Irpinia 1980, terremoto. Tutto è cominciato da qui.
Prima non me ne fregava un granché di fare il fotografo.
Il reportage… questo articolo mi serve. Per ricordarmi che è da questo che sono partito.
Da qui e dal lavoro sui disabili ANFFAS, febbraio 1981.
E che non mi dispiacerebbe affatto rifrequentare: niente addetti ai lavori attorno, niente trucco e parrucco, niente salette riservate per uno pseudo pranzo… niente.
Niente visi imbronciati e zero glamour.
E il set ce l’hai davanti già fatto, devi solo preoccuparti di sottrarre al quadro generale la tua inquadratura. Perché è ancora una volta di sottrazione che si parla.
In questo non mi smentisco. Proprio no.
Avevo 22 anni, ero militare di leva in convalescenza per una polmonite: sessanta giorni in tasca e nulla da fare. L’università m’aveva stufato (e ho sbagliato, Filosofia era un bell’ambiente in Statale), che fare?
Sono partito con un gruppo di volontari, da Milano direzione Irpinia.
Una settimana dopo il sisma.
Con l’intento di dare una mano. Ma visto che era pieno di gente davvero in gamba, e la mia partecipazione non mutava di un grammo il peso, ho messo mano alla Nikon FE che avevo con me.
Più l’adorata Pentax K 1000, caricata con del Kodachrome 25
(ISO…V E N T I C I N Q U E!!!) che ho usato per qualche paesaggio e un po’ di fiorellini, roba mai disdegnata peraltro… si fotografa ciò che si vuole, e che in fondo piace: non ci sono sovrastrutture, e la fotografia non ha morale!
Col reportage ho un rapporto conflittuale… non per colpa sua. E manco mia.
Però già da subito.
Contravvenendo alle sacre regole di allora (adesso meno, dipende solo dall’ambiente), scattai a colore, con l’aggravante slide e pure di scarsa qualità vista la poca grana.
Ma senza alcuna premeditazione, senza alcun piglio snob. Semplicemente era così che mi andava di fare. Non so dire il perché.
So che sono tornato con la chiara volontà di fare il fotografo.
Un incosciente taglio intimista… di questo me ne sono accorto già là, mentre scattavo: il mio occhio cercava il non eclatante e rovistava nelle zone d’ombra. Nella quotidianità offesa.
L’unica eccezione forse, la sequenza di una riesumazione, quella che ho pubblicato in SEQUENZE. E che forse oggi non farei.
Questo modo di declinare il reportage è lontanissimo dall’attualità, della quale non me n’è mai fregato niente.
Oggi più che mai non dovrebbe fregare ad alcun fotografo, e nemmeno ai giornali.
È così che ho cominciato. Da un reportage avulso.
Che mi ha insegnato una cosa: la fotografia ha una gran voce, ma non è difendibile da alcuna parola.
O è, o buttala.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
Nota: la cromia è quella originale. Non ho voluto modificare nulla del sapore di allora. Condito con un po’ di deterioramento forse.
Così l’ho scattato e così resta.
Luoghi: Calabritto, Teora, Sant’Angelo dei Lombardi.
Fotocamere: Nikon FE, Pentax K1000.
Film: una slide qualsiasi che non ricordo, semplicemente economica.
Più Kodachrome 25.
Più una dose generosa di ingenuità. Che mi è stata decisamente utile.
Più una certezza. Una sola: l’esposizione è tutto.
Sia della pellicola/file che del fotografo. Qualsiasi fotografia faccia.
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