Ci ha lasciato tredici anni fa…
Integralmente il pezzo che pubblicai per la ”rivistina snob” Uovo, nel numero 5/2003. Senza togliere e senza aggiungere.
Eterno Strummer! Ti amo.
Non so… JOHN GRAHAM MELLOR… Così per l’anagrafe.
Per i parenti, più o meno stretti.
Per qualche altro… forse.
Per tutto il resto del mondo è di Joe Strummer che sto parlando, frontman dei Clash. “L’unica band che ha contato qualcosa”.
Non so… E’ dura.
www.strummersite.com: 23 December 2002… Joe Strummer died yesterday.
Non ne sapevo niente… Sono andato a letto tranquillo la notte del 22.
Non che ne sia certo. Presumo e basta: una domenica… così vicina a Natale… con tutte le luci che martellano gli occhi e lo stomaco già predisposto al banchetto.
Almeno qui, in Occidente.
Non sapevo di svegliarmi orfano. Per la seconda volta.
Orfano.
Perché il vuoto non si misura con il grado di parentela. Né so dire se esista una qualche unità di misura: si sente o no.
Il vuoto è un’assenza piena e palpabile.
Mica un dispiacere (quel leggero prurito che ogni tanto ti coglie, in genere proprio dietro un orecchio ma che, tranquillo, in 18/24 ore è tutto passato).
Il vuoto è uno spazio permanente.
Refrattario a ogni terapia, rimbalza forsennatamente tra cranio&cuore.
Così all’inizio.
Il tempo poi regola, modula preciso per la sopravvivenza.
Ma l’altro t’accompagna dovunque e per sempre, pronto a straziarti e a lasciarti muto quando gli pare.
Parlo per me: non ho la patente per farlo per altri.
Parlo per me, che sono cresciuto a pane e Clash.
Che me ne cibo dal ’77.
Mai mi sarei aspettato di trovarmi davanti Joe Strummer, sbucato da una traversa di via Vittor Pisani, mentre trascinava una valigia tipo trolley, imprecante, con lo sguardo levato alla ricerca di un qualche indizio che confermasse che sì, che era proprio quello il posto, la strada giusta di Milano dove avevamo appuntamento.
Non abbiamo mai chiarito perché il tassista li avesse lasciati, lui e quel buffo figuro che arrancava dietro (rivelatosi poi un qualcuno della casa discografica inglese), due-trecento metri dalla destinazione finale, cioè io (!!!).
Per la precisione Michele Lupi, già suo amico, e io, lì per ritrarlo per GQ Italia.
Del resto l’italiano di Joe era una scommessa, col suo improbabile bigino fatto di frasi idiomatiche, che mai ci azzeccavano una volta.
Primissimo pomeriggio del 21 settembre 1999: la voce con la quale interloquivo era la stessa che ascoltavo da anni provenire da una qualche cassa acustica, a casa piuttosto che in auto, in genere alternata a quella di un altro grande che in qualche misura me lo ricorda (intendo Vasco Rossi ma questa è un’altra storia).
L’effetto era straniante.
Il set era già pronto. I miei assistenti e io avevamo provato e riprovato, montato smontato e rimontato nelle due ore precedenti: Joe Strummer cazzo!
Tutto doveva funzionare alla perfezione.
Non erano ammessi inciampi, tentennamenti, sbavature: gestire l’emozione sarebbe stato affar mio durante lo shooting.
Il rischio è sempre lo stesso: ti trovi davanti alla leggenda, una figura idealizzata, e poi scopri di avere a che fare con uno che fa le bizze, montato dal proprio successo: bello tronfio a mezzo metro dal suolo e cento chilometri da te.
Un vero pezzo di merda che rimbalza da una suite all’altra con davanti qualcuno sempre pronto a stendergli il tappeto.
Joe Strummer non era così. Uno con la faccia pulita e il sorriso schietto.
Uno che non ti manda a dire niente, lo dice e basta.
Dell’artista sapevo già tutto, il mio cuore ne godeva da anni. Adesso era l’uomo.
Mi limitavo a registrare ciò che vedevo.
E la registrazione che conservo corrisponde in pieno a ciò che mi auguravo di vedere.
Non aveva l’aria della star annoiata, che una tantum si concede: curioso e rispettoso di ciò che stavo facendo mi seguiva tranquilllo su un terreno che non gli apparteneva, contento di farlo.
La sua scorza da duro mi sembrava più un manifesto, un’icona mutuata da un altro periodo e da esibire all’occorrenza, giusto per chiarire le cose… non una vera e propria pelle.
Lo sguardo era il riflesso di una sensibilità rara, molto esposta alle intemperie di un mondo che può convincere solo gli idioti e i manager.
Cazzo, un uomo!
Con un cranio, un cuore e una sola faccia da esibire!
Uno con una forte stretta di mano, non una roba che scivola via.
Cominciamo…
Di norma, in questi casi, è presente un truccatore.
Non come per le modelle, serve solo per ripulire la pelle, evitare strani riflessi e dare una guardatina ai capelli. Rivista o chi altro, qualcuno ci pensa.
Chissà come, di fatto non c’era. Eppure nessuno sembrava sgomento.
Apre il trolley e scegliamo due cose, una camicia e una t-shirt.
Lui cerca anche del gel. Che non c’è, né nel trolley né altrove.
Non c’è neanche un lavabo né un cesso vicino, pare.
Strummer si sputa sulle mani e si passa i capelli: stupore!
Ma non c’è niente di volgare nel gesto, nessuna gratuità: fosse stato un artista slavo sarebbe stata una performance, nell’occasione è solo qualcosa di meramente funzionale e rapido.
Cominciamo.
C’è una bella atmosfera, tra gente tranquilla.
Non è giornata per il colore.
Oggi uso un b/n rigoroso.
Sono lì con il mio 6×7 a mano libera che pesa una cifra.
Sono lì che punto Joe Stummer come fosse un abbraccio.
Sono lì e non vorrei essere da nessun’altra parte.
Adesso che sono qui, con la sua voce, quella che proviene da From here to eternity e quella registrata nella mia memoria, adesso è dura. Proprio dura.
Milano, febbraio 2003.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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Nota. questo articolo lo pubblicai qui nel dicembre 2012. riporto i commenti di allora contrassegnati all’inizo con *
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