Portrait… 5 rules.
Just like the billiard “all’italiana”: you have to knock down 5 pins.
I still have my cue.
Honestly, I was a mediocre player.
Although I knew the rules.
Because you may know the rules, but that’s not enough to be a good player.
Nonetheless, if you don’t know the rules, you can’t play.
To make photography, as well, you should know a few objective rules.
And if you want to improve yourself, you need also subjective rules, to manage the objective ones.
These become the structure of your photography.
Five subjective (mine) rules for portrait:
1 – Portrait is, first of all, photography: PHOTOGRAPHY!
This should be our leading approach. We end trapped too often into “genre” pigeonholing. According to this approach, a controversial subjectivity becomes an absolute objectivity: the Truth.
That’s bullshit.
2 – The portrait’s subject is the author.
Without his look, a portrait is not photography, it’s a genre picture. A matter of habit, perhaps reportorial; that’s all. Portrait has nothing to do with topicality, and topicality does not matter for me.
The portrait I am interested in is focused on the photographic relationship between the photographing subject and the portrayed subject. The result of this relationship is a per se photograph, for which no explanation is needed.
3 – “Being photogenic” is a nonsense.
A meaningless idea, related only to pleasantness, belonging to the media context.
A work by an author creates a different appearance. A whole one, including edges that mark the boundary between what’s there – and can be seen, and what is left out – then, does not exist.
This photography is even not urged to deal with recognizability.
4 – Subtraction.
Going straight to the core of what you mean as the mark of that given image. It can even be a detail, a negligible one: it becomes the subject. And everything else disappears.
You don’t have to summarize people’s whole story: a scrap is enough… a portrait is not a recap.
5 – A portrait needs the subject’s consciousness of being portrayed.
A real involvement. This involvement does not influence the portrait’s style: that’s the author’s concern.
But there must be the consciousness, even for a few seconds, that what is happening belongs to a different dimension, where a break in the continuum take place. Because making portraits is not ordinary stuff. And you can break habits, even moral codes.
There are some further themes, like lenses, light, post-production and so on, related to the technical support.
But that comes after.
As far as I am concerned, that’s all.
Ritratto… quattro regole. Come a bigliardo.
Mi piaceva molto giocarci, all’italiana, cinque birilli.
Ho ancora la mia bella stecca due sezioni… ferma lì da una quindicina d’anni.
Comunque ero un giocatore modesto.
Malgrado conoscessi le regole.
Perché vero, non basta conoscerle per giocare bene.
Solo che se non le conosci, non giochi.
Questo per quanto concerne il bigliardo, dove le regole sono oggettive.
In fotografia no.
In fotografia sembra che possa valere tutto.
Cioè niente.
Sembra.
E certamente per fare una fotografia qualsiasi, e magari anche piacevole, può anche essere vero.
Per farla…
Rifarla è un’altra faccenda. E il culo della casualità è esaurito.
Per ovviare a questa imperdonabile latitanza, occorre conoscere quelle quattro regole oggettive.
E già basterebbe per continuare nel gioco collettivo.
Poi però si può andare oltre e alzare il livello.
Con delle regole soggettive: quelle che manipolano coscientemente le oggettive.
E che sono la struttura della tua capacità espressiva. Quindi ben più complesse. Perché le usi senza dover ricorrere ad alcun ripasso, senza passare da alcun manuale.
Eppure sono struttura visibile.
Se non conosci le prime, non passi alle seconde.
Tutto ciò vale per qualsiasi fotografia si abbia in testa.
Non sono un docente… non sono un didatta.
Sono solo un fotografo che ogni tanto esprime il proprio punto di vista in sedi a me non abituali. Ma che non mi dispiacciono affatto.
Siano conferenze, workshop, o corsi accademici… per me non cambia: senza la mia fotografia sarei muto.
E questo è il mio limite: non ho pretese universali. Non ci credo.
Io parto da me. Questo lo dico con estrema chiarezza, giusto per evitare equivoci.
E i miei workshop, quelli recenti sul ritratto, e anche i prossimi in programma, uguale.
È bene che insista: il ritratto è uno degli ambiti fotografici più soggettivi che esistano… come si potrebbe affrontarlo se non partendo da sé stessi?
Per questo le mie quattro regole sono cinque:
1 – Il ritratto è in primis fotografia: FOTOGRAFIA!
Ed è questo l’approccio col quale va affrontato. Troppo spesso si finisce
invischiati nelle specifiche di genere.
Che sostanzialmente fanno coincidere una soggettività discutibile con
l’oggettività assoluta, trasformandola in Verità.
Balle…
2 – Il soggetto del ritratto è l’autore.
Privato del suo sguardo, il ritratto cessa di essere fotografia per rientrare nei confini, stretti, del genere. Che è un fatto di costume, magari giornalisticamente rilevante ma stop: ciò di cui parlo non ha niente a che vedere con l’attualità. Della quale me ne frego.
Il ritratto che davvero mi interessa si concentra sulla relazione fotografica che intercorre tra i testimoni. E che produce una fotografia tout court che non necessita di spiegazioni.
3 – La fotogenia è un’idiozia.
Un concetto vuoto che ha solo a che fare con la gradevolezza.
Cioè un fatto esclusivamente mediatico. Quello che l’autore restituisce è una immagine altra. Tutta quanta bordi inclusi… che segnano il limite tra ciò che c’è ed è visibile, e ciò che viene escluso. E che quindi non esiste.
Una fotografia che non ha nemmeno l’urgenza di confrontarsi con la riconoscibilità.
4 – Sottrazione.
Andare senza tentennamenti all’essenza di ciò che per te rappresenta la cifra di quell’immagine. Fosse anche un dettaglio apparentemente marginale: fa’ che diventi soggetto. E tutto il resto scompare. Via!
Non devi condensare tutta la storia di quella persona: basta un frammento… il ritratto non è un riassunto.
5 – Il ritratto è tale quando il soggetto ha la coscienza di essere ritratto.
Esiste cioè una reale partecipazione. Fosse anche durante un bombardamento.
Non ne determina la cifra, a questa ci devi pensare tu.
Ma la consapevolezza, fosse anche un istante, che si è in un’altra dimensione nella quale avviene un’interruzione del normale procedere, deve esserci. Perché fare ritratto, farlo davvero, non è mica una roba normale. E certe consuetudini, anche morali, si stracciano.
Poi ci sono una serie di questioni che si modulano all’occorrenza: ottiche, luce, postproduzione e via dicendo con tutto l’apparato strumentale.
Che partecipa indubbiamente… ho un’idea molto precisa a riguardo. Ne ho già scritto. Ma tutto ciò è solo in subordine.
Per ciò che mi riguarda, finisce qui.
© Efrem Raimondi. All rights reserved
Backstage – Gentleman mag. Fotografia Giulia Diegoli
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