Educational Smartphone

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedIl mio smartphone al netto di tutto, 2018.

Smartphone e fotografia… un dualismo superato dagli eventi, anche tecnologici.
Che sia parte integrante del corredo di diversi fotografi, è un fatto.
Di più: certificato dal prodotto fotografico che in alcuni casi vediamo.
E che non si differenzia affatto dalla qualità espressiva degli stessi spostati su altre piattaforme ottiche.
Zero dicotomia, fine del preambolo.

Non è mia intenzione insistere su argomenti di retroguardia, e questo è soltanto un intervento direi didattico. Nient’altro.

Quello che invece c’è è che lo smartphone può essere un ottimo strumento educativo.
Ed è la prima fotocamera che consiglierei a chi inizia, a chi non ha la più pallida idea di cosa sia produrre fotografia, a chi magari un’idea ce l’ha… ma ciò che gli è più chiaro è la vaghezza di ciò che produce, la sua estemporaneità, che è un punto di coscienza.

Ma soprattutto a chi questa coscienza non ce l’ha ma è convinto che va tutto bene perché quella sua foto lì gli piace e punto.
Eh… ma a questi ultimi chi glielo dice che farebbero bene a fermarsi e mettere sotto carica lo smartphone?

Se non ce l’hanno, lo comprino. Insieme a un televisore.
E cominciare a guardarsi attorno per scoprire che esiste un mondo esterno.
Che magari non è proprio il nostro, ma col quale volenti o meno ci relazioniamo.

È educativo perché solleva da alcune incombenze tecniche, che sono fondamentali altro che no. Magari non adesso però… una cosa per volta visti i presupposti.
Adesso la priorità è cominciare a vedere ciò che guardi.
Quindi spalmare per bene nel perimetro fotografico che stai usando.
E a disposizione c’è un ampio display che non ti costringe alla visione stretta di un mirino.
Che stretta non sarebbe se non ci fosse l’abitudine di occuparsi esclusivamente del centro…
Ma non ci pensi. La periferia, i margini, non li guardi nemmeno e dulcis in fundo: da dove sbuca quel pezzo di sedia su nell’angolo sinistro del file?

Succede col posato, figuariamoci col resto.
Di fatto non possiedi la tua fotocamera già a partire dall’acchito.
Un ampio display, bello piatto davanti, favorisce il controllo senza perdere eccessivo tempo.

E cominci ad abituarti alla presenza contemporanea di più centri focali.
Magari può venire in mente che davvero tutto quello che vedi su quel parabrezza partecipa alla definizione dell’immagine.
E che alla fine il soggetto è il rettangolo nella sua interezza.

Secondo punto, fondamentale: l’ottica è fissa. Mediamente equivalente a un 28 mm.
Se non ti piacciono i grandangoli sei fregato.
Oppure impara a usarli.
In qualsiasi caso il punto vero è che non puoi smanettare nulla: zero masturbazione ottica.
Magari dispiace… però oltre a evitare la cecità, in realtà cominci a vedere fotograficamente.
Perché ciò che i tuoi occhi colgono non basta.
Il percorso è questo: guardi – vedi – trasformi.
La realtà con la quale ti misuri è un’altra.
Il prodotto è altro: non continuiamo a menarla con l’originale!
Non c’è alcun originale inviolabile. Ci sei solo tu.

E lo strumento in subordine.
Ma se non prendi atto delle sue specifiche balbetti.
Lo smartphone guarda e basta: fa’ che la tua visione occupi totalmente il suo spazio.
Sovrapponiti.
Vale per tutti gli stumenti, qualsiasi fotocamera.

Ma l’immediatezza di uno smartphone, in questo, è un plus utile.
Abituarsi a vedere – non a guardare – con una lunghezza focale, una sola, non inquina la visione, non è un compromesso borghese, ma una dialettica ineludibile al fine di produrre materialmente ciò che vedi.
E che senza di te non esisterebbe.

Sembra finita qui. Chiaro che no.
Infatti chi conosce anche tutto il resto della grammatica fotografica dispone meglio del proprio strumento qualunque sia.
Non vedo perché non con lo smartphone. Boh.

Pensare che può diventare lo strumento quotidiano…
Quello del tempo libero.
Che libero non è mai.
A meno di non avere un interruttore VEDO – NON VEDO.
Che intermittenza del cazzo…

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Il paesaggio…

Il paesaggio col quale ci relazioniamo è contaminato.
Solo in questo modo lo raggiungiamo…
Due gradi di contaminazione: l’uomo, come genere che occupa e subordina qualsiasi vita altrui, sassi compresi, e tu che arrivi dopo, cioè adesso.

E con quella bella espressione innocente ti guardi attorno alla spasmodica ricerca di stupore, alias, la tua redenzione.
Proprio la tua e degli altri chi se ne frega.
Che razza di paesaggio…

Quindi tu, uomo fotocamerato, che relazione cerchi col paesaggio che ti si para davanti?
E che urla anche quando c’è il cielo azzurro con le nuvolette…
Posso solo parlare per me, del mio senso di colpa e della mia impotenza.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedRANDA 253 – La Maddalena, 2018.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedINSTA 100 – Lago Maggiore, 2018.

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Sottrazione

© Efrem Raimondi - All Rights Reserved  INSTA 99, 2018

Sottrazione è il leitmotiv della fotografia che mi riguarda.
Tutta quanta: la mia più quella nella quale mi rifletto, fatta da chiunque.
Fatta…
Quindi non strafatta.
Sottrazione è un dato percepibile. Una condizione iconografica imprescindibile.
Non si vede. Eppure è la struttura portante.
Ed è forse questa sua condizione di scheletro che la rende impercettibile.

Ma regge tutta l’impalcatura.

Vive di un paradosso: non è data dagli elementi mancanti, ma da quelli presenti.
Dalla dialettica che questi hanno con lo spazio che gli appartiene e che coincide col nostro perimetro fotografico sia esso fotogramma o file.

Come si fa a spiegare…
Abbiamo il nostro spazio predeterminato: non è evitabile, non è modificabile.
Possiamo solo prendere atto del formato.

Che è vuoto. Se non interagiamo tale resta.
Ed è lì che tutto succede.
Non altrove, non a parole. Lì e basta.
Possiamo anche chiamarla composizione.
Che altro non è che la presa di possesso di questo vuoto.

E dell’interazione tra questo e ciò che aggiungiamo.
Come lo aggiungiamo determina l’esito di questa relazione.

Ciò che si vede è, ciò che non si vede non esiste.
Tutto qui.
Sottrarre in una operazione di somma significa occuparsi solo di ciò che serve dal punto di vista espressivo.
Tutto il resto è un surplus.

Sottrazione
è anche la parola d’ordine a ISOZERO Lab – il laboratorio iniziato a febbraio di quest’anno.
Ed è qui, in questo spazio creativo e didattico, che nel confronto coi lavori che si stanno producendo – o con le intenzioni di lavoro – che è emersa prepotentemente la necessità di sottolinearne l’importanza.
Con alcuni – siamo una trentina – questa sottolineatura è superflua.

Con altri invece occorre lavorarci.
Non è grave, c’è di molto peggio nel mondo.
Ma se è di fotografia che parliamo, capire cosa vuol dire sottrarre cambia l’esito del percorso.

Non è facile. Ma è semplice: basta riconoscere alcune convenzioni, passate ma anche attuali, e spazzarle via. Ricominciare.
E ricominciare è una bella sensazione.
Perché ci si è fermati. Ci si è guardati attorno… cos’è che non funziona? Com’è che non riesco a definirmi nella fotografia che produco? Ma cos’è tutta ‘sta roba che non avevo notato…
E ti accorgi di quanto vedere sia importante.
E per vedere, occorre in primis leggere lo spazio e ciò che contiene.
Il nostro spazio.

Ad alcuni ho dato un esercizio: l’analisi oggettiva della fotografia che hanno davanti. Propria o di altri.
Un inventario di tutto ciò che c’è.
Ed è incredibile come certe cose, alcune presenze, belle evidenti, non si vedano.
Motivo per cui non si distingue una fotografia da un fumetto, da una figurina.

E si fraintende sulla semplicità, pensando che sia una roba facile.
Sì? Allora falla.
E ti rendi conto di quanto LA maledirai.

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Fotografia a visibilità limitata

La fotografia è fatta di niente.
Quasi niente…
Ed è tutto.

Un luogo a visibilità limitata.

Un pulviscolo, un margine.
Un dettaglio rotto al quale aggrapparsi.
Un labbro.
E ti riempie gli occhi.

Se non lo vedi, non lo vedrai mai.
È tutto così semplice, la fotografia non esiste.
E questo è il motivo, l’unico, del fotografare.

INSTA 98 © Efrem Raimondi - All Rights ReservedINSTA 98, 2018 – from the series INSTARANDA

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#RANDA 213 – Ritratto a un amico.

#RANDA 213 –  Nino Saetti.
Fotografo e amico che se l’è vista davvero brutta l’anno scorso a San Siro prima di un concerto di non ricordo chi.
Lui lì a fotografare, cioè a lavorare.

Nino Fuori Modena, tutti i fan di Vasco Rossi lo conoscono così.

Un fastidio insistito. Un dolore. Cuore a pezzi.
Per fortuna era a un quarto d’ora da uno degli ospedali cardiologici migliori al mondo.
Sono andato a trovarlo. E non c’è stato bisogno di niente… ho capito che gli avrebbe fatto piacere lo ritraessi.
Io in realtà ero un po’ titubante. Perché lo vedevo provato.
Con l’iPhone, che è meno formale – non so se lo sia davvero – lui mi ha guardato così, e ho scattato.

Perché ci ho messo quasi un anno a mostrarglielo?
Non lo so.
Lo faccio qui, adesso che sta bene: #RANDA 213.

Nino, va’ che mi devi una cena.

Nino Saetti by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Stati generali fotografia + cinica latina.

Stati generali della fotografia alla luce di tutto: dell’intenzione – lodevolissima, dell’impegno, del percorso, della somma tirata.
Quest’ultima mi sembra mostri qualche lacuna.
E non è la politica della delega che può riempirle.

Perché nel leggere il Piano strategico della fotografia in Italia ci si trova di fronte, finalmente, a una vera intenzione – perfettibile, intendiamoci.
Alla volontà sincera del Ministero dei beni culturali di mettere mano al disordine.
E di produrre un reale supporto per la Fotografia di questo paese.
Anche l’intenzione di fare un REGISTRO degli autori, niente male.
Anzi finalmente mi viene da dire. E che Lorenza Bravetta declina come un registro di chi svolge la professione.

Solo che manca la copertura finanziaria da ciò che ho capito.
Solo che la delega più grande è al futuro governo – qualunque sia.
Due anni di lavoro intenso e ci troviamo di fronte a una wishlist…
Questo il rammarico.

In Brasile, al tavolo di una discussione a fronte di un progetto concreto, accade che il tuo interlocutore passa un tempo spropositato a tesserne le lodi, i benefici…
E la meraviglia che è.

Concludendo però, spesso, con una parola.
Una sola, tombale: infelizmente…

In italiano è come i desiderata…

In latino, lingua precisa, e soprattutto spesso meravigliosamente cinica, suonerebbe così se è di fotografia che si parla: Lens sana in corpore horrido.

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Fotografia sociale e beneficenza

La cosa interessante della fotografia è che mentre tu racconti ostinatamente la tua vita, tutti pensano che stai raccontando quella di altri, di chiunque o qualunque cosa ritrai.

E che tra te e un fiorellino di campo non c’è alcuna relazione.
Se non quella che ti trovavi a passare di lì.
Che tra te e il passante, tra te e Giorgio Armani, tra te e il gatto che incroci, tra te e il mare, non c’è alcuna relazione.
Che tra te e il terremoto non c’è alcuna relazione.
Come sopra: se non che ti trovavi a passare di lì.
Insomma, nella migliore delle ipotesi sei testimone della vita di altri.
Ed è meraviglioso! Uno scudo perfetto.
Camouflage iconografico che funziona perfettamente. Da secoli.
Provare per credere: tu sei quel perimetro ma sei invisibile.

Quindi: tu invisibile e rimettere al centro l’opera.
Che l’autore faccia un passo indietro. Anche due.
L’opera è tutto. Tu autore, lo strumento.
L’esatto contrario di quanto un sistema mediaticamente inquinato impone.

E non ci sono stigmate… non c’è alcuna fotografia nobile in sé.
Non c’è soggetto deputato: il come l’unico differenziale.
L’idea che esista una fotografia impegnata e un’altra in giro per campi a trastullarsi col finocchietto selvatico è una forzatura ideologica.
Che si regge su questo assioma:
La fotografia sociale è quel tipo di fotografia impegnata, di documentazione, strumento di informazione sulle problematiche relative alla società contemporanea. È un tipo di fotografia militante il cui obiettivo è di testimoniare a favore delle vittime e il cui scopo è di contribuire alla risoluzione delle principali problematiche sociali attraverso una testimonianza che possa agire in maniera diretta sull’evoluzione della mentalità umana e civile […] Si parla quindi di fotografia sociale a proposito di reportage fotografici. Ma può anche accadere che se ne parli in via del tutto eccezionale a proposito di immagini uniche e particolarmente scioccanti.

Michel Christolhomme – La fotografia sociale. 2010.

Quindi sarebbe lo shock a dare una patente di impegno a ciò che non è reportage…Questa sotto è una fotografia che ho realizzato nel 1990.
Una campagna NO PROFIT con l’agenzia Carmi e Ubertis a favore di ANFFAS.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedUn ritratto, anzi due: Alessandro e Elisabetta.
No shock. No reportage.
E adesso? È impegnata o no? È sociale o no?
La sottolineatura di genere ha una logica per un archivista o uno storico.
Non affine a un fotografo. Che fa altro.
Francamente della collocazione e delle stigmate non me ne frega niente.
Resta questa imagine.

Ne ho fatte altre a scopo benefico. NO PROFIT significa che non c’è compenso.
Nel ’93 e nel ’96 con McCann Erickson a favore di AIP.
Art direction Annarita Colombo.
Anche qui due ritratti a entrambi i presidenti, direttamente interessati: Paolo Ausenda e Marzio Piccinini.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedA differenza di quella ANFFAS, dove l’immagine è tutto, qui la parte copy ha un peso specifico.
Soprattutto Spero che il morbo di parkinson colpisca anche te: fummo investiti da una polemica feroce.
Ma dalla nostra avevamo il soggetto, cioè i malati.

E ancora tra altre, una a favore di PAL – Protezione Animali Legnano, 2009.
Perché non distinguo il piano dell’impegno.
Non sono specista e non riconosco alcuna supremazia.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedAvete idea di quanto terrore c’è in un fiore?
Ma se vuoi, continua pure a pensare alla tua fotografia impegnata e a come cambierà il mondo.
A me basta quella che ha cambiato me.
Parafrasando Hrabal, c’è più cielo negli occhi di un topolino che sopra le nostre teste.

UPDATE – 7 MAGGIO.
Mi sono state chieste delle informazioni a proposito dell’immagine ANFFAS, il dittico.
Sono due ritratti distinti. Che ho poi montato.
In realtà c’è una terza immagine: Andrea.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedSapevo dell’alto livello di disabilità. Sapevo che Alessandro e Elisabetta oltre a tutta una serie di grossi problemi erano anche sordomuti. Andrea anche… però si muoveva con le proprie gambe.
In compenso era cieco.
Questa era la situazione. E io dovevo ritrarli.
Ritrarli… non fare un reportage all’interno di una struttura.
Ritrarre è un altro piano della relazione.
Che prevede una comunicazione, una dialettica.
Come?

Contrariamente a qualsiasi logica optai per il banco ottico e la sua staticità, un 4×5 pollici.
Un 90 mm come ottica – equivalente a un grandangolo 28/30 formato leica… full frame in digitale.
Polaroid 55, che era un positivo – negativo.
Flash per un totale di sei/ottomila watt infilati in un grande window light, su in alto, quasi a picco.
Fondo bianco.
Il tutto fu la mia salvezza.
Perchè feci la mia inquadratura e da lì non mi mossi di un millimetro.

Cominciai con Elisabetta. Che si agitava sulla carrozzina.
Provai la luce. Mi accorsi che a ogni colpo di flash lei si tranquillizzava. Chiesi a sua madre che l’accompagnava come stava andando: Bene! Sta bene. Se così non fosse avrebbe già vomitato. Le piace la luce.
Ad ogni scatto dell’otturatore corrispondeva un leggero spostamento d’aria.
Perché ottomila watt flash muovono il diffusore in tela leggera di un window light così grande – tre metri per più di uno.
E si sente… c’è quella leggera spinta… e l’aria, leggera, si muove.
Queto è stato il mio piano di comunicazione.
Con tutti e tre.
Non so cosa ci siamo detti. Ma certamente abbiamo comunicato.
Ed è stato meraviglioso.

Un lavoro intenso. Una relazione forte, coinvolgente.
Tutti i presenti ne hanno beneficiato.
Anche un gruppo di studenti dello IED, come mi ha ricordato Claudia in un commento sotto.
Ho imparato molto. Ma dico davvero! Per esempio che il piano del linguaggio può variare.
E che l’epidermide non è semplicemente un involucro.
Per questo, anche, detesto chi la uccide in post produzione.

Questo è quanto. Ed è il tipo di contributo che preferisco sul piano della cosiddetta beneficenza.
Senza nulla togliere alle varie aste dove doni un’opera, e che indubbiamente hanno un valore, personalmente ho bisogno di un coinvolgimento diretto. Di mischiarmi con le cose e le persone.
Di uscirne realmente arricchito.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Presente imperfetto – New Old Camera – 12 maggio, Milano

Presente imperfetto. Lectio versione intima…
Organizzata da New Old Camera.
Milano 12 maggio.

È diversa da quelle pubbliche che ho fatto. Per numero di persone, qui limitatissimo, una quindicina, e per svolgimento.
Innanzitutto è una giornata insieme, con un break a pranzo, e poi il piano della visione e della conversazione è decisamente più dialettico.
Volutamente più lento.
E sulle cose si torna. Se necessario, si torna. Ne abbiamo il tempo.

Però occorre iscriversi. Qui tutte le info, incluso il costo – 80,00 €.
eventi@newoldcamera.it tel. 02 3658 92 16.

Il soggetto è il linguaggio. E la fotografia bella al centro: sei slideshow per un percorso che va dal 1980 a oggi.
Trasversale. Che è la fotografia nella quale credo.

Mica solo la mia…
Discutibilissima, ma è ciò che ho e che mostro.
Al netto di tutto.

Dalle usa e getta al banco.
Dall’assenza della fotocamera e per luce un accendino Bic.
Dalla Polaroid allo smartphone.

Da un’andata a un ritorno arbitrario…

Non si tratta di una chiacchierata, è proprio un momento di serio confronto.
Partendo dalla fotografia prodotta, non quella parlata. O immaginata.
Un excursus dinamico che ha un obiettivo: trovare, o ritrovare, l’orientamento.
Oggi, soprattutto oggi, penso che la riflessione sia importante.
A una condizione: esporsi.
Smarcandosi anche senza alcuna cautela da tutto ciò che è tendenza.
E non per chissà quale allergia intellettuale e un po’ fighetta, ma proprio per un’esigenza vitale.
Cercando di trovare la matrice espressiva che davvero ci riguarda.
Rischiando la nicchia.
Quasi auspicandola…

La fotografia che produci è ciò che sei.
La faccia, la tua.

Questo l’auspicio.
Ha un riscontro? Bene!
Non ce l’ha? Pazienza.
Ma a tutti noi, chi ce lo fa fare di fotografare?
Quale l’urgenza?

Inseguiamo che cosa?
Dove diavolo stiamo andando?

Se produciamo esattamente ciò che siamo, se pensiamo che non esiste alcun soggetto deputato, se il nostro differenziale è l’invisibile e come lo traduciamo, allora la fotografia è luogo confortevole.
E l’arbitrio il modo.
Non sarà universale, ma chi se ne frega.

Tutto semplice.
Tutto qui.

Presente imperfetto – 12 maggio, New Old Camera, Milano.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedSet per INTERNI magazine. Ottobre 2017.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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INTERNI magazine – Aprile 2018

Efrem Raimondi per INTERNI mag - Aprile 2018INTERNI magazine, aprile 2018. Cioè adesso.
House in motion è il tema di questo Fuorisalone 2018.
Il soggetto è sì l’abitare, ma anche la mobilità.
Quindi il movimento, il cambiamento, il divenire.
Pensandoci, la mobilità non è solo una relazione geografica, di luoghi insomma.
Ma anche di tempo… la nostra relazione col tempo.
Che ha una dinamica immediatamente percepibile e il suo andamento, il suo scorrere, ci viaggia addosso.
E cambiamo.
Come?
Questo è il percorso di questo redazionale.

Da ventisette a ottant’anni.
Ed è anche un po’ ironico, mica da prendere alla lettera cronometro in mano: una donna, una sola, Alessia di ventisette anni.
E poi Alessia di quaranta.
Di sessanta e di ottanta.
Al tempo ci ha pensato il makeup di Nancy Gallardo.

Come essere sempre sullo stesso palcoscenico. Il proprio.
Davanti a uno specchio che muta.
Così prendi la fotocamera e usi il suo tempo: un duecentocinquantesimo di secondo per fermare il tuo, e tutto il palcoscenico.

© Efrem Raimondi – All Rights Reserved

Efrem Raimondi per INTERNI mag - Aprile 2018Efrem Raimondi per INTERNI mag - Aprile 2018Efrem Raimondi per INTERNI mag - Aprile 2018

Efrem Raimondi per INTERNI mag - Aprile 2018Okome sofa by Nendo per Alias,
Clizia Bttery by Adriano Rachele per Slamp.

AIKU soft by Jean Marie Massaud per MDF Italia,
Next23 by Deanna Comellini per G.T.Design.

Era Settee by David Lopez Quincoces per Living Divani,
Klip by Michela e Paolo Baldessari per Modoluce.

Hangar by Gino Carollo per Calligaris,
Kiki by Alvar Aalto (1960) per Artek.

Astrum by Antonio Citterio per Maxalto,
Taiky by Chiara Andreatti per Lema.

Nesting by Roman & Erwan Bouroullec per Glas Italia,
èS ideato e prodotto da Design R&D Twils.

Brioni by LucidiPevere per Kristalia,
Ribot by Marc Sadler per Ethimo.

Toro by Michael Geldmacher per B-Line,
Emi by Arter&Citton per Scab Design,
Domino by Marco Acerbis per Talenti.

Modella: Alessia Falcini.
Prestatasi per la circostanza.
In realtà una giovane architetto.
Chi preferisce, architetta.

Stylist: Nadia Lionello.
MUA: Nancy Gallardo.
Assistente fotografia: Nicole Marnati.
Studio: M8STUDIOS.
Backstage Video: © Tommaso Gorani.

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IL FOTOGRAFO – IN CHIARO

IL FOTOGRAFO, novembre 2017.
Pubblico in chiaro l’editoriale che ho firmato. Adesso è possibile.
Per chi l’ha perso.
E per chi non ci ha pensato a suo tempo.

Ma magari…
Una breve riflessione il cui oggetto sono quei tre/quattro punti che penso siano al centro del produrre fotografia.
Comunque la si declini.

Denis Curti mi ha fatto notare che questo è l’editoriale che ha inaugurato la serie di quelli firmati da altri, cioè da chi ha un rapporto diretto con la fotografia, fotografi e non.
L’ultimo di Renata Ferri, molto piacevole.

E mi ha fatto anche notare che ho firmato la prima copertina della sua direzione, marzo 2015.

IL FOTOGRAFO - Cover: Efrem Raimondi Un caso.
Però mi piace pensare che non lo sia.

E adesso il testo, l’editoriale in chiaro.
IL FOTOGRAFO - Editoriale novembre 2017Non so perché son qui.
Ma non inseguo spiegazioni. Mai.

Esattamente come quando fotografo, che è un tempo contato, circoscritto al presente di una visione e alla sua trasformazione in qualcosa che è altro e che solo tu puoi rendere visibile.
Come avviene è il vero differenziale che ci riguarda.
Coincide o meno con ciò che avremmo voluto produrre?

Ex novo.
Due punti: uno, la fotografia non si preleva. Si fa. Prima di te quel perimetro non c’era.
Due, la fotografia si occupa dell’invisibile.
Di quello stato in cui qualsiasi cosa è realmente percepibile ma non ancora espressa nella forma che definisce noi, ognuno, agli altri che stanno a guardare.
Questo è ciò che fa la Fotografia: trasforma la percezione in forma.
Che per quello che mi riguarda coincide col contenuto.
E con me.
Con noi.

Questo l’auspicio.
Non serve sforzarsi… la percezione è una questione personale.
Intima.
E intercettiamo solo ciò che ci riguarda.
La fotografia la rende pubblica.
Fosse anche una figura umana, soprattutto un ritratto. Sul quale i cliché si sprecano.
Va be’, après.

Per rendere visibile ciò che non lo è, per rendere esportabile e finalmente leggibile ciò che davvero ti riguarda – qualsiasi cosa – occorre mirare bene.
Col massimo della precisione a disposizione. Nel caso incrementarla.
E la conoscenza tecnica è fondamentale.
Una questione grammaticale…
Chi sostiene il contrario, o ignora e se ne bea o è un demagogo.
Non so chi sia peggio.
Ma a noi che ci frega? Continuiamo per la nostra strada.
Un percorso dinamico, dialettico, che sia in grado di sostituirci.

Un colpo al cerchio e nessuno alla botte.
Siamo ciò che iconograficamente esprimiamo. Senza se e senza ma.
Con qualche dubbio a corredo. Che è utile.
Quindi la precisione è importante.
Le regole, vituperate/esaltate…
Quattro in tutto quelle che servono.
E una manciata di tempo per capirne la logica.
Poi sta a te usarle. Manipolarle. Asservirle.
Imparare a dimenticartene.
E tra queste non c’è quella dei terzi. Della quale francamente ignoravo l’esistenza fino al 2010, quando ho aperto il mio account Facebook.
Scoprendo che c’era chi ammazzava per lei.
E ignorava tutto il resto.
Una, fondamentale: l’esposizione.
Bella al centro.
La sua modulazione crea l’immagine.
Quindi non serve scannarsi in periferia, ma puntare al centro con consapevolezza e umiltà.
Dichiarare la propria visione del mondo, fotografia dopo fotografia.
Coerentemente.
Trasversalmente, aggiungo.
Se possiedi un linguaggio, è questo che fai.
Ed è semplice.

Pinzolo, agosto 2017.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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