Se spegni la luce, tutto è nero.
Che te ne fai di tutti ’sti bit… che te ne fai di tutti ’sti iso, di un milione di mega e di una potenza di fuoco che non ha precedenti se poi, davvero, basta un cerino?
Serve un filo di luce e un occhio che veda. Ti basta star fermo e girare la testa… traguardare lo sguardo e selezionare la vista: che ci fai con tutta ’sta mercanzia al collo, e lo zoom, questa illusione ottica che pesa una cifra?
La fotografia si fa dove le cose accadono, cioè nel tuo cranio.
In questo spazio permeabile non serve nulla e le fotocamere si equivalgono.
È lì che si forma l’immagine. Lì o niente, e non c’è attrezzatura che tenga.
Ti serve poi solo una roba: la luce.
Questo è il limite della fotografia. Quanta? Direi quale!
La luce fende il buio, la luce la vedi: Caravaggio docet.
Diretta, diffusa, riflessa… calda, fredda, morbida, secca.
La luce è l’unico differenziale, tutto il resto suppellettili.
La luce non ha pregiudizi e non discute: avvolge, attraversa, rimbalza. In una relazione dinamica perpetua con tutta la materia.
Scrivere con la luce, ripetuto alla nausea. Non scrivere con la reflex, non con la Patatrak o la Fotuscoss (*)… scrivere con la luce.
Quindi impossessarsene e assecondarne gli umori.
Tutto ridotto ai minimi termini partendo dallo sguardo. Ma sapendo bene cosa si sta facendo. La confusione iconografica alla quale assistiamo è anche figlia di una diffusa ignoranza. La fotografia, al pari di qualsiasi altra arte, è disciplinata: per poter dire come ti pare, devi conoscere la grammatica. E qui si parte dalla luce.
Queste sono fotografie non mediate da alcun mezzo ottico: Polaroid 55 e un accendino.
Fotografia allo stato puro… elementare nella sua semplicità.
Non serve niente: una matrice, un soggetto, la luce.
E noi stessi. Magari fuori dal trend.
Certamente inattuali.
* Fotuscoss: faccio tutto, in lombardo.
Fotocamera: assente. Luce: accendino Bic. Film: Polaroid 55.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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