Gattini!

 

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Gattini… eccoli qui!
Non potevo mancare: li adoro.
E quel che per alcuni è peggio, è che amo fotografarli.
Se ne faranno una ragione…
Se invece no, amen. Non è un mio problema.

Non esiste alcun soggetto più deputato di un altro, esiste solo come fotografi.
E il cosa è sempre un pretesto per raccontare la propria storia.

Tutti i gatti che fotografo sono semplicemente io. Ancora io.
Che in loro mi rifletto.
Mentre però non mi amo affatto, con loro posso almeno trascendere.
Un po’ come per tutto il resto che fotografo.

Oggi è la giornata mondiale del gatto.
Non a caso il 17.
E anche in questo caso c’è chi se ne farà una ragione.
Altrimenti stia a letto a dormire.

Amo i gattini!

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Felipe, Milano 1997. Polaroid SX – 70

Felipe, Cap Ferrat 1998. Polaroid SX – 70
Randagio, Roma 1999. Polaroid SX- 70
Cardigan, Milano 2001. Polaroid 690 SL
Cardigan, Milano 2005. Negativo colore
Melinda, Milano 2006. Digitale
Strip, Milano 2015. Digitale
Randagio, Cap Ferrat 2002. Negativo colore
Cardigan e Paillette, Cap Ferrat 2003. Negativo colore
Strip, Milano 2015. Digitale

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Una poesia che non c’entra

 

Efrem Raimondi - Blog


Una poesia che non c’entra.
Due appunti che non c’entrano.
Una Polaroid che c’entra eccome.
Luogo e data fermi lì.

Una visione unica.
C’entra tutto.
E ciao.

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Bertolt Brecht - Efrem Raimondi - Blog

Bertolt Brecht - Efrem Raimondi - Blog
Bertolt Brecht
Das Schiff – La nave
Da Libro di devozioni domestiche, 1927.
Ed. It. Einaudi, 1964.
Traduzione Roberto Fertonani

Bertolt Brecht - Efrem Raimondi - Blog

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Maternità

 

Anastasiia by © Efrem Raimondi

 

Maternità… la condizione fotografica.
Non necessariamente al freddo e col mio Chiodo.
Però…

Anastasiia, 2014.
Milano. Febbraio. Con gente garbatamente alla finestra.

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Violenza e Fotografia

Aggiornamento dell’articolo che precede: Vivian Maier – Milano.
Che non mi va di infilarlo lì. Almeno al momento.
Perché la Maier non è in questione.
Ciò che è in questione è questo passaggio:

Ho bisogno di vedere cos’hai da dire sul mondo.
Di te e della tua patologia non me ne frega un cazzo.
Attrezzati e dalle forma.

Diretto, vero.
Di più: violento.
Vero.
E da alcuni per niente digerito. Chi pubblicamente, con toni comunque garbati, chi privatamente e meno garbatamente.
L’avevo messo in conto.
Ma andava detto.
Esattamente così.
Esattamente come stessi fotografando.
Che talvolta emetto un urlo.
Non uno schiamazzo. Un urlo muto.

  © Efrem Raimondi, All Rights ReservedAltalena, 2007 © E.R.

Chi lo intercetta e chi pensa che si tratti di un gioco degli angioletti nel cielo blu dipinto di blu.
Per me è uguale.
Anzi no. Per niente.
Che per quanto si dica, siamo ancora ben lontani dal saper cogliere il linguaggio quando è semplice.
Soprattutto quello che la fotografia usa.
Se è di linguaggio che parliamo.
Cioè qualcosa che ti riguarda intimamente.
E non una comparsata glamour.
Se invece è qualcosa che deve restare in superficie, che non ha alcun intento espressivo, allora parliamo di altro.
Anche di figa, che non tramonta mai.
Con buona pace di chi i tramonti li odia.
I gattini, per una volta, lasciamoli fuori per favore.

Però però…
Però ciò che ho urlato, non è estrapolabile da quel contesto.
C’è un prima e c’è un dopo: mica è un aforisma!
Quindi, adesso, nessuna excusatio non petita.
Solo prendo la mira…

Il soggetto non è la Woodman in quanto individuo; non le patologie più o meno gravi, di chiunque; non il suicidio.
Ma il prodotto fotografico. Di chiunque.
Che naturalmente è sempre artistico in questi casi. Per definizione.
Mica che si possa anche solo distrattamente pensare che è una parodia.
E se il soggetto è ciò che si mostra, nessuno sconto è possibile.
Nulla, e neanche una condizione di disagio o una patologia cambiano il peso specifico del prodotto.
Il mercato, chi lo gestisce e influenza, faccia tutte le operazioni che ritiene.
Anche di marketing.
Ma è sempre di un prodotto che si parla.
Che non ha un passaporto clinico.

Si potrebbe emigrare… in altri luoghi che usano il linguaggio, resto invece attaccato alla questione fotografica.
Che può benissimo essere anche terapeutica.
Anzi lo è. Anche per me.
Solo che il punto è cosa restituisce.
E se il cosa è solo il tuo ombelico, devi avere una tale padronanza del come, alias una cifra espressiva, che il tuo ombelico mi risulta distintamente un pretesto.
Non è così.
E al terzo ombelico ti abbandono.
Lasciandoti alla tua personale terapia.

Vale anche per gli epigoni… ribadisco, soprattutto epigone – e questo davvero mi addolora – più o meno smutandate, che passano il tempo allo specchio.
Restituendoci un’immagine speculare. E non riflessa.
Di te e di ciò che vedi non arriva nulla.
Se insisti nel mostrarlo, da condizione legittimamente terapeutica che ti riguarda, diventa palese dimostrazione di arrogante analfabetismo.
Non opera.
Per questo non me ne frega un cazzo.

Non sono un critico. Sono un fotografo.
Dico semplicemente la mia.
Esattamente come quando fotografo.
Non ho pretese universali.
Il linguaggio però resta uno.

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Auguri. Con Urlo

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In questi giorni di addobbi ho sentito l’urlo.
L’ho visto.
Qui sulle mie montagne su in Trentino.
Mie.
Perché parte integrante della mia memoria.
Che è nitida. E di questi tempi innevata.
Coi ghiacci al loro posto davanti al balcone.

Ma qui non c’è più niente.

L’urlo…
Zero landscape. Non ne ho mai fatte.
Fotografia tout court.
Se però per comodità, se è di un casellario che hai bisogno, definiscile pure.
Relegami dove ti pare.

I fotografi, per essere tali, hanno una visione del mondo.
La esprimono costantemente.
E si vede.
Questo è il differenziale.
Se invece ti sembra tutto accettabile, cazzi tuoi.
Se invece ti bastano dei gridolini eccitati, cazzi tuoi.

Nessuno è innocente. Ma esistono diversi gradi di colpevolezza.
Cazzi tuoi.
Che però, a causa tua, diventano anche miei.
E questo non lo accetto più.
Non so cosa fare…
Ma so cosa dirti: pur appartenendo alla stessa specie idiota, non siamo uguali.
Non lo siamo mai stati.
Neanche ci somigliamo.

E gli auguri che ogni inizio anno faccio da questo blog, non ti riguardano.

A tutti coloro ai quali somiglio, dedico queste immagini.
E auguro un sereno 2016.

Il pianeta non è antropocentrico.
Non distingue e non è democratico.
Odia l’uso arrogante dell’intelligenza.
E per questo s’incazza.
Anche con me.

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Polittico dell’Urlo.
Prodotto tra il 25 dicembre 2015 e il 5 gennaio 2016.
Così come era meglio al momento.
O peggio.
Proprio in quel momento.

E questa la mia cartolina direttamente dalle Dolomiti di Brenta.

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Joe Strummer

JOE STRUMMER by Efrem Raimondi

Ci ha lasciato tredici anni fa…
Integralmente il pezzo che pubblicai per la ”rivistina snob” Uovo, nel numero 5/2003. Senza togliere e senza aggiungere. 
Eterno Strummer! Ti amo.

Non so… JOHN GRAHAM MELLOR… Così per l’anagrafe.
Per i parenti, più o meno stretti. 
Per qualche altro… forse.
Per tutto il resto del mondo è di Joe Strummer che sto parlando, frontman dei Clash. “L’unica band che ha contato qualcosa”.
Non so… E’ dura.
www.strummersite.com: 23 December 2002… Joe Strummer died yesterday.

Non ne sapevo niente… Sono andato a letto tranquillo la notte del 22.
Non che ne sia certo. Presumo e basta: una domenica… così vicina a Natale… con tutte le luci che martellano gli occhi e lo stomaco già predisposto al banchetto.
Almeno qui, in Occidente.
Non sapevo di svegliarmi orfano. Per la seconda volta.
Orfano.
Perché il vuoto non si misura con il grado di parentela. Né so dire se esista una qualche unità di misura: si sente o no.
Il vuoto è un’assenza piena e palpabile.
Mica un dispiacere (quel leggero prurito che ogni tanto ti coglie, in genere proprio dietro un orecchio ma che, tranquillo, in 18/24 ore è tutto passato).
Il vuoto è uno spazio permanente.
Refrattario a ogni terapia, rimbalza forsennatamente tra cranio&cuore.
Così all’inizio. 
Il tempo poi regola, modula preciso per la sopravvivenza.
Ma l’altro t’accompagna dovunque e per sempre, pronto a straziarti e a lasciarti muto quando gli pare.
Parlo per me: non ho la patente per farlo per altri.
Parlo per me, che sono cresciuto a pane e Clash.
Che me ne cibo dal ’77.
Mai mi sarei aspettato di trovarmi davanti Joe Strummer, sbucato da una traversa di via Vittor Pisani, mentre trascinava una valigia tipo trolley, imprecante, con lo sguardo levato alla ricerca di un qualche indizio che confermasse che sì, che era proprio quello il posto, la strada giusta di Milano dove avevamo appuntamento.
Non abbiamo mai chiarito perché il tassista li avesse lasciati, lui e quel buffo figuro che arrancava dietro (rivelatosi poi un qualcuno della casa discografica inglese), due-trecento metri dalla destinazione finale, cioè io (!!!).
Per la precisione Michele Lupi, già suo amico, e io, lì per ritrarlo per GQ Italia.
Del resto l’italiano di Joe era una scommessa, col suo improbabile bigino fatto di frasi idiomatiche, che mai ci azzeccavano una volta.

Primissimo pomeriggio del 21 settembre 1999: la voce con la quale interloquivo era la stessa che ascoltavo da anni provenire da una qualche cassa acustica, a casa piuttosto che in auto, in genere alternata a quella di un altro grande che in qualche misura me lo ricorda (intendo Vasco Rossi ma questa è un’altra storia).
L’effetto era straniante.
Il set era già pronto. I miei assistenti e io avevamo provato e riprovato, montato smontato e rimontato nelle due ore precedenti: Joe Strummer cazzo!
Tutto doveva funzionare alla perfezione.
Non erano ammessi inciampi, tentennamenti, sbavature: gestire l’emozione sarebbe stato affar mio durante lo shooting.
Il rischio è sempre lo stesso: ti trovi davanti alla leggenda, una figura idealizzata, e poi scopri di avere a che fare con uno che fa le bizze, montato dal proprio successo: bello tronfio a mezzo metro dal suolo e cento chilometri da te.
Un vero pezzo di merda che rimbalza da una suite all’altra con davanti qualcuno sempre pronto a stendergli il tappeto.
Joe Strummer non era così. Uno con la faccia pulita e il sorriso schietto.
Uno che non ti manda a dire niente, lo dice e basta.
Dell’artista sapevo già tutto, il mio cuore ne godeva da anni. Adesso era l’uomo.
Mi limitavo a registrare ciò che vedevo.
E la registrazione che conservo corrisponde in pieno a ciò che mi auguravo di vedere.

Non aveva l’aria della star annoiata, che una tantum si concede: curioso e rispettoso di ciò che stavo facendo mi seguiva tranquilllo su un terreno che non gli apparteneva, contento di farlo.
La sua scorza da duro mi sembrava più un manifesto, un’icona mutuata da un altro periodo e da esibire all’occorrenza, giusto per chiarire le cose… non una vera e propria pelle.
Lo sguardo era il riflesso di una sensibilità rara, molto esposta alle intemperie di un mondo che può convincere solo gli idioti e i manager.
Cazzo, un uomo!
Con un cranio, un cuore e una sola faccia da esibire!
Uno con una forte stretta di mano, non una roba che scivola via.

Cominciamo… 
Di norma, in questi casi, è presente un truccatore.
Non come per le modelle, serve solo per ripulire la pelle, evitare strani riflessi e dare una guardatina ai capelli. Rivista o chi altro, qualcuno ci pensa.
Chissà come, di fatto non c’era. Eppure nessuno sembrava sgomento.
Apre il trolley e scegliamo due cose, una camicia e una t-shirt.
Lui cerca anche del gel. Che non c’è, né nel trolley né altrove.
Non c’è neanche un lavabo né un cesso vicino, pare.
Strummer si sputa sulle mani e si passa i capelli: stupore!
Ma non c’è niente di volgare nel gesto, nessuna gratuità: fosse stato un artista slavo sarebbe stata una performance, nell’occasione è solo qualcosa di meramente funzionale e rapido.
Cominciamo. 
C’è una bella atmosfera, tra gente tranquilla.
Non è giornata per il colore.
Oggi uso un b/n rigoroso.
Sono lì con il mio 6×7 a mano libera che pesa una cifra.
Sono lì che punto Joe Stummer come fosse un abbraccio.
Sono lì e non vorrei essere da nessun’altra parte.
Adesso che sono qui, con la sua voce, quella che proviene da From here to eternity e quella registrata nella mia memoria, adesso è dura. Proprio dura.

Milano, febbraio 2003.

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Joe Strummer by Efrem Raimondi

Joe Strummer by Efrem Raimondi

Joe Strummer by Efrem Raimondi

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Nota. questo articolo lo pubblicai qui nel dicembre 2012. riporto i commenti di allora contrassegnati all’inizo con *

 

Joe Strummer and me, Efrem Raimondi

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Gabriele Basilico – Ascolto il tuo cuore, città

Gabriele Basilico Exhibition - Efrem Raimondi Blog

Gabriele Basilico, Ascolto il tuo cuore, città.
Una sola roba: monumentale.
Soggetto unico, la città. Modulata tra il 1978 con le fabbriche milanesi, e il 2012 coi cantieri di Porta Nuova, ancora Milano.
In mezzo c’è tutto il resto, a partire da Beirut.
E poi dovunque Gabriele Basilico ha calpestato terra.

150 opere, video, filmati… c’è talmente tanta densità che c’è da prendersi una mezza giornata.
Vietato correre… tre ore. Due abbondanti sicuro.
E magari tornare.

Fino al 31 gennaio – info –  presso UniCredit Pavilion, piazza Gae Aulenti 10, Milano.
Curata da Walter Guadagnini con la collaborazione di Giovanna Calvenzi.
Catalogo edito da Skira.

Quello che non mi aspettavo era il luogo, l’UniCredit Pavilion.
Non ci ero ancora entrato…
Decisamente affascinante.
Così sfondato nel suo corpo centrale rivela delle sorprese.

Disegnato da Michele De Lucchi…
Perfetto per questa mostra.
Che quasi quasi ci torno.
Anzi, devo tornarci: mi manca una parte dei filmati.
L’ho detto: prendetevi un tempo abbondante.
E godetevi il tutto.

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Nota: tutte le immagini in iPhone 6.

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INTERNI magazine – confronti generazionali

Efrem Raimondi for INTERNI MAGAZINE

 

INTERNI magazine, dicembre 2015: confronti generazionali.
Alias tre ritratti per ciò che mi riguarda: Aldo e Matteo Cibic, Paolo e Carmine Deganello, Alberto e Francesco Meda.
Ogni ritratto è composto da due singole immagini… una roba che faccio da una ventina d’anni.
Che non è semplicemente utile, ma proprio spinge la prospettiva restituendo spazio – e persone – in forma leggermente alterata.
A volte fortemente alterata.
La continuità viene interrotta, e lo stato delle cose non è più quello originario.
Mi piace creare un po’ di disordine in certe circostanze.
Una minima inquietudine visiva in questo lavoro… in altri per nulla minima.
Un fastidio, un prurito a un mondo sempre più ortogonale che esercita sempre meno la vista. Altro che balle.
E questo sì che è utile.

Efrem Raimondi for INTERNI MAGAZINE

Efrem Raimondi for INTERNI MAGAZINE

Efrem Raimondi for INTERNI MAGAZINE

Efrem Raimondi for INTERNI MAGAZINE

INTERNI non a caso: è uno dei pochi luoghi dove si fa fotografia. Almeno mi sembra.
Per me è una questione di legame affettivo anche… ci collaboro dal 1985.

Le interviste sono di Cristina Morozzi e Maddalena Padovani.

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Fotografo donne. Non modelle.

Francesca Matisse by Efrem Raimondi

 

Uno sguardo.
Quello di Francesca Matisse. Una donna.
Che sia anche modella per me è del tutto marginale.

Alla Ca’ Brutta. Che m’è sempre piaciuta.
Insieme dovevamo realizzare un’immagine.
E qui sì, il fatto che sia modella è stato funzionale.
Una sola immagine.
Finalizzata a una mostra che si terrà ad aprile. Una collettiva.
A Milano. Dove la Ca’ Brutta è sorta nei primi venti del ’900.
Che m’è sempre piaciuta forse anche un po’ grazie ai ritratti di Gabriele Basilico.
Perché è di veri e propri ritratti che si tratta.
Ne riparleremo…

C’erano anche la mia assistente Giulia Gibilaro e Monica Cordiviola, fotografa.
A me piace la presenza dei colleghi.
Non amo i fotografi solo a distanza…
Anzi, se li ho vicino sto meglio.
Non sempre.
Questa volta sì.

Fatta la fotografia c’era ancora un po’ di luce.
E c’era una grande finestra che ho amato subito.
Anzi… che ho amato già al primo sopralluogo a luglio.

© Efrem Raimondi iPhonephotography.

Dammi lo sguardo Francesca. Per favore.
Di più.
Ancora di più.
Così.
Esattamente così.

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Photo Lux – 2015

Photo Lux - Efrem Raimondi

P R O G R A M M A

Photo Lux 2015…
Lucca. Tanto tempo fa…
Ci torno.
E non è una minaccia.

Domenica 13 dicembre alle 11,30 – LEICA TALK – Auditorium della Fondazione Banca del Monte di Lucca: La fotografia non esiste.
Per questo ringrazio dell’invito Enrico Stefanelli, direttore artistico della biennale.
E  Chiara Lencioni, con la quale sono entrato nel merito del percorso.

Sarà una chiacchierata sull’idea che si ha della Fotografia.
Sì lo so… insisto su questa faccenda.
E lo faccio perché ritengo sia LA questione da porre al centro di una riflessione molto più ampia che ci investe tutti: chi la Fotografia la produce e chi la discute.
Io la produco, e questo è il mio ruolo. Perciò proietterò anche qualche slideshow che mi riguarda.
Perché i fotografi hanno il dovere di mostrarsi.
Tutto il resto è subordinato.

#SACROePROFANO il leitmotiv di questa edizione.
Direi perfetto per entrare a gamba tesa.
Proprio appena sotto le ginocchia.
Chi ha giocato a pallone, a qualsiasi livello, sa di cosa sto parlando.

Ci vediamo.
Spero.
Ciao!

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