The work I am showing here is specially made for the exhibition FRAMED, a project by Chico De Luigi now taking place in Reggio Emilia.
I liked Chico’s idea of 61 photographers sending their works, and FRAMED choosing a frame for each.
The frame always marks the boundary between art work – that is always an abstraction – and reality all around it. Its purpose is shaping a break into the continuum.
I had already been dealing with this mind-provoking topic many years ago: the designer Paolo Ulian and I worked together to create an “impalpable frame” for the group exhibition Intorno alla fotografia. 37 cornici per 37 fotografi (Milano-Paris, 1998, Association Jaqueline Vodoz et Bruno Danese, now Fondazione Vodoz Danese).
That work – that I am showing here as well – was made of Ulian’s frame plus the photograph I made.
Fotografia Europea 2014…
Premessa.
Chico De Luigi è un pazzo meraviglioso. Infatti lucidissimo.
Nel contesto di Fotografia Europea 014 – Reggio Emilia, ha concepito FRAMED, mostra collettiva di 61 autori.
Il soggetto, LA CORNICE.
Nell’invito che mi ha mandato leggo il testo di Marco Zauli, che apre così
La cornice è una corona che consacra, eleva di rango una fotografia e quello che rappresenta, impone una genuflessione dello sguardo, deferenza dovuta a qualcosa che si riconosce valere (essere) più in alto del resto.
Chissà, può essere… non sono certo che mi riguardi. Però ci provo.
Poi altre riflessioni sul rapporto cornice – fotografia.
A me l’architettura della mostra piace, e il tema della cornice l’ho già affrontato. Diversamente, e tanto tempo fa.
Nello specifico attuale c’è un fatto che mi incuriosisce molto, ed è il motivo per cui aderisco senza pensarci un secondo più del dovuto: i 61 mandano una fotografia, ma la cornice la sceglie FRAMED.
Come chiedermi di andare nudo allo stadio. In un derby.
Però voglio vedere l’effetto che fa.
Quindi realizzo la fotografia che pubblico in testa, e la invio. Nuda.
La realizzo per questa occasione specifica, non rovistando nei cassetti. Che qualcosa a ben cercare c’è sempre, ma per me non è la stessa cosa. Almeno in questo caso.
Sabato 2 maggio vado a Reggio Emilia, e un minimo di report su questa mostra lo faccio. Magari.
Quello della cornice è un lavoro duro.
Oltre a essere un tema forte della filosofia dell’immagine, perché raffigurazione di un limite evidente. Sia di qua dell’opera, che di là, dove c’è tutto il resto.
Non mi frega niente dire di come son fatte, è il concetto di cornice la vera questione. Anche se, vero, l’idea che ognuno si fa influenza la scelta dell’oggetto che si usa intorno all’opera. E che la segna, la definisce appesa nello spazio che le è stato deputato.
Parlo di cornici, non di supporti modello sandwich: fotografia schienata a un compensato del cazzo e faccia contro un vetro che le toglie quasi tutto l’ossigeno… ma quel niente che resta, perché qualcosa resta, le omaggia umidità e muffa, compressa com’è da delle mollette d’acciaio.
E vedi che fine fa la tua bella fine art…
Tanto valeva stamparla al minilab sottocasa.
Comunque ‘sto sandwich a giorno non segna niente, non è una cornice, quindi non c’è motivo per parlarne.
La cornice invece sottolinea un confine tra l’opera, che è comunque un’astrazione, e il reale circostante, qualunque esso sia.
Questo in sintesi è il suo scopo, quello di creare una discontinuità evidente.
Paolo Ulian e io facemmo una cornice impalpabile, per la Association Jaqueline Vodoz et Bruno Danese, oggi Fondazione Vodoz Danese. Nell’ambito della mostra Intorno alla fotografia. 37 cornici per 37 fotografi, esposta nel 1998 a Milano e a Parigi.
E poi itinerante.
Per meglio dire, Paolo Ulian fece la cornice, io la fotografia.
Il risultato è un’opera a sé stante.
Da prendere nel suo insieme precario e matematico. Binomio assolutamente possibile.
E che allora presentammo così …Col nostro sguardo che un po’ declina gli ammiccamenti e le certezze dell’alta definizione, funamboli lungo un’impalpabile diagonale di luce, ci piace davvero proiettare quest’ombra, questa recinzione inesistente eppure visibile. Si allunga, si deforma, palpita in una sorta di rapporto omologico col rettangolo fotografico, assumendo di volta in volta forma diversa ma mai casuale, sempre rispondente ad una precisa logica matematica. Una cornice dinamica dai contorni liberi, instabile per propria natura. Impegnata in una continua dialettica col circostante è unica o molteplice, piena o soffusa. Precaria la sua stessa esistenza: appesa com’è a un filo elettrico basta davvero poco… staccare la spina… ed è finita.
Questo è l’unico concettuale che sposo. Perché ha forma.
Per chi si regola con le arti visive, una condizione imprescindibile.
Se no fai altro. Anche l’intellettuale se ci riesci.
O la performer balcanica. Col mondo per cornice.
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