Piano Americano – DUE, ottobre 2002
Bigino da combattimento sulle convenzioni del ritratto.
Mi piace ripetermelo: raramente una bella immagine è l’immagine di qualcosa di bello.
Dico ripetermelo perchè tanto poi a esserne fautori non si è mica così tanti: in una assemblea di addetti ai lavori, magari dal tono annoiato che non guasta, tutti pronti a levare la mano… ma poi, non appena ci si distrae dal trend (quella cosa che si insegue come un aperitivo o una inaugurazione… lo stesso) ecco le levate di scudi.
Finché si parla d’altro va bene, ormai tutto è stato digerito e vomitato. Ma col ritratto no. Soprattutto col proprio, che se non è edulcorato a puntino non lo si riconosce.
E lo si rispedisce al mittente.
Il problema della riconoscibilità diventa un fatto di dignità, di passaporto per l’immagine: è il problema della memoria, della relazione tra noi e il ricordo di noi stessi.
Il ricordo di noi stessi… un’icona inviolabile e inalterabile. Una roba simile al look.
Primo punto sostanziale: chi se ne frega.
Non ritraggo con la demagogica presunzione di restituire una memoria che non mi appartiene: io racconto la mia storia.
E la memoria è la mia.
Con tutto il resto funziona: col paesaggio urbano e non, con la moda e lo still-life, persino col food, il formaggio svizzero e le famiglie dissestate inglesi. Con le tentazioni pedofile.
Col reporatage, quello colto e un po’ saccente, tanto incline alla lacrima e alla miseria.
Si è disposti a tutto col resto, a ubriacarsi d’immagine e stracciarsi entusiasti le vesti e far finta che va tutto bene e che ci piace la minestra.
A comando ci ficchiamo in code chilometriche per la visione de La Dama con l’ermellino, quella leonardiana o di chiunque altro. Ce ne stiamo umili in saio pronti alla rivelazione del ritratto. Sicuri che così sarà.
Secondo punto sostanziale: così non è.
Il ritratto rivela solo all’autore, che è l’unico a goderne nell’essenza.
Le popolazioni che temevano il furto dell’anima operato dalla fotografia avevano parzialmente ragione: l’anima resta dov’è, nella stessa sede, solo che è quella di un altro.
Ma non si tratta di una deriva inconsapevole: è una scelta imprescindibile per chiunque usi un linguaggio, a discapito anche delle convenzioni grammaticali e dei riti sociali.
Per questo la fotogenia è un’idiozia, un concetto vuoto, perché ha a che fare con la gradevolezza, che è puro fatto mediatico.
Il linguaggio è altrove.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Nota: questo testo è stato la traccia di due conferenze, la prima nel 2003 a Savignano sul Rubicone in occasione del Festival Foto, la seconda a Milano alla Fondazione Forma in occasione di Fotografica 2009.
Oggi l’ho manipolato per questa di occasione, ma il concetto è lo stesso: la fotogenia non esiste!
Polaroid 55. Riproduzioni di RX.