Foto a cazzo.

Ovvero analogico versus digitale.

Sto iniziando una collezione di immagini dal titolo Foto a cazzo.
Sono fotografie realizzate senza pensare, puntando dove capita… dove comunque l’occhio ha una minima attrazione. O distrazione. Fotocamera in completo automatismo, autofocus incluso. Prevalentemente con una compatta, col cellulare o con qualsiasi cosa rigorosamente digitale.
Alcune di queste immagini racimolate anche dal passato più o meno recente e ammetto, anche in pellicola.
Quindi  si possono fare comunque delle immagini così come capita, e magari ugualmente a cazzo anche con l’analogico… solo che il fatto di non vederle subito e il costo del processo mi inibiscono. La disinvoltura del digitale è altra roba insomma.
Tutto ciò, ricorda qualcosa?
E qui comincia la faccenda… l’analogico prevede un maggiore rispetto per ciò che si sta facendo e schiacciare un tasto ha a che fare con un processo che si rivelerà un tot dopo, a seguito di un percorso che richiede tempo. Lo scatto resta in tempo reale, ma la sua conferma no. Non solo… è completamente assente il tasto che ti permette eventualmente di riacquistare la verginità perduta: la memoria non si recupera e quella a disposizione coincide col tòcco di pellicola che resta. Dopo di che fine. Dopo di che passi ad altro rullo. Ad altra attesa. Nel frattempo magari rilassi il dito.
Non è lo stesso! Non è meramente un fatto tecnico legato alla diversa tecnologia… è un fatto fondamentalmente culturale!
La percezione analogica richiede maggiore consapevolezza!
E questo plus incide sulla proprietà di linguaggio. Direttamente.
La fotografia è cambiata! Analogico, scansati!
È la parola d’ordine vuota e stupidamente appiattita alle regole di un mercato il cui unico interesse è massificare il consumo.
Certo che la fotografia è cambiata, cambia di continuo. Da sempre.
Ma mai come oggi è offesa. Al punto che varrebbe davvero la pena dichairarla morta.
Solo che è un cadavere non sepolto trasformatosi in zombie.
Non ho preconcetti nei confronti del digitale, lo uso come chiunque altro. Per cui non sono tacciabile di purismo. Puro cosa? Sono lercio e uso qualsiasi strumento mi serve allo scopo.
Solo denuncio la demagogia di una democrazia digitale che permette libero sfogo a chiunque, specialmente se privo di capacità espressiva ma che grazie al mezzo trasforma qualsiasi momento in esibizione. Siamo nel vuoto temporale, quello in balia del trend momentaneo. Dove il valore aggiunto della postproduzione è in molti casi folklore. Quando non devianza ideologica.
Ed è ora di dare una bella stoppata a Photoshop, non al programma, ma a chi lo masturba. Però di questo ne riparleremo.
L’editoria periodica è ridotta a pezzi e gli editori si lamentano… ma le vogliamo guardare ‘ste riviste? Fanno mediamente schifo.
Non è diverso lo stato della comunicazione pubblicitaria e dell’arte: quali sono le mostre che si ricordano?
Non è che magari ha a che fare con la negazione della memoria?
Con la necessità di un totale indistinto che evita accuratamente il linguaggio, cioè la capacità di rendere intelligibile la percezione, la propria, e magari produrre qualcosa di meno volatile di una scorreggia?
Solo apparentemente i due percorsi, l’analogico e il digitale, conducono allo stesso risultato, per cui di che diavolo sto parlando?!
Lascio perdere in questo caso discorsi sul volume e la piattezza e tutte quelle belle cose che sono peculiarità dell’uno e non dell’altro, quello che dico è che ci sono similitudini nel risultato solo in subordine al cranio di chi ne fa uso.
Altrimenti, vista la quantità spaventosa di immagini che rimbalzano da ogni dove, no, non sono per niente la stessa cosa.
Un improvviso azzeramento delle performance digitali in ambito fotografico decreterebbe una caduta verticale della frenesia produttiva di immagini. Ma questo non accadrà.
Ci vorrebbe un trattato sull’argomento, ma questo non è luogo e io non ho la patente.
Foto a cazzo è il mio personale contributo all’album di famiglia, quello della post-fotografia.
Work in progress.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nota: la fotografia pubblicata non fa parte della collezione.
Fotocamera Leica CM. Film Fuji NPS 160.
Errata corrige: fotocamera Ricoh GR1s.

Alex Schwazer

Giugno 2011. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Questo è un blog di fotografia, vero.
Ma ci sono anche le persone da me ritratte, che almeno in quella circostanza ho incontrato. E ci ho passato del tempo. In quel tempo un’opinione te la fai.
Non è la verità, che non inseguo ossessivamente. Anzi non mi riguarda. Ma non è neanche un’idea astratta. Né limitata al grado di simpatia. Non millanto niente: i fotografi hanno un’epidermide a vari strati. Tutti piuttosto sensibili e sfumati. E non solo alla luce, spesso anzi al buio. A ciò che non si vede. Anche se non sempre trova forma in una fotografia.
Io non fotografo eroi. Ma uomini e donne. E credo, spero, si veda.
Alex Schwazer l’ho fotografato per un progetto Mondadori un anno fa.
E questa è un’istantanea in una pausa.
Una giornata lunga, dalle sue parti in Sud Tirolo.
Si è riso, scherzato, fatto sul serio. Chiacchierato della sua vittoria olimpica a Pechino, della marcia e dei sacrifici che comporta.
La notizia di questi giorni mi ha davvero sorpreso. Tanto che se non avessi sentito dalla sua viva voce l’ammissione di doping non ci avrei creduto.
Ho poi visto la conferenza stampa da lui indetta: impressionante!
Tutto sembra un suicidio, sportivo e mediatico. La scelta deliberata di tagliare nel modo più traumatico e disonorevole possibile per un atleta… per un campione olimpico! Uno che andava a Londra col titolo in tasca!
Solo che non ce la faceva più. E non sapeva come fare. Questo è ciò che ha detto.
Oltre a una serie di altre cose. Tutte da ascoltare per bene.
Non entro nel merito della vicenda. E certo non giustifico il doping.
Credo però che ci si trovi di fronte a una situazione imprevista e nuova. Molto diversa da tante altre. Almeno mi sembra.
Questo è un blog di fotografia. E ai fotografi non è chiesto di dire la loro. A qualsiasi pirla televisivo o pseudo fighetta dell’ultima ora sì, ma ai fotografi no. Per una volta me lo concedo.
E spero che coloro che hanno la cortesia di frequentare queste pagine me lo perdonino.
È che proprio davanti a ‘sta crocefissione non è possibile tacere.
Io non fotografo eroi, ma uomini. E sono contento di avere ritratto Alex Schwazer.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Assistente fotografo Giulia Diegoli

Fotocamera Hasselblad H3D II-39, con ottica 50 mm.
Flash Profoto

Tutto da qui.

HEARTHQUAKE, Irpinia 1980. © Efrem Raimondi. All rights reserved.Irpinia 1980, terremoto. Tutto è cominciato da qui.
Prima non me ne fregava un granché di fare il fotografo.
Il reportage… questo articolo mi serve. Per ricordarmi che è da questo che sono partito.
Da qui e dal lavoro sui disabili ANFFAS, febbraio 1981.
E che non mi dispiacerebbe affatto rifrequentare: niente addetti ai lavori attorno, niente trucco e parrucco, niente salette riservate per uno pseudo pranzo… niente.
Niente visi imbronciati e zero glamour.
E il set ce l’hai davanti già fatto, devi solo preoccuparti di sottrarre al quadro generale la tua inquadratura. Perché è ancora una volta di sottrazione che si parla.
In questo non mi smentisco. Proprio no.

Avevo 22 anni, ero militare di leva in convalescenza per una polmonite: sessanta giorni in tasca e nulla da fare. L’università m’aveva stufato (e ho sbagliato, Filosofia era un bell’ambiente in Statale), che fare?
Sono partito con un gruppo di volontari, da Milano direzione Irpinia.
Una settimana dopo il sisma.
Con l’intento di dare una mano. Ma visto che era pieno di gente davvero in gamba, e la mia partecipazione non mutava di un grammo il peso, ho messo mano alla Nikon FE che avevo con me.
Più l’adorata Pentax K 1000, caricata con del Kodachrome 25
(ISO…V E N T I C I N Q U E!!!) che ho usato per qualche paesaggio e un po’ di fiorellini, roba mai disdegnata peraltro… si fotografa ciò che si vuole, e che in fondo piace: non ci sono sovrastrutture, e la fotografia non ha morale!

Col reportage ho un rapporto conflittuale… non per colpa sua. E manco mia.
Però già da subito.
Contravvenendo alle sacre regole di allora (adesso meno, dipende solo dall’ambiente), scattai a colore, con l’aggravante slide e pure di scarsa qualità vista la poca grana.
Ma senza alcuna premeditazione, senza alcun piglio snob. Semplicemente era così che mi andava di fare. Non so dire il perché.
So che sono tornato con la chiara volontà di fare il fotografo.
Un incosciente taglio intimista… di questo me ne sono accorto già là, mentre scattavo: il mio occhio cercava il non eclatante e rovistava nelle zone d’ombra. Nella quotidianità offesa.
L’unica eccezione forse, la sequenza di una riesumazione, quella che ho pubblicato in SEQUENZE. E che forse oggi non farei.

Questo modo di declinare il reportage è lontanissimo dall’attualità, della quale non me n’è mai fregato niente.
Oggi più che mai non dovrebbe fregare ad alcun fotografo, e nemmeno ai giornali.
È così che ho cominciato. Da un reportage avulso.
Che mi ha insegnato una cosa: la fotografia ha una gran voce, ma non è difendibile da alcuna parola.
O è, o buttala.


© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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HEARTHQUAKE, Irpinia 1980. © Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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EARTHQUAKE, Irpinia 1980. © Efrem Raimondi. All rights reserved. HEARTHQUAKE
© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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Nota: la cromia è quella originale. Non ho voluto modificare nulla del sapore di allora. Condito con un po’ di deterioramento forse.
Così l’ho scattato e così resta.

Luoghi: Calabritto, Teora, Sant’Angelo dei Lombardi.
Fotocamere: Nikon FE, Pentax K1000.
Film: una slide qualsiasi che non ricordo, semplicemente economica.
Più Kodachrome 25.
Più una dose generosa di ingenuità. Che mi è stata decisamente utile.
Più una certezza. Una sola: l’esposizione è tutto.
Sia della pellicola/file che del fotografo. Qualsiasi fotografia faccia.

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Roberto Bolle, Étoile.

Roberto Bolle, SW 16 giugno 2012. All rights reserved.

 

Io mi dimentico.
Mi dimentico a volte della data di uscita di alcuni lavori che realizzo per i magazine… un motivo ci deve pur essere.
Questo lavoro a Roberto Bolle, per Sport Week di sabato scorso, doveva essere per me lo spunto per parlare del corpo, una volta tanto maschile.
Attraverso però un percorso variegato. Di respiro più ampio.
Rimando ad altra occasione.

Assolta la premessa, due cose su questo shooting vanno però dette… sono stato impressionato dal livello di perfezione, la sua sì, di Roberto Bolle.
Alessia Cruciani, la giornalista di Sport Week presente allo shooting, e grande appassionata di danza, mentre si predisponeva il set mi diceva che è molto impegnativo, difficile anzi, cogliere la postura esatta di quelli che io chiamo salti (ma che hanno altra e più sfumata espressione… so sorry).
Invece no, con Bolle è stato smplice, e il merito non mi appartiene… fatto tutto lui: da fermo, impressionante, su come un pistone e al momento che non saprei dire quale si apriva o chiudeva con una leggerezza e un controllo imbarazzante per noi lì, piantati a terra a guardare.
Sospeso… è stato facile, in quel momento scattavo. E un attimo dopo ritorno a terra, esattamente da dov’era decollato.
Di ogni “salto” ho fatto non più di tre scatti, e spesso era buono il primo. Così la cover.
Il resto del percorso fotografico mi appartiene di più, peccato ce ne sia solo una pallida traccia nel pubblicato.
Un’alternanza di forza e espressione… corporea e facciale, dichiarata o più intima. Ma qui non si può vedere al momento, questo il motivo del mio rimando ad altra occasione per parlare del corpo maschile.
Spero presto.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Foto ass. Giulia Diegoli.
Studio Santa Veronica. Milano, 30 aprile 2012.
Fotocamera Hasselblad H3D II-39 con ottica 80 mm.
Flash Broncolor.

La trappola didattica.

Barcelona, 1997 – © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Dovunque ti giri è pieno: corsi e workshop a tutto spiano.
Offerti da chiunque: dalla bottega alle scuole.
Con un impegno didattico variabile: dal weekend al biennio/triennio di classica impostazione accademica.
E con una esposizione economica che rimbalza dal centinaio di euro fino a un tot di migliaia.
Tutto ciò in un paese che non ha una sola università dedicata alla fotografia con un piano quinquennale.
Magari di anni ne bastano tre… magari due. Ma per far cosa?
Cioè, a fronte di una grande domanda, terribilmente obliqua, che offerta propone il mercato didattico? E per quale sbocco che tranne rare eccezioni il livello di uscita è imbarazzante.
Mi è capitato casualmente di imbattermi in due studentesse, “laureande” in fotografia presso una prestigiosa istituzione accademica. Erano prossime alla tesi, ed erano molto confuse.
Il materiale che avevano era il prodotto di un progetto ideato e realizzato coi propri fondi all’estero. Anche interessante, ma messo lì così non significava niente. In più tecnicamente era lacunoso.
E non ci si esprime come si vorrebbe affidandosi alla precarietà grammaticale.
Siamo ripartiti dall’intento. Siamo ripartiti dal soggetto. Siamo ripartiti dai raw… siamo ripartiti da tutto. Un percorso durato oltre due mesi a causa del singhiozzo, il mio, derivato dal mio lavoro primario, che è fare fotografia. Col quale ci pago la vita e le tasse.
E dove diamine era il loro relatore? Ho chiesto a proposito… se lo chiedevano anche loro. Li pagano poco??? Alcuni certamente, altri fin troppo!
Non sto a menarla sul piano morale e sull’etica dell’insegnamento, a qualsiasi livello, ma qualcuno mi dica sulla base di cosa lo sconto è effettuato sulla pelle degli studenti.
Ho insegnato sporadicamente da qualche parte, e tra l’altro mi è anche piaciuto. E magari lo rifarei. Con lo stesso entusiasmo di quando tiravo calci al pallone: se non ti va di giocare, stai a casa!
Se non ti soddisfano le regole e sei un genio incompreso, o hai la forza di cambiarle o cambi tu indirizzo. I ragazzi non c’entrano niente. E pagano di persona. Le conseguenze poi, sono per tutti.
Insegnare fotografia? La scuola è fondamentale. Il corpo docente che la compone ne è la spina dorsale: qual è il criterio di designazione di una cattedra? Quale il percorso che ti permette di mettere una targa s’un muro e distribuire diplomi?
Ho davanti un programma importante di un corso importante.
Il cui obiettivo è di formare un artista/fotografo, una figura in grado di confrontarsi con ambiti vari del mercato della fotografia: bene… cerco i docenti. Non li trovo. M’impegno a fondo e trovo una listina, una robetta misera nel numero: di questi ne conosco uno.
Che ha tentato in tutti i modi di fare fotografia. Ma di questa sua ostinazione non c’è traccia neanche su Google.
E mentre un tempo le cattedre erano appannaggio di artisti e docenti di chiara fama, con tanto di opere e curriculum, adesso il dato più significativo che scopro su uno di questi curriculum è ”non fumatore”.
A scendere immaginiamoci un po’! Tra agenzie e corsi finanziati dalla regione o dai comuni, tra botteghe e circoli vari: sulla base di cosa, di quali conoscenze e capacità didattiche, con che titolo e curriculum si imbandisce la tavola?
E chi partecipa, ma cosa si aspetta? Di uscirne in tre mesi con in mano cosa?
Mi arrivano da più parti richieste di workshop: non servono a un cazzo. Ne ho tenuti, è così che me ne sono convinto.
Ed è per questo che invece ne sto mettendo a punto uno mirato a una sola roba, precisa precisa: il ritratto e la coscienza di sé.
Sono anni che parlo di autoritratto. Sono anni che ritraggo gli altri così. Trovo che sia il momento di raccontare bene una cosa.
Se lo specchio non è piazzato in un limbo etereo, magari ci si accorge anche dell’altro che si riflette.

© Efrem Raimondi. All rights reservedi

SEQUENZE

Andreotti trittico, Roma 2006 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Non è un escamotage. E con la raffica non ha niente a che vedere, anzi ne è la negazione.
Questo perché non amo i postulati.
Solo un attimo per dire della prima e di come ci sono arrivato: ero un ragazzino con la fotocamera nell’Irpinia terremotata, anno 1980.
Ho seguito diverse riesumazione di poveri cristi, cadaveri da una quindicina di giorni. Scattavo e vomitavo… vedevo poco e la terra si assestava sotto i piedi. Di continuo.
A casa, in terra ferma, ho selezionato e rimontato in un’unica sequenza di quattro immagini. Forse un po’ ingenua e didascalica, ma è la prima… la mia matrice. Quella che mi ha permesso di pensare alle altre.
Allora non le degnava nessuno… c’è voluto del tempo.
Non nasce perché non sai cos’altro fare: appunto non è un escamotage, semplicemente pensi in modo differente e non ti soffermi sul singolo frame.
E con la raffica non c’entra niente perché di ogni scatto ne hai la percezione. E se c’è da rifare, miri al singolo.
La sequenza è una short story nella quale il valore di ogni immagine che la compone appartiene all’insieme.
E l’opera va presa per quello che è: non è affrontabile per frammenti, non è scomponibile.
Per i magazine un vero rebus di impaginazione: serve spazio! E quello a disposizione è limitato. Per questo se è per loro che sto lavorando ricorro al dittico: pam pam! E hai una doppia pagina… una sequenza gestibile che li rincuora.
Per le pareti dei musei e delle gallerie no… riempiono bene. E le rare volte che mi sono affacciato, per quanto spinga il contorno mi sento piccolo.
Statica, come nel caso di Vasco Rossi, oppure dinamica per Sakamoto o Andreotti, la questione non cambia: è una composizione e ha bisogno di una regia. Il casuale non è contemplato. Se non nella natura del gesto, come nel caso di Vanessa Beecroft.
Nascono tutte dall’esigenza di aggredire e dilatare lo spazio, che a volte è stretto.
O comunque geometricamente imposto e indiscutibile.
Scusa, ma allora non potevi darti al video?
No, non potevo e non posso. Sono un fotografo, vivo di contraddizioni e fermo il tempo.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

NOVEMBER 1980. IRPINIA EARTHQUAKE. PERSONAL

NOVEMBER 1980. IRPINIA EARTHQUAKE. PERSONAL

 

RYUICHI SAKAMOTO, TRITTICO

RYUICHI SAKAMOTO, TRITTICO

 

NICOLA SAVINO SEQUENCE

NICOLA SAVINO SEQUENCE

 

JOAQUIN CORTES

JOAQUIN CORTES

 

PIA TUCCITTO

PIA TUCCITTO

 

VASCO ROSSI - L. A. 2008

VASCO ROSSI – L. A. 2008

 

VANESSA BEECROFT

VANESSA BEECROFT

Il fiore è nero

Tulipano nero © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Se spegni la luce, tutto è nero.
Che te ne fai di tutti ’sti bit… che te ne fai di tutti ’sti iso, di un milione di mega e di una potenza di fuoco che non ha precedenti se poi, davvero, basta un cerino?
Serve un filo di luce e un occhio che veda. Ti basta star fermo e girare la testa… traguardare lo sguardo e selezionare la vista: che ci fai con tutta ’sta mercanzia al collo, e lo zoom, questa illusione ottica che pesa una cifra?
La fotografia si fa dove le cose accadono, cioè nel tuo cranio.
In questo spazio permeabile non serve nulla e le fotocamere si equivalgono.
È lì che si forma l’immagine. Lì o niente, e non c’è attrezzatura che tenga.
Ti serve poi solo una roba: la luce.
Questo è il limite della fotografia. Quanta? Direi quale!
La luce fende il buio, la luce la vedi: Caravaggio docet.
Diretta, diffusa, riflessa… calda, fredda, morbida, secca.
La luce è l’unico differenziale, tutto il resto suppellettili.
La luce non ha pregiudizi e non discute: avvolge, attraversa, rimbalza. In una relazione dinamica perpetua con tutta la materia.
Scrivere con la luce, ripetuto alla nausea. Non scrivere con la reflex, non con la Patatrak o la Fotuscoss (*)… scrivere con la luce.
Quindi impossessarsene e assecondarne gli umori.
Tutto ridotto ai minimi termini partendo dallo sguardo. Ma sapendo bene cosa si sta facendo. La confusione iconografica alla quale assistiamo è anche figlia di una diffusa ignoranza. La fotografia, al pari di qualsiasi altra arte, è disciplinata: per poter dire come ti pare, devi conoscere la grammatica. E qui si parte dalla luce.
Queste sono fotografie non mediate da alcun mezzo ottico: Polaroid 55 e un accendino.
Fotografia allo stato puro… elementare nella sua semplicità.
Non serve niente: una matrice, un soggetto, la luce.
E noi stessi. Magari fuori dal trend.
Certamente inattuali.

* Fotuscoss: faccio tutto, in lombardo.

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Fotocamera: assente. Luce: accendino Bic. Film: Polaroid 55.

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Hasselblad Master Jury

http://www.hasselblad.com/hasselblad-masters-jury.aspx

Non è semplice essere un giurato… temporaneamente giurato per quel che mi riguarda. Poi vedo qui e là che c’è chi ne fa una professione. Peggio: uno stile di vita.
L’importante è non pensare che da te dipenda qualcosa di fondamentale per qualcuno altro. Perché non è vero. Diffidare di chi sostiene il contrario. Nel dubbio diffidare comunque.
E la tua parola conta semplicemente per ciò che è, cioè una unità.
Essere onesti e fedeli a se stessi ma non prendersi troppo sul serio è una regola generale. Anche quando fai la tua biografia: io non mi ci riconosco mai!
Fatto salvo per i gatti, che confermo essere i miei soggetti preferiti.
Se poi li fotografo o meno non è poi così importante.

A margine… ma a cosa servono i concorsi?

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