esotico sospeso dove l’approssimazione trova dimora e la conoscenza è rimandabile a domani. Non c’è nessun domani, la fotografia è in tempo presente! Della tua vita puoi fare ciò che vuoi, e dilatare l’ombelico quanto ti pare, ma quando stai lavorando tutto si deve incastrare e basta.
Anche l’improvvisazione, quella roba che a volte fa la differenza.
E un assistente asseconda al volo gli umori del tuo cranio. Che a volte sono fulminei e inaspettati.  A volte sfiorano il deragliamento. E capita che abbiano un senso momentaneamente esclusivo, mio e invisibile.
Solo che può significare un ribaltamento della situazione. Subito.
Mica è facile… mica c’è il tempo di spiegare e fare disegnini.
Una palestra forse interessante per chi già sa ed è duttile, un assistente insomma. Un disastro per gli altri.
Dico un, ma è anche una assistente. Anzi, in genere preferisco. Perché le fanciulle hanno una marcia in più. E non mollano finché il lavoro è finito. Mediamente. Che quella sparuta eccezione di maschietti non s’incazzi per favore! Gli altri farebbero bene a guardarsi un po’ meno allo specchio e di più attorno, senza misurare continuamente il bigolo, che non c’è nessuna medaglietta in palio.
La capacità di monitorare il set, di avere cioè uno sguardo più ampio e percepire cosa accadrà da lì a un attimo. Ci vuole intesa, per questo preferisco un rapporto durevole, che riempia un periodo comune… che possa sfornare aneddoti e istantanee dopo vent’anni, direttamente dalla memoria. Perché è vero, un assistente è in grado di percepire in una mezz’oretta al primo incontro con chi ha a che fare, ma l’intesa, quella vera e complice, cresce col tempo. Ed è fatta anche di dettagli, di sfumature. Di manie para superstiziose che spesso i fotografi hanno. E che vanno assecondate. Senza domande, comunque prive di risposta. Poi ognuno tragga le sue conclusioni.
Strane bestie i fotografi. Almeno quelli non prodotti con lo stampino, né da party o da famigliari ben introdotti. E in questo gli assistenti sono un termometro infallibile perché a differenza di altre figure sovrintendenti, determinano sulla base del puro merito.
Che è dato da un percorso complesso, articolato, realmente creativo, da ciò che dichiari di fare a ciò che poi realmente fai.
Quello dell’assistente può essere uno stato temporaneo, scandito dal tempo che separa dal diventare fotografo. Oppure uno stato in sé concluso.
Non c’è differenza! Entrambe le condizioni non sono in funzione di un futuro più o meno prossimo, ma rispondono al presente… uno specifico che non prevede lo scatto, ma la predisposizione del resto. Di tutto il resto di competenza fotografica. Anche gli assimilabili se non c’è un responsabile di produzione.
Fare assistenza non significa presenziare per imparare o rubare il mestiere… ma mettere a disposizione il proprio bagaglio affinché un altro faccia fotografie.
Piatto piatto così si capisce meglio.
Chiaro poi che è un rapporto dialettico e non si procede col cranio blindato: gli occhi devono essere ben aperti… le orecchie tese. E lo scambio reciproco.
Io faccio prevalentemente ritratto, e questo mi permette di mettere bene a fuoco la distinzione dei ruoli credo: a un assistente chiedo di garantirmi tutto il ponderabile, con un occhio attento all’imponderabile che mi riguarda. Tutto qui.
Ho imparato molto dal rapporto coi miei assistenti. Anche oggi.
Sono le persone che ho più vicino quando lavoro.
Da qui la mia stima e riconoscenza.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

AAA Assistente – Gallery

Con queste persone ho avuto la collaborazione più stretta.
A loro ho chiesto una fotografia che li rappresentasse e due righe, che qualcuno ha dilatato modello A4  (ho estrapolato, tanto c’è modo e spazio per tornarci sopra).
In tempi stretti. Per questo giustifico (parzialmente) l’assenza di qualcuno.
Che comunque includo.
L’ordine è cronologico e gli anni indicano il periodo:

Marco Pagani, fotografo:                  ’86 – ’90.

Guido Clerici, fotografo:                    ’90 – ’94.
Guido, 45 anni, campo con la fotografia. Un giorno lavorerò sul serio e fotograferò per passione. www.guidoclerici.it

Emanuela Balbini, fotografa:     ’94 – ’99, occasionalmente tra il 2003 e il 2010. www.emanuelabalbini.com

Fabio Zaccaro, organizzazione e preparazione servizi presso gli studi fotografici
Condé Nast, Milano:                           ’99 – 2004.
Una bella persona (l’assistente non è ne’ maschio né femmina, è semplicemente assistente). Dovrebbe avere la conoscenza tecnica fotografica più ampia possibile, e soprattutto come dice la parola stessa ASSISTERE il fotografo, nel suo significato più ampio e allrgato del termine.

Pietro Bomba, docente di teoria e tecnica fotografica presso ISFCI (Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata), Roma.     ’99 – 2001.
Con alcuni fotografi l’assistenza è un’esperienza emozionante, soprattutto quando c’è empatia e sintonia. E si diventa una vera squadra. Così ci si sente egualmente responsabili e partecipi del risultato.

Letizia Rgno, fotografa:     2003 – 2007.
Per come la vedo io la figura dell’assistente deve essere: superpreparata tecnicamente, disponibile, intuitiva e trasparente peccato nel nostro paese questo mestiere non goda di grande rispetto ( ? considerazione??).   www.letiziaragno.com

Nicole Marnati, fotografa:                2004 – 2008.
Una professione a tutti gli effetti : disciplina, responsabilita’, etica. Essere assistente e’ un processo di crescita e sicuramente un lavoro. Capirne i ruoli, i meccanismi , le ragioni e le conseguenze. Adottare una strategia. Ripettare le regole del gioco, ma giocare www.nicolemarnati.com

Giulia Diegoli, assistente:                  2009 ad oggi.
Credo ci siano tanti livelli ai quali si può lavorare e senza dubbio questa è una professione che diventa appagante nel momento in cui si instaura un rapporto di collaborazione attiva con il fotografo, per cui non sei solo un braccio che risolve problemi ma anche una testa capace di dar spunti differenti.

Lucia Iannuccilli, assistente:               2010 ad oggi.
Dietro ad un grande fotografo c’è sempre un grande assistente

Tutto da qui.

HEARTHQUAKE, Irpinia 1980. © Efrem Raimondi. All rights reserved.Irpinia 1980, terremoto. Tutto è cominciato da qui.
Prima non me ne fregava un granché di fare il fotografo.
Il reportage… questo articolo mi serve. Per ricordarmi che è da questo che sono partito.
Da qui e dal lavoro sui disabili ANFFAS, febbraio 1981.
E che non mi dispiacerebbe affatto rifrequentare: niente addetti ai lavori attorno, niente trucco e parrucco, niente salette riservate per uno pseudo pranzo… niente.
Niente visi imbronciati e zero glamour.
E il set ce l’hai davanti già fatto, devi solo preoccuparti di sottrarre al quadro generale la tua inquadratura. Perché è ancora una volta di sottrazione che si parla.
In questo non mi smentisco. Proprio no.

Avevo 22 anni, ero militare di leva in convalescenza per una polmonite: sessanta giorni in tasca e nulla da fare. L’università m’aveva stufato (e ho sbagliato, Filosofia era un bell’ambiente in Statale), che fare?
Sono partito con un gruppo di volontari, da Milano direzione Irpinia.
Una settimana dopo il sisma.
Con l’intento di dare una mano. Ma visto che era pieno di gente davvero in gamba, e la mia partecipazione non mutava di un grammo il peso, ho messo mano alla Nikon FE che avevo con me.
Più l’adorata Pentax K 1000, caricata con del Kodachrome 25
(ISO…V E N T I C I N Q U E!!!) che ho usato per qualche paesaggio e un po’ di fiorellini, roba mai disdegnata peraltro… si fotografa ciò che si vuole, e che in fondo piace: non ci sono sovrastrutture, e la fotografia non ha morale!

Col reportage ho un rapporto conflittuale… non per colpa sua. E manco mia.
Però già da subito.
Contravvenendo alle sacre regole di allora (adesso meno, dipende solo dall’ambiente), scattai a colore, con l’aggravante slide e pure di scarsa qualità vista la poca grana.
Ma senza alcuna premeditazione, senza alcun piglio snob. Semplicemente era così che mi andava di fare. Non so dire il perché.
So che sono tornato con la chiara volontà di fare il fotografo.
Un incosciente taglio intimista… di questo me ne sono accorto già là, mentre scattavo: il mio occhio cercava il non eclatante e rovistava nelle zone d’ombra. Nella quotidianità offesa.
L’unica eccezione forse, la sequenza di una riesumazione, quella che ho pubblicato in SEQUENZE. E che forse oggi non farei.

Questo modo di declinare il reportage è lontanissimo dall’attualità, della quale non me n’è mai fregato niente.
Oggi più che mai non dovrebbe fregare ad alcun fotografo, e nemmeno ai giornali.
È così che ho cominciato. Da un reportage avulso.
Che mi ha insegnato una cosa: la fotografia ha una gran voce, ma non è difendibile da alcuna parola.
O è, o buttala.


© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
HEARTHQUAKE, Irpinia 1980. © Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.


EARTHQUAKE, Irpinia 1980. © Efrem Raimondi. All rights reserved. HEARTHQUAKE
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nota: la cromia è quella originale. Non ho voluto modificare nulla del sapore di allora. Condito con un po’ di deterioramento forse.
Così l’ho scattato e così resta.

Luoghi: Calabritto, Teora, Sant’Angelo dei Lombardi.
Fotocamere: Nikon FE, Pentax K1000.
Film: una slide qualsiasi che non ricordo, semplicemente economica.
Più Kodachrome 25.
Più una dose generosa di ingenuità. Che mi è stata decisamente utile.
Più una certezza. Una sola: l’esposizione è tutto.
Sia della pellicola/file che del fotografo. Qualsiasi fotografia faccia.

Condividi/Share