Street Photography a chi?

Street Photography…
Di quando eravamo ignoranti.
 Per strada.
E non sapevamo che stessimo facendo Street Photography.
Quanto eravamo ignoranti…

Ci consola, un po’, il fatto che non lo sapevano neanche i Robert Frank, i Cartier Bresson, i Weegee – più strada della sua! – e tutta quella compagnia lì, randagia, zingara e precisa come il bisturi di un chirurgo. Intenta a fare Fotografia.
Incluso Eugène Atget, al quale Wikepedia mi pare, attribuisce la paternità. Della Street Photography. Amen.

Non m’interessa occuparmi delle denominazioni. Non in questo caso.
Non m’interessa quando la motivazione è formale e il neologismo sembra mosso dalla necessità di puntualizzare una distanza artificiale.
Frutto di un intellettualismo puerile, scolastico.
Frutto di un’esigenza commerciale.
Dettata da un mercato, quello dell’arte finanziata – spesso non coincidente con quello dell’Arte – che ha la necessità di sdoganare i prodotti di un’epoca fastidiosa e inattuale: quella della carta stampata.
Quando tutta questa fotografia si chiamava reportage.
E per quanto nobile sia il prodotto, la denominazione soffre dell’equivoco che la vorrebbe dedita alla documentazione.
In questo subordinata ad altre esigenze, più cognitive che espressive.
Una fotografia utile e basta.

Personalmente sono affascinato dall’inutilità delle cose.
Un po’ come dell’inutilità dell’uomo e del suo instancabile produrre.
Questo come postulato. Ideologico direi.
Poi, immischiandomi un po’: ma chi l’ha detto che Caravaggio è inutile?
Sì certo, forse per qualche ministro di questa repubblica…
E sporcandomi un po’ entro nel dettaglio per dire che l’utilità in Fotografia non è mai la discriminante.
Non lo è neanche la sua collocazione di genere.
Lo è solo la sua potenza espressiva. Indipendemente da ciò che rappresenta.
Da ciò che arbitrariamente impone.
E tu autore, chiunque tu sia, possiedi l’arbitrio per fottertene di qualsiasi denominazione?
Non si tratta di esporre. Si tratta di imporre.
La differenza tra esprimersi e emulare.
La differenza tra l’usare un linguaggio e farne la parodìa.
Questa è l’unica cosa della quale dovremmo preoccuparci.
E magari capire che la cosiddetta posa, cioè la percezione inequivocabile che il soggetto ha di noi, lì per lui che lo stiamo mirando, non rende la fotografia borghese.
O come ho sentito recentemente classica – magari! Provaci tu a diventare un classico!
Mentre se non si capisce un cazzo e tutto viene preso a randellate di flash allora è underground.
Quando stiamo fotografando, in quel momento lì, tutto il mondo è in posa per noi.
E ci tiene a una restituzione degna di una rappresentazione.
Se così non fosse non avremmo uno straccio di fotografia.

Le due fotografie sotto, realizzate con una Tri-X tirata a 800 ASA sono del febbraio 1982 e febbraio 1983, quando consapevolmente ingenuo girovagavo accompagnato spesso da una fotocamera 35 millimetri.
È stato un periodo utile al fine del ritratto che cominciavo a immaginare e che da lì a poco ho affrontato.
In banco ottico.
Ero timido con le persone. E l’idea di piantar loro addosso un obiettivo mi terrorizzava.
Ma la figura umana volevo affrontarla.
Il ritratto volevo affrontarlo.
Stare per strada, o comunque in luogo pubblico, è stata una palestra.
Uscivo con due ottiche: un 20 e un 35 mm.
Perché mi costringevano ad avvicinarmi.
A sentirla proprio la persona. Percepirne la fisicità.
A volte con la fotocamera puntata partivo da un po’ lontano e mi avvicinavo.
Dritto come un tram alla sua fermata.
Era fondamentale che mi vedesse distintamente.
Nessun equivoco: ce l’avevo con lui.
Lui il soggetto, lui al centro della scena, lui che  a quel punto mi distingueva bene.

Non scattavo finché non ero sufficientemente vicino.
E col suo sguardo in macchina gli dicevo: La sto fotografando… sia gentile, mi guardi, mi guardi bene.

Scattavo solo quando avevo la consapevolezza che non stessi facendo uno scatto.
Ma che avevo davvero qualcosa di simile a una fotografia. A quello che pensavo fosse una fotografia.
Che è anche la storia di una relazione.
A volte non dicevo assolutamente nulla.
Ma alla fine due chiacchiere si facevano sempre.
In assoluto non è così importante. Relativamente al percorso che stavo impostando, alla mia palestra di strada, lo era.
Comunque sia, i fotografi non rubano niente. Semmai ammazzano.

©Efrem Raimondi, 1982 - All Rights Reserved

©Efrem Raimondi, 1983 - All Rights Reserved

Mi resta solo un rammarico.
Del signore ritratto in treno, che mi guarda così, non ho saputo più niente.
Com’è nell’ordine delle cose.
E se non avessi scartabellato nel mio archivio, giusto per vedere cosa combinavo un po’ di tempo fa per strada, non avrei neanche la sua fotografia.
A questa ci tengo.
E ce l’ho.
Matrice solida.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Fotografia trasversale

Trasversale.
Che non è Eclettico… che in qualche modo, sotto sotto, assume spesso una declinazione spregevole. In fotografia come fosse una fusione di stili.
E tu che ci sguazzi usando come soggetto la forma.
Quella pura. Quella che fa della gradevolezza il passe-partout interdisciplinare…
Ma la Fotografia è una. E non c’è nessuna interdisciplinarità: se hai uno sguardo e l’apparato grammaticale per esprimerlo sei in grado di attraversare qualsiasi stato.
E appropriartene.

A condizione che ti appartenga. A patto che ti riguardi.
E questo vale per chiunque. Che sia un professionista – lo sono anche gli artisti, quelli veri – o un dilettante, uno cioè che di fotografia non campa, ciò non di meno è in grado di esprimersi compiutamente.
Due figure diverse non contrapposte che hanno un denominatore comune: come declini, e solo questo, fa la differenza.
Perché il soggetto è la fotografia prodotta, non le mèche dell’autore.

Trasversale.
Che tu ritragga un umano, un gatto, un edificio o una patata…
Che tu veda una sedia, un paio di scarpe, un tubino o una baldracca…
Che tu sia fermo sulla strada, fronte mare, lungo un fosso o all’inferno…
Trasversale.
Che tu sia ritrattista, stillaifista, paesaggista, reportagista, fashionista o qualsiasi ista tu sia… cos’è, se giri lo sguardo resti muto?
Cos’è che vuoi raccontare? Sarà mica tutto lì, lungo l’orlo di una sottana?
Che magari va benissimo e racconti cose che non so immaginare, e mi convinci.
Davvero mi conquisti.

Solo che a me l’orlo non basta.
Solo non impedirmi di voltarti le spalle e rotolarmi dove mi pare.
Dove mi riconosco. E potrebbe essere ovunque. In chiunque.
Dal grande direttore d’orchestra ai funghi del Lambro.

Che ne so io? Che ne sappiamo noi? A priori nulla.
La fotografia ha un solo obbligo: va fatta.

La riconoscibilità di un autore non sta nel fatto che ritrae solo funghi del Lambro.
O grandi direttori d’orchestra.

Questa è solo una sempificazione. Estremamente utile.
La riconoscibilità è un sottile fil rouge che attraversa funghi e direttori. E riconduce a te.
C’entra niente con l’eclettismo. Molto con la trasversalità dello sguardo.

Il fine non è di piazzarsi sulla cima del mondo, in trionfo al MOMA con la banda e le petalatrici, ma di trovare la nostra cima.
E da lì, assenti, indifferenti al brusio sottostante, estranei al rumore sovrastante, bersi un Martini Cocktail in santa pace.
Cosa che mi appresto a fare.

Jmmy Choo - Vogue Pelle by Efrem Raimondi

Vogue Pelle, 2005 – 30° Anniversary Issue.
Jmmy Choo, sandalo.
Redazionale, una di quattro.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Parametro Pupo

Ho fotografato Pupo. Lo dico alle lectio appena finita la proiezione del mio lavoro intorno alla figura umana, convenzionalmente detta ritratto.
Tra tutte le persone che ho fotografato, nella circostanza è l’unico nome che cito.
Perché è un parametro perfetto se intendi fare ritratto.
Ci sono cliché e postulati sul ritratto tutti frutto di una serie di equivoci.
Almeno per ciò che mi riguarda.
In primis che sia un ambito chiuso, la cui essenza e cifra espressiva si misurano con la capacità dell’autore di restituire l’anima del soggetto.
Bene…
Tu guardi Pupo. Ma vedi me.
Quindi di che anima stiamo parlando?

Non ho mai pensato di fotografare la persona, qualsiasi persona, con la presunzione tipica del ritratto: non   c a r p i s c o   un cazzo!
Una presunzione pericolosa. Perché più che in ogni altro ambito fotografico riduce la dialettica iconografica entro il recinto del genere. Ed è facile crollare.
Lavoro. Ed è un lavoro che coinvolge tutti i sensi che hai.
Ciò che si vede è solo un abbaglio: è ciò che non si vede, è lì che lavori. Lì che risiede la tua cifra espressiva.
Stiamo facendo Fotografia…
La cui dialettica non ha restrizioni: o è così o per me non è Fotografia. L’unica cosa che mi interessa produrre.
Ci provo. E qualche volta ci riesco.
Sai che mi frega del Ritratto!
Altrimenti in Pupo non mi sarei mai riflesso.
E al massimo avrei potuto restituire una didascalia.

L’ho ritratto nel 2006, in partenza per non ricordo quale posto impronunciabile dell’ex Unione Sovietica: se usassimo la presunzione del ritratto, se usassimo la nostra presunzione estetica, musicale in questo caso, restituiremmo ciò che non ci riguarda.
Invece l’intento è di restituire qualcosa che ci riguarda intimamente.
Detesto chi fa calcoli in fotografia.
E si risparmia perché la persona che sta ritraendo non corrisponde al suo circuito… Culturale? Estetico? Morale?
Quella faccia lì, quella che poi mostriamo, è la nostra!
Porta la nostra firma…
Qualcuno mi dica perché dovremmo certificare così banalmente i nostri limiti espressivi…
Invece la faccenda è molto più semplice. E ha a che fare con la complessità di Pupo.
Ed è qui che ti devi fermare.

Qui, per andare oltre la didascalia di genere.
Qui, disintegrando il paravento della privacy.
Qui, e non hai alibi.

Tutto è possibile. Con chiunque se davvero comunichi.
Una qualità dialettica direttamente proporzionale alla fotografia prodotta.
Anche nella divergenza. Anche quando c’è scontro.
Anche quando ciò che fa il soggetto che ti tocca non ti riguarda.
E anzi, più non ti riguarda più la fotografia che produci deve essere roba tua.
Anche per questo Pupo è perfetto.
Amo l’immagine che ho restituito. Una di quelle che amo di più.
E questo affetto è davvero gratis. Perché a prescindere da qualsiasi aspettativa.
Che poi, altro errore capitale: avere delle aspettative.
Le fotografie si producono facendole.
Non pensandole. Non parlandone.
Nel ritratto è quando hai la persona davanti.
Il prima, con tutte le sue sovrastrutture, e il dopo con tutte le promesse non mantenute, contano zero.
Non conta chi hai ritratto. Non è una questione di tacche e quante più persone famose hai mirato più sei figo. Forse per la vanagloria mediatica, solo per questa, ha un valore.
Ma in Fotografia conta solo il come.
E chi hai davanti in quel momento è tutto.
Io avevo davanti Pupo.
Sei tu.
Sono io.
Sono felice di averlo ritratto.
Dovesse succedere a te, cosa faresti?
Non chiedertelo. Fallo.

Pupo by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved

Fiumicino. Hilton Rome Airport Hotel, dicembre 2006.
Quando collaboravo con Grazia magazine.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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