Ponchielli – 10 anni

Ponchielli - Efrem Raimondi blog

 

Il premio Ponchielli ha 10 anni…
Voluto nel 2004 dal GRIN – Gruppo Redattori Iconografici Nazionale – per ricordare Amilcare Ponchielli, il primo photo editor italiano.
Mi ricordo bene Amilcare… l’ho incrociato e ci ho chiacchierato diverse volte in Rizzoli, ad Amica. Anche se credo di avere collaborato con lui solo a un paio di redazionali. Un po’ di tempo fa…
L’ho conosciuto tardi, e mi spiace moltissimo. Perché mi piaceva davvero: persona di poche parole, ma precise e dirette.

Lo sanno tutti, è un premio prestigioso: un premio per un progetto fotografico adatto alla pubblicazione su un periodico oppure online.
Come si legge nella prefazione di 10 Fotografi 10 Storie 10 Anni, il libro che appunto festeggia il decimo anno del premio.
Sì, c’è anche del reportage… ma anche no.
Mi viene da dire che c’è semplicemente della fotografia.
Semplice e complessa… fotografia insomma.
Complessa, non complicata…
Cioè prodotto di talento e capacità espressiva.
E siamo sempre qui: il fulcro è il linguaggio, come lo moduli è affar tuo.

Dieci anni undici autori: Alessandro Scotti – 2004, Giorgia Fiorio -2005, Massimo Siragusa – 2006, Lorenzo Cicconi Massi – 2007, Paolo Woods – 2008, Martina Bacigalupo – 2009, Andrea Di Martino – 2010, Guia Besana – 2011, Tommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco – 2012, Fabio Bucciarelli – 2013.

Diversi e tutti molto autorevoli gli interventi scritti.
Ma io cito solo Mariuccia Stiffoni Ponchielli perché dice questo: Tutti i progetti che hanno vinto il Premio Ponchielli o che sono stati segnalati rappresentano la speranza che parole e immagini ripartano da un punto zero verso un pensiero attivo, una coscienza critica, una capacità di giudizio libera.
Bellissimo!
Mi piacerebbe che i magazine lo stampassero in cima al colophon.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Ponchielli - Efrem Raimondi blogAlessandro Scotti, 2004

Ponchielli - Efrem Raimondi blogGiorgia Fiorio, 2005

Ponchielli - Efrem Raimondi blogMassimo Siragusa, 2006

Ponchielli - Efrem Raimondi blogLorenzo Cicconi Massi, 2007

Ponchielli - Efrem Raimondi blogPaolo Woods, 2008

Ponchielli - Efrem Raimondi blogMartina Bacigalupo, 2009

Ponchielli - Efrem Raimondi blogAndrea Di Martino, 2010

Ponchielli - Efrem Raimondi blogGuia Besana, 2011

Ponchielli - Efrem Raimondi blogTommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco, 2012

Ponchielli - Efrem Raimondi blogFabio Bucciarelli, 2013

Ponchielli - Efrem Raimondi blog

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10 Fotografi 10 Storie 10 Anni – Premio Ponchielli 2004-2014.
Contrasto, 2014.
224 pagine, illustrato, rilegato, 21×19 cm.
€ 24,90.

Inoltre il GRIN sta preparando una mostra a riguardo, che si terrà alla Galleria San Fedele di Milano il prossimo mese di marzo.
Diverse le possibilità di adesione. Qui il link con tutte le info:

MOSTRA

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Italo Lupi – Interview


Italo Lupi by Efrem Raimondi ©Efrem Raimondi

Italo Lupi…
In realtà non sono molte le persone nei confronti delle quali ho un debito di riconoscenza.
Italo Lupi è una di queste.
Stima totale.
E vero affetto.
Non vado oltre… aggiungo solo che per me è un onore collaborare con lui.
E sono davvero orgoglioso di avere delle immagini pubblicate nella sua Autobiografia grafica, uscita nel 2013 e che il New York Times ha incluso nella top ten dei libri illustrati.
Mica chiacchiere…

L’intervista, integrale, segue un po’ il tracciato del libro.
Che è qualcosa di spettacolare. Per contenuto e forma.
Realizzata nel giugno scorso, è rimasta ferma tutto ‘sto tempo in attesa del ritratto che pubblico.
E che proprio non si riusciva a fare per diversi motivi.
Il 16 dicembre ci siamo riusciti.
È uno dei tre che ho realizzato. Gli altri al momento li tengo per me.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

I N T E R V I S T A   I N T E G R A L E

E.R.  Autobiografia grafica è un libro elegante, colto, ricchissimo… un libro di grande potenza che attraversa quarant’anni e più del tuo percorso.
Ed è di una magnifica leggerezza, a partire dalla scelta editoriale: non ha una cadenza cronologica, perché?

ITALO LUPI. Bah, perché mi sembrava noioso dare una sequenza strettamente cronologica a un libro che invece si muove attraverso dei segmenti di vita che hanno percorsi differenti, ma che riconducono però ogni volta a qualcosa che mi pare chiaramente espresso… si parla di quand’ero ragazzo, poi si parla dei primi progetti, poi si salta a progetti abbastanza recenti per passare a una divisione un po’ schematica in argomenti tipologici differenti: dai manifesti agli allestimenti, dalla piccola architettura all’editoria ecc. però evitando che ci fosse una cadenza temporale stretta anche perché il titolo AUTOBIOGRAFIA GRAFICA promette un po’ di più di quello che poi il libro dice… perché non è una vera e propria biografia. Però il connettere ogni lavoro fatto a un periodo, a una riflessione sulle esperienze di vita, mi è sembrato una cosa che potesse essere un attivatore, passami il termine, di emozioni, ricordi, cose che ognuno di noi macina dentro di sé mentre costruisce i propri lavori.
Per cui anche culturalmente, evitare la cronologia mi sembrava cosa più leggera e meno didascalica… meno scolastica insomma.
Che poi non è un escamotage per evitare la noia, perché una vera biografia non è affatto noiosa se racconta di una vita avventurosa… forse la mia non è stata così avventurosa – risata – mi sembrava però più intelligente riuscire a connettere le cose per dei fili sottili che si intrecciano lungo il percorso di una vita…

Una sequenza però esiste… non sarà cronologica ma esiste un fil rouge…
Sì certo! Ma è un po’ come quando fai un’impaginazione – e poi ti dico perché questo libro mi ha insegnato molto sull’impaginazione –ti muovi partendo da uno schema mentale, da una gabbia che infrangi continuamente perché non è la gabbia in sé che rende ben fatto il lavoro… ma è la gabbia che ti riordina e ti dà una dimensione, e come spesso succede, quelli che sono dei recinti ti danno più ordine e intelligenza e anche più fantasia, non una fantasia dissennata. E allora questo fil rouge esiste, e spero si avverta con la costanza di un certo affetto verso le cose e le persone… il tributo dato a tutti quelli a cui devo qualcosa, pubblicando non solo miei lavori ma anche i lavori di chi mi ha influenzato e mi spiace che il libro abbia solo 400 pagine perché volevo mettere ancora più citazioni e contributi…

Quante pagine in più ci sarebbero volute?
Tante! Per mettere tutti quelli che hanno contribuito… un affetto non solo nei confronti delle persone che mi hanno veramente aiutato, ma anche per le cose fatte, per la manualità… il fatto di essere onesti con se stessi e con la gente: cioè sfuggire da un certo conformismo, che in qualche modo sto constatando, in modo benevolo, sulla mia pelle.

Interessante… cioè?
Ma… io son sempre stato abbastanza appartato malgrado facessi un lavoro molto pubblico come direttore di Abitare o art director di Domus… però non ho quasi mai partecipato a dibattiti, non ho mai concesso interviste inutili, salvo questa naturalmente…
Be’, questa è la più inutile che potevi fare ed essendo l’unica ce la possiamo in qualche modo concedere – ridiamo entrambi
… un certo conformismo, una certa improvvisa deferenza dopo la pubblicazione di questo mio libro… mi danno il Compasso d’Oro alla Carriera… mi chiedono interviste… insomma tutto avviene un po’ trainato da questo piccolo successo: mi chiamano a parlare, io mi rifiuto… squillano i telefoni… insomma è tutto un po’ facile… stamattina mi telefonano per prendere l’impronta della mia mano…

Insomma ti infastidisce abbastanza si direbbe… secondo te è un po’ il frutto del surplus mediatico nel quale ci troviamo…
Certamente sì. Un surplus mediatico che si indirizza a delle persone che acquistano un minimo di notorietà. Che poi intendiamoci, io sono molto contento perché su questo libro sono uscite due pagine sul Manifesto, una pagina su Repubblica, una pagina sul Corriere, una sul Sole 24ore, una su La Lettura, una su La Stampa, cinque pagine su Domus… più di così…

A proposito, il New York Times ha incluso Autobiografia grafica nella Top Ten dei migliori libri illustrati del 2013… così, a margine.
Sì, e a proposito c’è un’intervista di Steven Heller, che firma la colonna Visuals per la NYT Book review… personaggio molto importante negli Stati Uniti per il design e la grafica… grandissimo conoscitore della grafica italiana a partire dagli anni ’20…
Una recensione molta bella ed esauriente è stata fatta da Elisa Poli su Domus on line. Davvero ben fatta.
E, insomma, sono abbastanza sorpreso della risonanza che questo libro ha avuto… tu c’eri in Triennale alla presentazione?
Certo che c’ero! E c’era una marea di gente fuori che non trovava posto… è stata una serata molto bella… ti avrà fatto molto piacere immagino.
Ecco, io credevo che al massimo avremmo riempito le prime cinque file… mi ha fatto molto piacere perché mi sembrava che non ci fosse quell’esibizionismo mondano che spesso c’è in queste cose, anche giustamente: in questo caso mi sembrava che fossero tutte persone che avevano lavorato con me, o miei amici…

Be’, ma c’era un pubblico anche molto trasversale, non necessariamente legato al design o alla grafica stretta: ho visto una gran bella Milano quella sera.
Ma è chiaro che non mi dispiace affatto che ci siano state quelle critiche che ho citato, serie e ben fatte, è un certo surplus che si presenta come un’ondata che trovo più che fastidioso, inutile… che sembra un po’ il riflesso del ”non si fa mai fatica”… in fondo di cosa mi vanto degli anni passati a dirigere Abitare se non del fatto di aver cercato di scovare delle nuove intelligenze che non avevano nessuna appiglio o credenziale di vantaggio per me e per tutta la redazione, che a questa ricerca partecipava, ma di avere pubblicato tutti ragazzi che adesso hanno notorietà: sono stati tutti pubblicati per la prima volta da noi su Abitare… fotografi di cui mi servivo, tra cui anche un certo Efrem Raimondi, o Toni Thorimbert… erano persone che a quell’epoca erano molto giovani. Anche illustratori… insomma ho cercato di essere libero da condizionamenti di varia natura dall’inizio del mio lavoro. E questo credo che mi abbia ripagato 40, cinquant’anni dopo perché credo di non aver mai fatto, e lo dico con molta serietà, nulla per interesse personale o di aver mai fatto cose legate alla pubblicità quando facevo le riviste, mai! E questo viene ripagato… felice di aver fatto un libro che trovo divertente soprattutto perché è molto nuovo come miscuglio di professioni, e di cose della vita, di aver riprodotto grandi dei disegni non miei ma di altri che hanno contribuito alla mia crescita mentale, culturale e affettiva. E questo non è così comune.

Hai dichiarato che questo è un libro sulla nostalgia ma non è nostalgico: ci spieghi p.f.?
Sì, questa è una frase di Giannino Malossi e che io ho ripreso. Ed è così… è vero… ma non è che abbia nostalgia, ho un bel ricordo di tutte le cose che mi son capitate nella vita… son stato fortunato, non so…

Subito all’inizio, decrivendo gli anni del ginnasio con quelle che chiami prove di manifesti per cose che mi erano care, queste le descrivi come ingenue: che valore ha per te l’ingenuità, quella iniziale? È possibile in qualche modo mantenerla?
Credo sia assolutamente fondamentale mantenerla, l’ingenuità, che ti porta poi a dei risultati che sono meno ingenui di quando facevo certe cose con la tempera troppo diluita ecc. però l’ingenuità, cioè porsi un po’ vergini di fronte ai fenomeni che devi affrontare e farli diventare come delle iconografie generali, è necessario.

La tua attenzione alle font tipografiche mi è sempre parsa evidente… il rigore col quale tratti il carattere fa pensare che tu lo ritenga di per sé soggetto: vero?
Certamente! Non è vero rigore… perché non mi pare di essere stato rigoroso. Non so se hai letto il ricordo che ho fatto di Massimo Vignelli sul Sole 24ore di domenica primo giugno… Lui aveva un grande rigore, limita a tre caratteri, quattro con l’aggiunta del Futura, l’utilizzo che lui fa della tipografia.
Do molta importanza al carattere tipografico, però penso che i caratteri siano tanti… ce ne sono di bellissimi e nei primi tempi di utilizzo del computer sono stati distrutti da una mania deformante… stringi, allunga, tira… cose del tutto inutili. Adesso non dico che si sta ritornando all’ordine, ma è più chiaro che già è stato detto tutto nel campo dei caratteri. Per cui mi sono sempre servito dei caratteri di buon disegno, anche molto differenti perché passo dal Caslon corsivo, all’Helvetica ovviamente… News Gothic, ai caratteri con le ombre…

Italo Lupi, Efrem Raimondi Blog

Ce n’è uno che prediligi in assoluto?
Potrei dire Helvetica e Bodoni sicuramente… sono due caratteri fondamentali: uno con le grazie – come dicono gli inglesi serif – e uno sans serif come l’Helvetica o il Futura, certamente sì. Però l’aver usato in modo un po’ bulimico ogni tipo di carattere…non so…un pregio, un difetto… insomma me ne sono un po’ infischiato di essere così coerente, anzi l’incoerenza è una cosa che si legge un po’ nel libro, perché m’interessa di più… la difficoltà nel mio lavoro è quella di avere la capacità di selezionare, di eliminare molto di ciò che ti viene in mente quando ti propongono qualcosa e di scegliere la migliore, cosa che non è detto che sia avvenuta: la sottrazione è un punto di difficoltà ma è fondamentale.

Parlavi di gabbia prima, di un luogo che in qualche modo dà una dimensione… mi viene da chiederti: diresti a un giovane che avere degli argini, un recinto è importante e aiuta?

Ma di aiuto mentale! In tutte le cose… nella cultura e anche in politica, perché uno che sa darsi degli argini, dei margini, è ancorato al realismo delle cose.
E se non sei ancorato al realismo non riesci a fare delle cose di piena fantasia… chi pensa che non ci sia nessun limite poi in qualche modo implode… soprattutto fa delle cose inutili e nulla è peggio dell’inutilità e del surplus che si sta creando.
Questo libro, a proposito di gabbia, mi ha insegnato una cosa che ritengo fondamentale da utilizzare: questa volta mi muovevo tra le pagine senza avere il minimo schema di gabbia. Mi sono semplicemente mosso a seconda della situazione, se dare più o meno peso alla parola piuttosto che al disegno o alla fotografia. Un’enorme libertà, proprio infischiandomene… però dico questo arrivato alla bellezza della mia età – ride – mi sono proprio divertito

Cos’è un MARCHIO?
Quale il tuo approccio nel realizzarlo?

Il tentativo che faccio è di sintesi molto forte, molto evidente…
poi non sempre ci si riesce, perché la vita è più difficile di quanto si pensi.
Quelli che più amo sono quelli che o attraverso il carattere tipografico o attraverso la sua trasformazione in un’immagine riescono a dare del soggetto di cui tu fai un logo o un marchio, un’idea immediata.
Posso alludere al Museo Poldi Pezzoli… non è una MPP scritta storta o in diagonale… e racconta tutto perché moltiplica l’icona principale, la Dama del Pollaiolo e te lo rende leggibile, forse indimenticabile. Un marchio è quella cosa che nella sintesi più estrema esprime qualcosa di più che non sia quello che tu solo pensi, ma che vedendolo possono pensare anche gli altri.

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Ci parli del manifesto per i 50 anni della Vespa, p.f.?
Se dovessi rifarlo non farei l’errore che ho fatto. Perché son due i manifesti: uno che è quello che ho fatto con la Vespa di cartone ondulato che poi esecutivamente ha fatto Marina del Cinque che lavorava nel mio studio… ma è l’altro l’errore, quello della metropolitana di Londra, un diagramma che adesso si vede dappertutto, ma allora, nel 1996, non si usava affatto. E l’errore è averlo fatto su fondo nero perché non ti ricorda la metropolitana di Londra che è sempre stampato su fondo bianco. Anzi, voglio ridisegnarlo…

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Sei stato art director di Domus, direzione Mario Bellini, dal 1986 al 1992. Poi hai diretto Abitare fino al 2007: quali le differenze del tuo intervento?
Tra l’art direction e la direzione? Non molte. C’è sì una differenza tra le due riviste, ma a Domus facevo un po’ più dell’art director… non dirlo a Bellini però è così, con lui si discuteva, e lui suggeriva tutto, ma ascoltava anche le mie proposte, si facevano le cose… E poi penso che il termine art director debba essere superato da art… non so, da editor, da redattore in genere: in fondo trovo che non si tratta di impaginare bene una rivista, ma devi avere una memoria lunga delle cose che hai visto. E credo di avere molta memoria delle immagini che ho visto, che ho preso e che ho sfruttato… perché poi io son rimasto con le urla del ’68 che gridavano la proprietà è un furto, e oggi mi viene da sorridere con un po’ di rabbia quando sento quelli che se pubblico una fotografia che è diventata ormai un emblema di un periodo, mi arriva – dagli stessi – la lettera dell’avvocato. Ma la cosa peggiore è che è accaduto addirittura per una città… ho fotografato una poltrona a Parigi e il comune mi ha mandato una multa perché non avevo pagato i diritti sull’uso improprio dell’immagine della città. Questa idea di fare tutto per profitto è orrenda…
Va be’…
La vera differenza comunque tra Domus e Abitare è che mentre la prima era una rivista che si rivolgeva esclusivamente a professionisti architetti o designer, abituati al linguaggio e poi non essendo io il direttore… mentre con Abitare mi rivolgevo a un pubblico molto più vasto, variegato e trasversale. Il merito di Abitare quando lo facevamo noi, era quello di avere una grande curiosità che si espandeva in campi molto differenti da quelli di cui solitamente le riviste di architettura si occupano. Adesso potrei dire è proprio la curiosità a mancare, anche per quelle web: bisogna avere una curiosità che va al di là dei confini disciplinari di cui ti occupi come rivista, perché sono queste curiosità che danno il sale alla minestra.

Cos’è il disegno urbano e quali le ragioni di intervento, sia nel tessuto metropolitano che nella piccola cittadina? I tre anelli che incorniciano la Mole Antonelliana di Torino sono da intendere in questa direzione? Com’è nato il progetto?
Il disegno urbano… è come nel ‘700, si fa per fare festa, anche se non è solo questo. E si interviene soprattutto in occasione di avvenimenti, come per esempio le Olimpiadi di Torino. E a questo proposito, a chi genericamente accusa di disonestà nelle grandi opere in Italia, vorrei ricordare che per le Olimpiadi di Torino sono affluiti molti miliardi eppure non c’è stato un solo caso di frode o di imputazione, e sono molto orgoglioso di avere partecipato a un’esperienza del genere, che ha trasformato una città bellissima come Torino, lasciando anche una scia…e un grande ricordo nella città.
E allora, perché fare arredo urbano? Perché certe cose necessitano di una segnalazione più forte e perché no, anche di festa. Alcuni interventi urbani danno gioia alle persone, anche inconsapevolmente. E anche per piccole cose. L’Expo di Milano ci ha dato l’incarico di disegnare le bandiere delle varie nazioni che partecipano all’evento. A partire dalle prime 12 che hanno aderito all’Expo e poi via via fino a arrivare alle attuali 144 ufficiali. Queste bandiere sono due anni e mezzo che sono esposte, e sono ancora perfette, ben tirate ed è un esempio di come le cose possono essere fatte bene: una struttura di grande pulizia dotata alla base di una seduta che ospita del verde e dove ci si può sedere. E siamo gli stessi, Ico Migliore, Mara Servetto e io, che abbiamo riempito di rosso Torino con le bandiere per l’Olimpiade. L’arredo urbano si può fare bene, anche nelle piccole cose che poi sono quelle che danno davvero gioia a chi la città la abita. Penso in buona sostanza a un arredo che poi resta…

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Come per i tre “anelli” della Mole a Torino…
Sì… pensa che il quotidiano La Stampa aveva fatto un referendum e il 99% dei torinesi ha voluto il mantenimento anche oltre il periodo. Adesso finalmente li hanno tolti, perché troppo a lungo poi le cose annoiano…
Che poi l’idea, non tanto di fare i tre anelli, prima rotondi e infine quadrati, ma di illuminare la Mole è stata di Anna Martina… ed è stato molto divertente farlo… anche seguire tutta la parte che ha riguardato issare fisicamente e che è stata opera di una squadra di scalatori, proprio di quelli che vanno in montagna, e che normalmente si occupano della pulizia dei vetri dei grattacieli… e anche della Mole stessa che tra l’altro ha una particolarità e cioè che ogni metro e ottanta per 1,80 c’è un anello di ghisa robustissimo per cui tutta l’operazione è stata molto semplificata, sia salire che fissare l’opera… Alessandro Antonelli, l’architetto della mole, era davvero un genio.

Cos’è stato Printed in Italy? Meraviglioso libro del 1988…
Sì, molto riuscito – sorride. Un esercizio… un bell’esercizio di grande libertà e soprattutto di dimostrazione al cliente, l’Associazione Nazionale Italiana Industrie Grafiche Cartotecniche e Trasformatrici, che l’idea dalla quale era partito e cioè di fare un libro che dimostrasse la potenza dell’associazione attraverso una serie di vedute aeree di stabilimenti tipografici… ma ti immagini alla terza, quarta foto di stabilimento la noia? E allora ho semplicemente suggerito di utilizzare una serie di tipi di stampa differenti, con carte differenti, di autori differenti, chiamare un po’ tutti i grafici del mondo, che era più piccolo di quello attuale… insomma un esperimento e davvero un divertimento notevole, con una qualità di stampa superba a cura della Tipografia Meroni…
Era l’ultima questa, vero?

Abuso del tuo tempo: chi era e cos’è stato Achille Castiglioni?
Un simpatico intelligentissimo papà…
Be’ però! Questa mi sembra una risposta esaustiva…
Sì… – sorride.

Italo Lupi, Efrem Raimondi Blog

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Hai lavorato con diversi fotografi, per esperienza diretta posso dire che è un vero piacere collaborare con te, perché la dialettica diventa elemento fondamentale del percorso creativo: quale il tuo rapporto con la fotografia? Cosa chiedi a un fotografo? Tra l’altro se non ricordo male tu fotografavi…
Sì… ho fatto anche interi numeri di Abitare con i miei reportage fotografici… adesso non ho più tempo né voglia forse…
Vero, ho lavorato con diversi fotografi. Qual é il rapporto? Ma… innazitutto di tipo realistico, cioè la forma delle cose. Non è che non sopporto, perché non è così, però quando leggo e vedo giovani fotografi che fotografano i margini… dopo venti volte che vedo dei marciapiedi rotti la cosa m’interessa meno. A me piace fotografare con delle persone che hanno sangue nelle vene e un interesse reale per le cose della gente… e di quelli che ho scelto, coi quali ho collaborato, non mi sono pentito… di nessuno, e non solo dal punto di vista professionale ma anche sul piano della dialettica, dello scambio di idee, della discussione… poi non sono un grande teorico…

Per concludere, che idea hai dello stato del’editoria periodica italiana?
É il momento più alto della sua storia, ma non solo italiana… un po’ in tutto il mondo – ride proprio – Però è tragico… tragico pensare che riviste come… va be’ non farmi dire…

Ultima. Proprio alla grande… il Compasso d’Oro, che hai appena ricevuto…
Sì, alla “Carriera”… No, non me l’aspettavo… averlo ricevuto insieme a altre persone… Armani… Mendini… Sapper… e altri che obiettivamente hanno una notorietà maggiore della mia, mi ha fatto inorgoglire e un po’ intimorire a dire il vero… mi sembra sempre poi quelle cose alla Carriera che vengono date alla fine della professione attiva, e allora sai… dal sapore un po’ tombale e invece io spero di no! A parte gli scherzi è stato un gesto davvero affettuoso da parte dell’ ADI…  – Associazione per il Disegno Industriale.

Be’ insomma… se prendiamo appunto la tua Autobiografia Grafica che è un condensato notevole del tuo lavoro nel corso di questi anni; è anche un momento di sintesi e per qualche raro smemorato un momento di riflessione su un percorso alto che è stato molto importante…
Ma in effetti mi piacerebbe molto vincere il prossimo Compasso d’Oro per il libro… quello mi piacerebbe certamente, forse sarebbe giusto… nel senso che è un libro insolito soprattutto perché cambia molto l’impianto solito delle monografie nel campo del graphic-design e del layout exhibition design… perché spero sia proprio una riflessione sulla disciplina progettuale, sulla cultura, sulla vita.

Milano, 10 giugno 2014
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Italo Lupi, Efrem Raimondi Blog

Autobiografia grafica, Italo Lupi.
Corraini Edizioni, 2013.
378 pagine, illustrato, rilegato, 20,7 x 26,5 cm.
€ 50,00

AGGIORNAMENTO 9 NOVEMBRE 2015

ITALO LUPI BY EFREM RAIMONDI

Politecnico di Milano: Laurea Magistrale ad Honorem in Design della Comunicazione.

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Questo Paese

Questo Paese, Efrem Raimondi BlogA me fanno sorridere quelli che Facebook non ci penso neanche…
Perché la questione social è un capitolo particolare, con eccezioni e distinguo.
Per dire: Questo Paese, cioè questo libro  nasce da un gruppo infilato in Facebook…
WE DO THE REST
Ed è un esempio di come la parola Progetto qui abbia una valenza reale e precisa.
Infatti adesso è un libro.
Che si deve alla volontà e all’intelligenza di Fulvio Bortolozzo, e che è appunto il curatore.

Venticinque autori per settantacinque fotografie.
E come recita il sottotitolo, Osservazioni fotografiche nell’Italia contemporanea. Alcune di queste non sono tanto nelle mie corde, ma questo c’entra poco. Quello che conta è che partendo da Ghirri c’è chi cerca un altro binario espressivo. Perché mica è lo stesso paese, quello di Viaggio in Italia
Nel 1984 e in quel fondamentale libro, c’era una certa caparbietà… una volontà oltre la ragione. A tutti gli effetti ha dato la cifra a uno sguardo ottimista. E la visione del paesaggio è stata un’altra.
Oggi non è più così. E bisogna trovare una cifra espressiva che sappia superare un ottimismo inesistente. Senza cadere nella facile, e anche un po’ didascalica, iconografia delle macerie… che palle!
Non è facile.

Questo Paese, Efrem Raimondi BlogBenedetta Falugi – Mattia Sangiorgi – Tiziana Sansica – Luca Moretti – Antonio Armentano

Questo Paese, Efrem Raimondi BlogNino Cannizzaro – Gaetano Pareggio – Luca Capello – Luca Migliorini – Andrea Lombardo

Questo Paese, Efrem Raimondi BlogMattia Parodi – Bruno Picca – Roberto Bianchi – Domenico Cipollina – Sandro Bini

Questo Paese, Efrem Raimondi Blog

Paolo Fusco – Salvatore Lembo – Mauro Thon Giudici – Carlo Corradi – Ilenio Celoria

Questo Paese, Efrem Raimondi Blog

Rodolfo Suppo – Franco Sortini – Claudia Corrent – Giancarlo Rado – Giacomo Streliotto

In Questo Paese ci sono anche i testi di: Marco Benna, Gianni Mazzesi, Anna Mola, Enrico Prada, Nello Rossi, Umberto Sartorello. Più la prefazione di Fulvio Bortolozzo.
E anche uno mio. Una breve riflessione che qui ripropongo integralmente.


Il mondo è un altro. Stupisce che ci sia un buon numero di persone che non se ne siano accorte.
E il motivo è riconducibile a un solo fatto: non sono materialmente toccate dallo sconquasso.
L’ambito fotografia è di fatto uno dei più ribaltati.
Come sempre, la medaglia ha due facce.
Nella circostanza mi interessa solo quella che ha concretamente permesso questo progetto. Che è la faccia positiva quindi.
Quella che solo la centralità della rete, del Web insomma, rende possibile.
Quella che trova nella condivisione il plus dialettico.
Usando bene il setaccio l’arricchimento è indubbio.
E infatti siamo qui.
Quando è uscito Viaggio in Italia (1984), a cura di Luigi Ghirri, quello che realmente è accaduto è che è stato tracciato un solco visuale non solo sul paesaggio italiano in quel momento, ma sul modo di rappresentare  e restituire il paesaggio tout court.
In ampia scala con gli accenti sul marginale e il silenzio.
Il distacco partecipato, potremmo dire. Tutt’altro che impassibile.
Che è diventato un binario.
Nel frattempo, anche l’Italia è un’altra. E le contraddizioni aumentate: noi siamo un paese insanabile.
E mentre il tempo ghirriano è ancora ottimista, in un certo senso progressista e partecipato, qui si prende atto che non è andata così.
E l’osservazione più distaccata.
Questo Paese, cioè questa produzione, questa fotografia, si trova in un punto intermedio.
Non è facile…
E il binario ghirriano non ancora metabolizzato completamente.
Solo che in questo caso vedo alcuni prodromi per una visione che è altro. Magari ancora parallela a quel binario, ma appunto non coincidente.
Insomma mi sembra che le basi per immaginare lo scarto, qui ci siano.
Ed è uno scarto salutare. Dobbiamo convincercene.
E insistere.

Milano, novembre 2014.

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Preview libro

Questo Paese, Efrem Raimondi Blog

Questo Paese, blog dedicato

Questo Paese, Efrem Raimondi Blog

Camera doppia, il blog di Fulvio Bortolozzo

Camera Doppia Blog

Ho scelto un’immagine per autore tra quelle disponibili nella preview del libro.
Sempre nella preview sono leggibili tutti i testi.

Il tutto generato da una pagina Facebook.
Ma perché soltanto tre fanciulle?

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MuFoCo – ASTA

Questa asta è a favore del Museo di Fotografia Contemporanea, il MUFOCO, come tutti lo chiamiamo.

Ed è un impegno che ha come protagonisti i fotografi… cioè noi in generale.
Nello specifico coloro che si trovano in questo catalogo:

Efrem Raimondi per MUFOCO

L’asta si tiene SABATO 13 DICEMBRE, ore 17, presso LA TRIENNALE DI MILANO – Salone d’Onore.
Banditore Fabio Bertolo, della Casa d’aste Minerva Auctions di Roma.
Le opere sono visibili nella stessa giornata, ore 12 – 16,30.
Qui tutte le informazioni a riguardo: http://www.mufoco.org/fotografi-per-il-mufoco/

Io partecipo con questa fotografia: Philippe Starck.
Un ritratto del 1996, FINE ART Giclée ai pigmenti, 40/50 cm, tiratura 1/20.

Philippe Starck by Efrem Raimondi

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

A NOI CI FREGA LO SGUARDO – Asta

Di corsa.
Mi scuso.
A volte il tempo , il mio, si ferma.
Sono in colpevole ritardo… spero non troppo.
Questa è la prima delle due aste benefiche alle quali partecipo quest’anno.
Con due opere distinte.

A NOI CI FREGA LO SGUARDO, direzione artistica di Denis Curti.
Martedì 2 dicembre alle 18,30 alla Galleria d’Arte Moderna di via Palestro 16, Milano.
A favore di  COMUNITÀ NUOVA ONLUS DI DON GINO RIGOLDI

Tutte le opere sono già visibili in sede d’asta – da ieri…
Questo il  CATALOGO

Banditore d’asta, Clarice Pecori Giraldi, Senior Director di Christie’s Europa.

E volendo, le opere sono già prenotabili  QUI

Queste le  INFO

Partecipo con Impronta Uno, stampa libera. Lotto 19.

A NOI CI FREGA LO SGUARDO

Colore NERO

Efrem Raimondi Blog - Nero Pastoureau

 

Il colore è un concetto.
Non una verità Pantone.
Ed è un concetto variabile, a seconda dell’epoca in cui lo si percepisce e si usa.
Noi diamo per scontate troppe cose…
Un esempio per tutti: il colore blu c’era, ma i greci non lo sapevano.
Non riconoscendolo come colore, non aveva una denominazione.
E mare e cielo vengono descritti con un sacco di sfumature.
Mai col Blu.
Non lo vedevano?
È la domanda che si trova in I colori dei nostri ricordi, sempre di Michel Pastoureau, il maggior esperto al mondo di storia del colore.
Che non ha illustrazioni, che non riguarda nello specifico il Nero, ma che non si può evitare di leggere. Perché qui il colore in quanto tale è soggetto assoluto, ma relativo nel racconto della vita di ognuno di noi.
Senza neanche sforzarci tanto, pensiamo a un daltonico.

Il colore è un concetto. Non una verità Pantone. Ed è un concetto variabile, a seconda dell’epoca in cui lo si percepisce e si usa. Un esempio per tutti: il colore blu c’era, ma i greci non lo nominavano non riconoscendolo. E mare e cielo vengono descritti con un sacco di sfumature. Mai col Blu. Non lo vedevano? È la domanda che si trova in I colori dei nostri ricordi, sempre di Michel Pastoureau. Che non ha illustrazioni, che non riguarda nello specifico il Nero, ma che non si può evitare. No.

Il nero, come del resto il bianco, per quasi tre secoli sono stati vissuti come dei non colori: più o meno tra la fine del Medioevo e tutto il XVII secolo.
E un po’ oltre in realtà, se si pensa che solo all’inizio del XX secolo riprendono possesso del proprio certificato di appartenenza al comune spazio cromatico.
La loro vendetta è iniziata però nel XIX secolo ed  è stata grande: un mondo proprio, dal quale tutti gli altri colori erano esclusi… la fotografia.
Il loro sodalizio diventa un brand potente: BN… B&W.
Replicano col cinema e poi con la TV.
In fotografia continuano a sottolineare la loro differenza: BN da una parte e il COLORE dall’altra.
Separati in casa. Con punte di odio profondo, religioso si direbbe.
Il digitale ha un po’ incrinato alcune certezze creando equivoci, e certo questo bianconero RGB non avrebbe mai la denominazione BN dall’ortodossia analogica.
A ragione… ancora troppo presente la memoria e la prova di un  bianconero pieno, al di sopra di ogni sospetto e di ogni altra traccia cromatica.
Ma tranquilli, il digitale farà piazza pulita di questa memoria.
E così potremo, o potranno i posteri, occuparsi della ricerca del bianconero perduto… una sorta di nuova disciplina del tempo libero.
Per alcuni, i più fighi, una branca dell’Estetica con tanto di corso di laurea.
Rigorosamente quinquennale. Minimo.

Un bianconero digitale è invece possibile…
Basta appunto pensare al nero, e al bianco, come concetto.
Che idea hai del nero?
Pensaci quando lo esponi. E io lo sottoespongo. Perché il nero non è un grigio scuro nel quale sforzare la vista alla ricerca di una traccia del proprio passaggio.
Nel nero voglio affondare.
E quando non è soggetto, è comunque complice perfetto nel dare volume e profondità a tutta la scena. E a tutti gli altri colori.
Per questo mediamente ne aggiungo dal tre al 5% in postproduzione una volta ultimato il tutto. Appena prima di chiudere. Poi chiudo e basta.

In principio era il nero, un intero capitolo, il primo, in cui Pastoureau traccia le linee dell’intero Nero. Storia di un colore.
Che è il percorso storico di questo colore assoluto.
Dalla notte dei tempi, quando Dio dal buio pesto creò la luce, fino al nostro contemporaneo. Che c’entra poco, niente a volte, col Nero che ci ha preceduto.
Una lettura illustrata di oltre duecento pagine. Una meraviglia.
Perché si tratta del percorso millenario di un colore imprescindibile attraverso il relativismo delle epoche. E delle culture.
Anche delle superstizioni.
Un trattato insomma.
Sul Nero. Dove a volte si intrufola il Bianco.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nero. Storia di un colore, Michel Pastoureau.
Traduzione, Monica Fiorini.
2008, PONTE ALLE GRAZIE Editore.
212 pagine, illustrato, rilegato, 23 x 23,6 cm
€ 34,00

I colori dei nostri ricordi, Michel Pastoureau.
Traduzione, Laura De Tomasi.
2011, PONTE ALLE GRAZIE Editore.
240 pagine, brossura con alette, 13,5 x 20,7 cm
€ 16,80

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Forse

maybe, Efrem Raimondi

“Ma davvero sei fotografo?”
“No, per finta. La fotografia è finzione.”

La domanda mi è stata posta in un bar.
Nello stesso bar la risposta.
È andata così. Ma non c’è mai una risposta univoca. Salvo in casi estremi o immediatamente pratici, tipo “Vuoi del bourbon?”
O sì, o no. Forse, non è una risposta.
“Forse…”
Ecco fatto… poi facci sapere.
In fotografia, essendo un altro mondo, una realtà parallela ma in quanto tale non coincidente, FORSE è la condizione.
La fotografia decalcomania, quella che aveva nella catalogazione del mondo il suo motivo di esistere, è sparita. Forse.
Ma da una cifra, appena s’è stufata di fare gara di realismo.
La fotografia assertiva, quella che si prende la briga di affermare semplicemente se stessa, è quella che a me interessa.
E qui sì che c’è una coincidenza e riguarda la visione dell’autore.
Che è una finzione, una simulazione di realtà.
Qualsiasi cosa ritragga è una rappresentazione del sé.
Dico subito che non me ne frega niente di scadere nella sociologia spicciola e nella psicologia, spicciola anche lei, e cominciare a disquisire sull’uso degli smartphone negli asili e il loro impatto sulla famiglia moderna… che s’impattassero pure.

Quindi il soggetto della fotografia è se stessa.
Ed è superfluo invece sapere in che percentuale sia prossima alla realtà. O peggio, alla verità.
Mi preme sintonizzarmi con ciò che rappresenta. Di più! Sul come lo rappresenta.
In sostanza mi interessa la rappresentazione della realtà e la sua manomissione. Il grado di possesso dell’autore.
Quando il mondo vide Morte di un miliziano di Robert Capa, 1936, i peana non si contarono. E andarono avanti fino ai primi ’70, quando si cominciò a dubitare dell’autenticità della fotografia.
Prego??? Già, perché pare, si dice, ci sono prove, analisi e dibattiti che invece no: il miliziano è soggetto sano e vegeto, mentre fuma sigaretta, in fotogrammi successivi; che il miliziano è caduto due volte; che non nei pressi di Cordova ma in località Cerro Muriano e poi e poi non mi dilungo, tanto è tutto noto.
Questa fotografia è stata l’icona del reportage, la foto delle foto… e adesso no, che mica si fa così, che Capa ci ha preso tutti per il culo.
Che smacco! Che smacco?

Susan Sontag - Efrem Raimondi Blog

Susan Sontag in Sulla fotografia, nella prima edizione del 1973  – Einaudi 1978 – dice:
Le conseguenze della menzogna sono necessariamente più importanti per la fotografia di quanto potrebbero mai esserlo per la pittura in quanto le fotografie avanzano pretese di veridicità che non potrebbe mai avere un quadro.
Quando lo lessi da ragazzo mi piacque molto. L’ho sfogliato recentemente e ho riletto le precise sottolineature che feci allora: ecco, adesso sarebbero molte meno.
Non so dire se all’epoca della sua pubblicazione la Sontag fosse al corrente o meno dell’ambaradan che si stava mettendo in piedi intorno al miliziano di Capa. Presumo di sì.
A scanso di equivoci in Davanti al dolore degli altri, Mondadori 2003, che invece trovo comunque molto interessante dice: L’efficacia di “Morte di un miliziano repubblicano” sta nel mostrarci un momento reale, catturato fortuitamente; perderebbe ogni valore se dovessimo scoprire che il soldato sul punto di cadere ha recitato per l’obiettivo di Capa.

Susan Sontag - Efrem Raimondi Blog

Quindi il vero soggetto non è più l’immagine, ma la sua veridicità.
Questo viene detto. Di fatto.
Ma cosa cambia!?
È assolutamente probabile che Capa abbia assistito in altre circostanze alla morte essendo un fotografo di guerra.
E questa è una fotografia verosimile. Quanto percentualmente sia prossima alla verità è importante?
No. Nella misura in cui Capa si preoccupa di rappresentare la realtà che continuamente vede. E ce la restituisce.
Può essere un falso storico?
Sì, nel suo specifico. No nella sua rappresentazione.
E fine della faccenda.
Questo è un esempio molto pertinente sul come diversamente si può intendere la fotografia. Ed è indubbiamente considerabile come estremo, quasi oltre. Quasi non accettabile. Quasi blasfemo.
Ma la fotografia che ci interessa e che facciamo non è la perizia di un sinistro.
E non ha alcun obbligo col reale, verso l’esistente tangibile e catalogabile, che è solo una comodità fotografica, un luogo dal quale attingere a piacimento.
Detta piatta: prendo ciò che voglio e lo restituisco come voglio ex novo. Ma perché sia davvero finzione, e quindi fotografia, non si nota. Compresi mossi e sfuocati, che dichiarano apertamente l’essere una rappresentazione.

Architettare la propria finzione… che per quello che mi riguarda ha sempre a che fare con la rappresentazione della realtà percepita. Compresa quella dell’inconscio. Comprese emozioni, passioni, pruriti e idiosincrasie.
Rappresentazione, non didascalia. Rappresentazione, non escamotage manieristico.
Rappresentazione, cioè quella roba che prevede un’appropriazione e una restituzione che non riguarda la Storia.
Che poi, come se la Storia fosse un certificato di morte.
Magari lo è, ma apparente. Che a scriverla notoriamente sono i vincitori.
Paradossalmente è proprio quella fotografia che ha nell’intenzione una certificazione di verità che oggi si ammanta di beltà ultramediatica. Perché la realtà non è abbastanza vera… non somiglia alle cover di certi bei magazine.
Fino a diventare caricatura.
Un parossismo comico. Che però piace alla gente che piace.
E che è di un trash cosmico. Globalizzato si direbbe.

Ma che bella faccia! Fresca di carrozzeria si direbbe se non fosse di Steve McCurry… ma vi piace davvero questa fotografia?
Che a me non sembra diversa dall’iconografia cara alle suicide girls.
Come tornare al vecchio pittorialismo. Uguale.
E in tutto questo si trova il tempo per esporre al pubblico ludibrio, con espulsione da tutto, il fotografo Narciso Contreras reo di aver contraffatto una fotografia scattata in Siria eliminando una cinepresa da un angolo: ma fatemi il piacere!

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http://www.internazionale.it/news/fotografia/2014/01/23/un-fotografo-dellap-licenziato-per-una-foto-contraffatta/

Quante anime candide… quanta demagogia.
Sotto cieli che manco il giorno del Giudizio Universale, si decora la morte.
Senza indugio, butta tutto.
E si ricomincia.
Si può fare.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

DOVE VAI


Otto opere 100×100 cm.
Realizzato in Franciacorta (Lombardia) nell’ottobre 2002
con una SX-70.
Con lo sguardo attonito, rivolto a terra poco oltre i miei piedi, attraverso un paesaggio mutato e continuamente mutante.
Dove tutto si mischia e coesiste… simile ormai
in tutta la vecchia Europa.

Questo la scheda di DOVE VAI, inserito in Tracce. Una mostra a invito voluta dalla Fondazione Terra Moretti e dalla rivista Photo.
Ospitata in due sale de L’Albereta Relais & Chateaux di Erbusco: Franciacorta piena.
Adelaide Corbetta e Wolf-Gregor Pazurek i curatori.
Oltre a questo mio lavoro, quelli di Hassan Badreddine e di Hugh Findletar.
Era il dicembre 2002… qualche anno fa.
 La Polaroid SX-70 alla portata di tutti. E perfetta per questo percorso: testa bassa e passo veloce.
Perché lo ripesco?  Non è mai stato sommerso… sedimentava.

Ci sono immagini che sedimentano.  Un privilegio che non riguarda tutte le fotografie che realizziamo. 
E che in genere non riguarda le “migliori apparenti”, quelle cioè che subito ti fanno gridare al miracolo e quanto sei bravo. Figo. Geniale. Con quel taglio che solo tu e quella luce che emana dall’io profondo…
Non dobbiamo avere fretta. A maggior ragione adesso coi mezzi a disposizione, coi quali rischi il cortocircuito tale è la mole di materiale e l’immediatezza dell’immagine.
Mi sono costruito una gabbia entro la quale stare. E non sono uscito di un millimetro.
In questo il quadrato aiuta. Perché in qualche misura asseconda la bidimensionalità di uno sguardo forzatamente privato dell’orizzonte.
Solo in una ho alzato le palpebre. Solo perché la stada era in salita.
E ciò che spuntava era poca roba… una macchia all’inizio del niente.
Aveva una sua misura decorosa, perciò non mi spaventava.
 Perché invece ciò che non ho registrato, ma che c’era in quella fascia di mezzo tra suolo e cielo, non aveva più niente di decoroso e mi lasciava statico e attonito.
Un po’ come la figura guida delle otto immagini.
Alla quale sono negati il mezzo busto e l’espressione.
Vorrei sapere che fine ha fatto l’orizzonte.
Vorrei sapere perché la misura del nostro sguardo non lo raggiunge più.
DOVE VAI è il lavoro col quale di fatto, mio malgrado, chiudo con la Polaroid. E con un paesaggio per certi versi assoluto e romantico. Che infatti non mi riguarda più.
Il paesaggio col quale ci confrontiamo oggi è un soggetto attivo e reattivo.
In tempi molto più rapidi rispetto a qualsiasi epoca precedente.
A me interessa intercettarne gli umori. E non solo i fenomeni.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Adelaide Corbetta e Wolf-Gregor Pazurek i curatori.
Fotocamera e film: Polaroid SX-70.
Scansioni da originale stampate 100 x 100 cm

TIRATURA 6 100/100 cm + 3 50/50 cm.

L’equivoco ghirriano

 

L’equivoco non risiede in Luigi Ghirri, che era totalmente padrone del proprio linguaggio.
E che nell’imperfezione, nella scia analogica lievemente sporca, trovava l’equilibrio espressivo del proprio silenzio.
Un silenzio per nulla muto, anzi un frastuono a volte.
Leggero e potente.

L’equivoco ghirriano è degli epigoni.
Che non se ne può più di perfezione morta… di tutto ‘sto dettaglio iperdigitale che va da qui all’infinito… di staticità incollata, millimetro dopo millimetro lungo il perimetro del formato, dal quale non esce e non entra nulla.
È tutto concluso… nell’equivoco ghirriano non c’è uno spiraglio. Mai un dubbio. Solo un ammontare di punti esclamativi, e ogni elemento si specchia in sé, evitando accuratamente la benché minima dialettica col resto e con gli altri… ognuno con la propria dichiarazione di guerra stampata in fronte.
Ognuno col suo colorito perfetto.
Fotografie ordinate per una fotografia ordinaria.
Non è una sentenza solo perché non ne ho il titolo.

In Ghirri la fotografia è tutto, le fotografie un pretesto.
Coi suoi tre formati, sempre quelli mi sembra (24/36 – 4,5/6 – 6/7), decodifica il mondo che vede. Che lui sa vedere ben oltre il confine del genere e della circostanza… mi sembrava assurdo che un fotografo potesse fare solo fotoreportage e non riuscisse a fotografare una cattedrale o l’interno di una casa, o elaborare un rapporto minimamente più approfondito con il visibile (visibile vuol dire quello che io sto guardando), con la rappresentazione in generale.
Direttamente da Lezioni di fotografia, edito Quodlibet, 2010.
Un piccolo volume che raccoglie le sue lezioni, quelle tenute all’Università del Progetto di Reggio Emilia, tra il gennaio 1989 e il giugno 1990. Un volume fondamentale nella sua essenza. Anche se alcuni dettagli sono stati spazzati via dallo tsunami digitale.
In alcuni casi neanche dettagli da poco. Insomma va letto.

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L’intero lavoro di Ghirri è il prodotto di una riflessione che ha pervaso l’ambiente amatoriale italiano a cavallo tra gli anni ’50 e i ’70. E che non esiste più. Né quell’ambiente, né quella riflessione.
E se è vero, come mi sembra di ricordare scrivesse proprio Ghirri, che la fotografia amatoriale era capace di grandi gesti espressivi – e lo era davvero – mentre buona parte del professionismo si limitava sostanzialmente al compitino, è altrettanto vero che oggi non è più così. E che anzi proprio l’equivoco ghirriano ne è manifesto.
La riflessione e l’espressione autentica oggi la riconosco quasi esclusivamente in chi la fotografia la produce in modo trasversalmente professionale. Forse proprio perché costretto a confrontarsi col cortocircuito digitale.
E solo raramente vedo autenticità e intuizione, basterebbe anche acerba, in chi non rischia mai nulla.
Una visione del mondo… questo lo sguardo di Ghirri e di tutto un ambiente amatoriale, fotograficamente molto colto e poco epigono, poco specialistico, che ha saputo produrre grandi immagini e grandi fotografi. Non importa se di successo o meno, per dirla alla contemporanea.
Oggi, che tutto è mischiato e una bozza di sguardo lo recuperi anche dal vicino di Instagram, non basta più.
Oggi devi avere una visione della vita.
E riprenderti le rughe.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Federico Motta Editore, 1992.
Quelle che seguono sono parte di un redazionale per INTERNI mag – settembre 1984, con testo di Giovanna Calvenzi.

Ghirri, dal Blog di Efrem RaimondiGhirri, dal Blog di Efrem Raimondi
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Trussardi – Monografia mossa

© Efrem Raimondi. All rights reserved.


Se non si muove nulla, allora muoviti tu.
Se il movimento è incerto, allora sii deciso… corri.
Se la frenesia è altrui, allora stai fermo.
E tutto ciò per fare cosa?
Fotografia. Mossa.
Perché il mosso di cui parlo si fa quando si scatta.
Non dopo.
Che poi, diciamolo chiaro: si vede la differenza!
Ma perché mai si dovrebbe omologare una fotografia così?
Non ne ho idea. Né me la pongo.
Per questo all’occorrenza pratico.
E al Futurismo non ho mai pensato. Neanche per sbaglio.
Neanche la prima volta, che credo sia stato più o meno quando ho preso la fotocamera in mano.
Solo che appunto, poco dopo averla presa in mano ho passato i dieci anni successivi in banco ottico. Scorrazzando in lungo e in largo. Un grande amore. Di quelli per sempre.
Ogni tanto mi sono concesso un break.
E con la macchinetta in mano godevo del dinamismo ritrovato.
Quello realmente fisico.
È come passare dall’affresco e il trabattello, alla bomboletta e il fianco del metrò.
Ma non è mai stato un caso. Qualche volta un gesto isolato, vero, ma per essere davvero efficace e liberatorio serve un percorso.
Uno spazio ampio: argini alti che ne garantiscano il fluire e diano un ordine.
Perché altrimenti il mosso è solo un’ubriacatura… che poi passa e non ti rimane niente. Non ne ricordi nemmeno il motivo e fatichi a trovarne il senso.
Il mosso non è lo sfuocato, che non prevede alcuna dinamica: fermo lì a smanettare l’obiettivo e cambiare le sembianze, che accentuano  la matrice bidimensionale.
Il mosso è invece penetrazione della materia, sfondamento dello spazio, illusione percepibile di un volume.
Patteggiamento col tempo, che deformi a tuo piacimento.
Come un funambolo, così mi sento… appeso a un filo col baratro ovunque. Perché è un attimo finire di sotto. O di lato.
Attraversi il vuoto in uno stato di allucinazione, che è la condizione per raggiungere la sponda. E ritrovare la gravità. Quella che ti riguarda.

Questo lavoro è stato concepito così. Ne avevo bisogno.
Era morto da poco mio padre. Volevo spaccare il cielo.
Tutto questo a Nicola Trussardi non l’ho detto.
Anche se ne avevamo chiacchierato in due occasioni di questo progetto.
Né l’ho detto a Christoph Radl, suo il progetto grafico.
Non credo proprio potesse interessare. Erano solo fatti miei in fondo.
A entrambi loro, giustamente, interessava vedere cosa sarebbe emerso.
A fine settembre 1996 ho realizzato la prima parte, ci siamo visti, e a quel punto mi è stato chiesto di realizzare anche la parte che avrebbe riguardato l’inaugurazione di Palazzo Marino Alla Scala.
Questo lavoro, questo mosso, costituisce la struttura iconografica del libro Trussardi, Marino Alla Scala.
Ci sono altre immagini, di Mark Borthwick, Riccardo Bianchi, Santi Caleca, Massimo Montagnoli – caro amico scomparso prematuramente – e Mario Testino.
Ma la struttura, la cifra, appartiene a questo mosso.
Il cui soggetto è Milano.
Piaccia o meno, è proprio così.
Una monografia… Un libro. Che richiedeva esplicitamente uno sguardo.
Ricordo molto bene l’espressione di Nicola Trussardi quando guardava le stampe dell’intero lavoro: gliene sarò per sempre grato.
Questo non è un amarcord. Questo è un punto.

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Trussardi, Marino Alla Scala
118 pagine – Rilegato a spirale, 24 x 30 cm
Contenuto in scatola 28 x 32 cm
Progetto grafico Christoph Radl/R+W
Stampato da Nava Web
Milano, marzo 1997.

Le immagini qui pubblicate sono solo una selezione dell’intero lavoro.
Fotocamere Nikon FE e FE2
Obiettivi Nikkor: 20/3,5 – 50/1,8 – 105/2,5 in un’unica immagine.
Film: Agfapan 100 e 400 ISO

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