Double Snapshot

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Era il 2000.
Ero a Los Angeles.
E le distanze non si colmavano mai.
E poi non riuscivo a fare entrare nella mia Polaroid SX-70 quella sensazione di dilatazione dello spazio che percepivo anche guardando un tombino.
La usavo molto l’SX-70, unitamente alla 690 SLR… per sfuocare, per muovere.
Per allucinarmi. Per dei redazionali veri, che oggi mi sparerebbero.
Ma per quanto drogata fosse l’aria di L.A. non riuscivo a farci stare un bel niente nella polaroid: percepivo, ma non realizzavo.

La finestra della mia camera dava su uno squarcio molto Ellroy, James Ellroy, che si rifletteva nello specchio, enorme, sulla parete opposta al letto.
Che a sua volta si rifletteva su un altro specchio a 45°.
Vivevo una condizione di perenne dilatazione e rimbalzo dello spazio.
E non potevo farci niente. Volevo solo fotografare quello scorcio e porre fine a quell’ossessione.
Poi un giorno feci la cosa più ovvia: scattai due volte.
Prima su, poi giù. Direttamente sull’Ellroy. Senza pensare.
Queste due polaroid sono la matrice della serie Double snapshot.
Che ho cominciato alla fine del 2001… inizio 2002 con dei redazionali, per Amica, Gentleman, Stern, Arte, Vogue Pelle.
Oltre che per fatti miei.
Così ho ritratto persone, musei, luoghi.
Il ritratto a Inna Zobova è l’unico che non aveva destinazione, l’ho fatto in una pausa make-up durante un servizio che aveva altre finalità… allora era la testimonial di Wonderbra.
Tutte le immagini della serie, mica solo queste, sono realizzate con delle normalissime compatte autofocus, pellicola soprattutto, e funziona così: inquadro alto, scatto… inquadro basso, scatto. Camera orizzontale.
Idem per le orizzontali: prima a sinistra poi a destra. Camera verticale.
Non penso: tutto dura pochi secondi. Sono davvero delle snap.

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Nell’ordine:
Francesco Bonami
Marta Dell’Angelo
Antonio Marras
Inna Zobova
Thyssen-Bomemsiza Museum, Madrid
Artium Museum, Vitoria – Bilbao
Kartell – Fuorisalone 2005
Belvedere Museum, Wien
PS1 MUSEUM, New York
Vogue Pelle – Studio Pollini
Vogue Pelle, 30° Anniversary Issue

Nota: l’unica eccezione alla compact camera è costituita dal lavoro per Vogue Pelle.
Realizzato con una Pentax 645N.

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Tibetani Hollywoodiani

Il Tibet non c’entra. Neanche Hollywood.
Forse.
È un concetto, tipo… avere la testa in Tibet e il culo su una chaise longue a Hollywood. Due estremi insomma.
Di cui l’estremo nobile, il culo, è sempre comodo altrove.
Ma la testa, lo sappiamo, vaga alla ricerca di dignità.
E di consenso. Morale e mediatico.
E vaga talmente tanto da convincersi che in fondo non è poi così importante dove il culo risiede.
Invece è importante.
È importante sapere dove la tua parte protetta e più preziosa ha messo radici.
Perché di fatto è con quella che scorreggi. Ed equamente parli.
Ed equamente fotografi.
Fine della metafora stilnovista.
Una fotografia vale più di mille parole?
Le parole hanno un peso specifico. Le fotografie pure.
Quali parole? Quale fotografia?
Di recente ho visto sul web questa immagine, di parole anonime

E ho visto questa fotografia di Terry Richardson. O che lo ritrae. In fondo non c’è molta differenza.

Sembrano esprimere lo stesso concetto. Sembra patta insomma.
Non è così: nella prima riesco, giuro, a estrapolare una poetica.
Cruda e magari involontaria.
In Terry Richardson vedo buona parte della fuffa mediatica che avvelena la fotografia, la diretta emanazione della subcultura televisiva occidentale dell’ultimo ventennio.
Per nulla involontaria.
E mentre la prima, la poesia diciamo, è scritta s’un pezzo di carta straccia, quasi un pizzino, la fotografia di Richardson è ben stampata su carta patinata, e riconosciuta universalmente.
Universalmente un cazzo!
È riconosciuta e avvalorata da una borghesia finanziaria che ha occupato stabilmente il sistema dell’arte e della comunicazione.
Di matrice americana. Una borghesia post industriale, una borghesia composta da chi non produce e non offre nulla, la cui unica merce di scambio comprensibile è il denaro.
Finanza diretta, mega agenzie appaltatrici culturali, mega fauna variopinta e impasticcata, tutti dentro.
La grande bellezza…
Qui non c’è morale se non la loro. E come potrebbe essere diversamente?
L’economia finanziaria è loro, la lingua è la loro. I serial killer sono i loro.
Il resto del mondo ha gli emuli. Anche quelli con fotocamera in mano.
Loro sono il metronomo. Gli altri ballano.
Ma questa non è la cultura americana! Che è stata ed è capace di pagine immortali.
Il mio pensiero in questo esatto momento va a un insegnante di letteratura di una cittadina del New Jersey…
Che combatte esattamente come noi per la propria sopravvivenza.
Il problema è l’attuale modello culturale. Un modello commerciale nato per l’esportazione. Che non concepisce la diversità se non nel folklore.
La fotografia è linguaggio. E il linguaggio è per definizione molteplice. Nasce e evolve a partire da dove ti trovi. Anche se ti sposti.
Se vivi in una zona franca indefinita, culturalmente avvilita, non c’è contaminazione!
C’è solo emulazione.
E siccome non sei l’originale, al massimo produci delle brutte copie.
Nel nostro caso è come essere costretti ad aprire bocca solo con lo sguardo rivolto al Colosseo.
E a riempircela ripetendo come un mantra obnubilante RINASCIMENTO! NEOREALISMO! Stop.
Non è così. Io vedo produrre immagini dalla forza dirompente in questo paese allo sbando.
E il bello è che è transgenerazionale, altro che no. Altro che pigrizia e beatitudine borghese.
Una produzione costretta underground che usa il proprio linguaggio.
Zero emulativa. Zero borghese.
E che non si concentra sul proprio ombelico – cazzo – culo – figa.
Solo che non viene intercettata da chi potrebbe. E dovrebbe.
Distratti da chissà cosa. Spesso vittime inconsapevoli che si accontentano di qualche privilegio. Senza però avere il culo a Hollywood.
72 generazioni fa eravamo i padroni del mondo…
Adesso di 72 abbiamo solo i DPI degli altri.

Ma cosa volete che ci freghi del Richardson di turno!
Di ‘sto linguaggio infantile e vecchio.
Dei pompini abbiamo memoria iconografica dai tempi di Pompei.

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mariEnzo Mari, sulla creatività: http://www.youtube.com/watch?v=X49crKOX9Js

UPDATE: 24 OTTOBRE 2017.
Magno cum gaudio nuntio vobis: GODO!!!
È di oggi la notizia che Condé Nast non lavorerà più con Terry Richardson.
E i servizi realizzati ma non ancora pubblicati, soppressi.
Letteralmente: should be killed.
Qui l’articolo del Telegraph
– Ripreso da D di Repubblica

Ma c’è un punto: la fotografia, saperla leggere, è trasparente.
Quindi, o tutti coloro che nel corso del tempo si sono sbrodolati sono degli analfabeti, o ammiccavano compiaciuti. E paganti.
Poi… che il Terry a stelle e strisce abbia scaldato i cuori – e le menti – di alcuni ambienti nostrani, lo trovo imbarazzante.
Ma di che appeal parlano le riviste che lo hanno ospitato?
E a più riprese celebrato.
Per quello che mi riguarda, è uno spartiacque.

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Mani!

Con mio padre, 1962.

Le mani non sono un’appendice.
Neanche i piedi. Ma perlopiù abbigliati o segati via, contribuiscono meno.
Puntualizzazione dovuta, e anticipata, a precisetti e feticisti.
Tutto ciò che è visibile in un’immagine concorre a determinarne la caratura espressiva.
Anche l’invisibile suggerito… quello la cui assenza è sottolineata: non si vede ma è determinante. A volte è la struttura iconografica.
Le mani non sono un mero terminale geografico, un organo prensile utile alle faccende quotidiane.
E l’articolazione poliedrica di cui dispongono ha valore espressivo. Noi italiani, popolo di gesticolatori, dovremmo esserne consci.
Invece no… pratichiamo il gesto solo in automatico.
Immaginarlo, riprodurlo, vivificarlo, è altra faccenda.
Questo mica solo noi. Però visto che la meniamo all’universo mondo sulla quantità di bene artistico che possediamo, com’è che balbettiamo? Tutta ‘sta memoria che ci appartiene, com’è che la usiamo a singhiozzo? Com’è che la rinneghiamo, ogni volta che volendo essere à la page indossiamo una qualsiasi divisa union jack, anche se straccia, anche se veramente straccia: non se ne può più di sentire che fai una fotografia molto british!
Ma dove? Dove?!
Ma sapete di che cazzo state parlando?
Io sì. È di fotografia che si misura con le persone, di ritratto più pertinentemente.
Dove non c’è obbligo per le mani, ma se ci sono non basta facciano capolino.
Non basta la presenza.
Che generalmente si nota quando assumono quell’espressione imbarazzata, tipica di chi è lì per caso, di chi estraneo al contesto e dissimula, male, una qualche pertinenza.
C’è sempre un che di forzato. Una distonia.
Ueh, sciuretta English speaking griffata made in Italy, te ne sei accorta anche te? Brava.
Il fatto non sussiste, e spesso si è assolti, quando le mani sono dichiarate soggetto. Quando non hanno neanche bisogno di rubare la scena e ne sono al centro.
Come fai a distrarti? Ce le hai messe tu! E il motivo lo conosci benissimo, quello di prima, quello di sempre: le mani raccontano.
Il problema si pone quando non lo fanno in prima persona, quando sono porzione del racconto. Quando apparentemente defilate pesano quanto uno sguardo.
No panic! We are English (famiglia inglese sull’ascensore, in blocco, della torre Eiffel, qualche anno fa).
No panic! Le puoi sbattere in faccia all’obiettivo, le puoi nascondere, puoi farle dialogare tra loro, tenerne una sola, tagliarle.
Qualsiasi cosa insomma, ma occupatene. Quelle mani apparterranno pur al resto della figura… perché improvvisamente separarle? Perché ridurle a basamento del cranio, appoggiarle come un soprammobile dove capita… improvvisamente avulse.
Stanno nella scena anche quando non si vedono! E la sottolineano.
Anche se mute. Perché il punto è questo: le temiamo. Non fosse altro perché ci si incappa spesso, e ogni volta è un dramma. Se non durante, dopo, a giochi fatti. E allora in post cancelli, sposti, aggiungi un dito (anche due, meglio abbondare).
Mentre il problema è prima: guardare cosa sono le mani che hai davanti, che relazione ha con loro il soggetto.
Hanno delle specifiche? Sono gommose, nodose, energiche, mosce?
Impugnano, accarezzano, spolverano? Nude? Inanellate… borchiate come il guanto di un templare?
Qualsiasi cosa, qualsiasi pur di non essere delle comparse imbarazzate. E se fanno qualcosa, che la facciano! Non che la emulino.
Le mani in fotografia… come quando la stringi a qualcuno e la tua avverte che l’altra è morta. Il terminale di un’ameba.
E la tua scappa.

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© Efrem Raimondi. All rights reserved.James Conlon, 2000, GQ mag.

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Joe Strummer, 1999. GQ mag.

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Zhang Jie, 2008. Adriano Salani Editore.

Pierfrancesco Favino, 2003. Vanity Fair mag.

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Dario Argento, 2003.

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Elisabetta Canalis, 2002. Class mag.

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Carlo Pesenti, 2003. Capital mag.

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Silvana Annicchiarico, 2012. Ladies mag.

© Efrem Raimondi. All rights reserved. Nek, 2010. Gioia mag.

Cesare Geronzi, 1997. Capital mag.

Little Steven, 2000. GQ mag.

Joaquìn Cortés, 2004. Class mag.

Fernanda Pivano, 2005.

Alessandro Del Piero, 1994. Class mag.

Gigi Buffon, 2007. Men’s Health mag.

Vasco Rossi, 2000. EMI Music.

Maria Cabrera, 1988. Dolce&Gabbana.

Maria Cristina Didero, 2012. Ladies mag.

Contadina, 1984

Valentino Rossi, 2001. GQ mag.

Valeria Magli, 1991. Interni mag.

Cat Power, 2012. Rolling Stone mag.

Giovanni Lindo Ferretti, 2009. Arnoldo Mondadori Editore.

Paola e Chiara, 1999. GQ mag.

Pia Tuccitto, 2007.

Valeria Bonalume, 2012. Playboy mag.

Robin Rizzini, 2012. Interni mag.

Viviana Tomaselli, 2013. Grazia mag.

Alessandra Ferri, 1996. Lo Specchio mag.

Giulio Andreotti, 2006. Grazia mag.

Chiara, 2006. Arte mag.

Fiorello, 2000. GQ mag.

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La Fuga – Vogue Pelle 30° Anniversary Issue

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Vogue Pelle 30° Anniversary Issue…
Stavo sistemando un po’ di roba nel gran casino che è il mio cranio, e che è simile all’armadio dei negativi. Quello dove ho stipato qualche chilometro di pellicola.
E mi salta fuori d’emblée La Fuga.
Perché è così che era stato pensato e realizzato questo lavoro per Vogue Pelle, numero per il 30° anniversario, settembre 2005: la fuga notturna di una bambola dimenticata.
Una calda notte d’estate. Una notte ubriaca. Una notte perfetta per fuggire.
C’è chi crede che io racconti dove mi trovo. E che questo sia la fotografia.
Non è vero.
Io racconto sempre qualcosa che non c’è. Che non è dove mi trovo. Ma che si vede.
Basta guardare a occhi chiusi e pori aperti.
Questo è per me la fotografia.
Sarei dovuto scappare anch’io quella notte.

Buon anno, fanciulle e fanciulli in fuga.

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CAOVILLA. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

STUART WEITZMAN. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

JMMY CHOO. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

STUDIO POLLINI. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Modella: Federica.
Make up: Nancy Gallardo.
Producer: Camilla Invernizzi.
Assistenti fotografia: Emanuela Balbini, Nicole Marnati.
Location: Turci Calzature, Milano. Giugno 2005.

Sandali: CAOVILLA, STUART WEITZMAN, JMMY CHOO, STUDIO POLLINI.

Fotocamera Pentax 6/7 con SMC Pentax 55 mm.
Film Fuji NPS 160.
Flash Profoto.

TABULARASA – Vasco Rossi

Vasco Zone

Vuoi venire con me in America?
Era Tania Sachs al telefono… ottobre 2000. Credevo fosse uno scherzo. Ho riattaccato. Non sapevo che fosse la responsabile della comunicazione di Vasco Rossi. E che non stava scherzando per niente. Così è iniziata per me questa fantastica e complessa scorribanda iconografica nella Vasco ZONE. Non complicata… complessa. Perché fotografare Vasco non è facile. Innanzitutto sono dovuto partire per Los Angeles, io che non amo viaggiare se non in macchina… passi anche il treno se ho poco bagaglio. Finalmente posso parlare di Vasco Rossi! Era ora… ci voleva TABULARASA. Altrove l’avevo già fatto. Qui mai. Per pudore forse. Nei miei confronti… questo blog non ha un anno e come fai a parlare di Vasco se non hai ancora un anno?!
Ma adesso sono legittimato. Adesso carta canta!
Fatto a quattr’occhi (servono sempre entrambi, anche se il mirino della fotocamera ne ospita uno) con Toni Thorimbert.
Lo diciamo anche nella Prefazione, una convergenza rara. Un’esperienza, questa, che mi ha dimostrato che lavorare a un progetto comune è possibile. E adesso direi auspicabile…

Ph. Giorgio Serinelli, c/o Studio Thorimbert

Di questa avventura editoriale devo ringraziare soprattutto Toni: l’intuizione è stata sua. Ma qui non ci si nasconde. Entrambi conoscevamo le reciproche immagini about Vasco. Mica tutte. Ma le più note sì. Poi io posto su FB (chi dice che serve a un cazzo?!) una immagine, quella che chiude il libro e che avevo realizzato un mese prima. Con un Vasco visibilmente provato.  Dentro però c’è tutto il mio affetto per quest’uomo.
Che insomma, qualche giro insieme s’è fatto e qualcosa vorrà dire. Toni vede ‘sto post e pronti via mi scrive. Ci vediamo. Lui aveva la sua maquette pronta per la stampa, volendo. Io la mia. Che stava lì da un po’. Ferma in attesa di qualcosa.  Allora non sapevo di cosa. E io credo poco alla casualità dei frangenti… Mentre sfoglio la sua mi rendo immediatamente conto che la mia è monca. Cioè, intendiamoci, non era male… se passassi il tempo a guardarmi l’ombelico avrei potuto anche credere che fosse una grande storia. E chiusa lì. Ma non era così: era monca! Prima di novembre 2000, Los Angeles, non avevo niente! Manco un autografo… Vasco lo ascoltavo e basta. Vinile prima, cd poi. E questo vuoto non era però un semplice fatto cronologico, fosse stato così me ne sarei rimasto dov’ero col mio pacchetto di foto sottobraccio… no, le immagini che sfogliavo raccontavano un periodo in un modo che condividevo totalmente. Anche emotivamente.
C’è sempre un prima e un dopo. E il dopo è TABULARASA. Così il prima non aveva più lo stesso senso. Questo per me.
Qualche numero magari aiuta a capire: 27 anni di viaggio, dall’85 a oggi per quasi 200 immagini  (sequenze e dittici valgono una).
All’inizio erano quasi 400… troppe: Stefania Molteni, photo editor, ci ha messo del suo e ha contribuito a dare un ordine. Stampata al volo la nuova maquette siamo andati da Gabriella Ungarelli, Mondadori. Che ha gradito.
Tralascio i passaggi intermedi, chi se ne frega. Ora, se sfoglio questo libro mi ritornano forti certe emozioni. E una bella quantità di aneddoti, uno per ogni immagine forse. Certamente per ogni shooting e per il contorno che comporta: mica si passa tutto il tempo a cliccare!
E posso aggiungere persino di essermi fatto delle sane risate in sua compagnia. Perché Vasco è anche allegro (cinicamente allegro): non ostinatamente attaccato alla sua icona… sa scendere dal palco. A differenza di altri. Che tra l’altro il palco, quel palco, l’hanno solo visto da lontano. Un luogo speciale, e non c’è niente come starci sopra e puntare l’obiettivo sul Popolo di Vasco: meravigliose facce da randa!

Imola, 16 giugno 2001. Da TABULARASA.

Lo chiarisco a scanso di equivoci: io provengo da lì. E in quelle facce, in quella eterogeneità mi riconosco. Qualcuno di loro forse ricorderà l’instant book Intorno a Vasco, edito dalla EMI in occasione della mostra omonima che feci alla Galleria Grazia Neri, a Milano nell’aprile 2001: una sorta di diario del mio primo viaggio con Vasco a Los Angeles. Alcune di quelle fotografie sono ancora qui, in TABULARASA. Certe immagini ti accompagnano sempre. Alcune accompagnano più persone. Anche tra loro estranee. È la fotografia. Quella roba che ha la capacità di trascendere il tempo e la sua precarietà. Che regala souvenir diversi. Come certe canzoni.
Vuoi venire con me in America?
Meno male che Tania ha richiamato.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Negativo cover Rolling Stone aprile 2004. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nel libro, che non è di ma su Vasco Rossi, compaiono diverse persone del suo staff con le quali nel corso di questi anni ho chiacchierato, discusso, cenato, girovagato, lavorato e anche cazzeggiato… e che qui voglio ringraziare: Floriano Fini, Guido Elmi, Danilo ”Roccia” D’Alessandro, Massimiliano ”Macho” Barbieri.
Anche Swan, regista dei live e di alcuni videoclip, col quale ho collaborato ai tempi di Siamo soli.
E Massimo Poggini, insieme in giro per Los Angeles nel 2008, pubblicando poi per Max il libro Vasco Rossi, una vita spericolata.
Grazie anche a Gabriella Ungarelli, Marta Treves, Chiara Oriani, Donata Sorrentino.
A Giacomo Callo e Marina Pezzotta che hanno realizzato la copertina… insomma un grazie a tutta la redazione Mondadori.

Tania Sachs la ringrazio in modo particolare, a lei penso come a una amica.

Le tre Cover.

Ringrazio anche le/gli assistenti che si sono alternati in questi dodici anni di collaborazione vaschiana… in primo luogo Fabio Zaccaro con me a Los Angeles la prima volta. Poi, in ordine seguendo l’impaginato di Tabularasa: ancora Fabio (Roma 2004 – Cattolica 2001), Letizia Ragno (Roma 2004 – Bologna 2009 – Pieve di Cento 2003 ), Nicole Marnati (Sinai e Sharm El Sheik 2004 – Bologna 2004), Emanuela Balbini (Bologna 2009), Giulia Diegoli (Bologna 2012).

A Los Angeles nel 2008 e in altri luoghi, senza assistenti. Spesso con una semplice compatta, che è stata motivo di ironia da parte di Floriano Fini e dello stesso Vasco. Però eravamo tutti più leggeri. E ci si poteva persino permettere di “scambiarci” le foto. Non ne ho neanche una con Vasco… incredibile! Però ho questa sotto.

Giugno 2008, Hotel Melià, Milano © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Mai capito perché in questo paese ci siano delle remore a dichiarare il prezzo di un prodotto: TABULARASA costa € 25,00. Per tipologia e qualità di stampa appartiene a una fascia di costo decisamente maggiore. La scelta è dell’Editore, condivisa da Toni e da me. Brossura con alette, formato 25,4 x 18 cm. Pagine 252. In libreria dal 5 dicembre.

Presentazione: 17 dicembre – h. 18,30.
Libreria Mondadori, via Marghera 28, Milano.
Introduce Giovanna Calvenzi. 

                    

Mark Knopfler… a proposito di Fender.

Roma, settembre 2000 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Ero al  Grand Hotel Plaza, a Roma… settembre 2000. Il giorno dopo avevo uno shooting per GQ Italia.
Rientrando dal sopralluogo mi sembra di intravedere Mark Knopfler infilare la hall.
Sta a vedere che alloggio nel suo stesso albergo! E infatti…
Grandissimo chitarrista lui, e favolosa la sua Stratocaster… bisogna tesaurizzare! Chiamo la redazione… no anzi, la redazione chiama me e mi dice che Mark Knopfler è a Roma, al Plaza (lo so). Per una conferenza stampa (non lo so). Di ritrarlo (a ‘sto punto me l’aspetto). E che sta arrivando anche Antonio Orlando per intervistarlo (son qui). Non riesco neanche a dire che l’ho incrociato mezz’ora prima, Knopfler… ciao!
Esco dalla camera per andare alla reception con l’intento  di strappare un sopralluogo su due piedi (mica facile)… percorro il corridoio e vedo quattro persone che chiacchierano. Più una poltrona. Con seduto qualcuno. Ma è coperto e non vedo, intravedo…
È una zona defilata e riservata dell’albergo, e infatti non capisco cosa ci faccia io lì.
Forse un errore. Forse non avevano più disponibilità e mi è andata di lusso.
Va be’, mi avvicino e sbircio… e più o meno vedo la scena di questa foto. E mi piace.
Ma è una proiezione, intendiamoci. Intanto non c’era la Stratocaster. E io non avevo alcuna fotocamera con me. Mentre la proiezione richiedeva entrambe.
Quasi quasi gioco in anticipo penso… Mi faccio coraggio, saluto e mi faccio avanti.
Mi rivolgo a una fanciulla che mi sembra sovrintendere e infatti è dell’ufficio stampa della casa discografica. Insomma, per farla breve, coi miei assistenti  predisponiamo un set in 10 minuti.
Esattamente lì. E per come ho visto la scena. Più o meno.
A volte funziona così. Molto raramente. Anzi mai.

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Assistenti: Pietro Bomba e Fabio Zaccaro

Fotocamera: Pentax 645 N con 75/2,8.
Luce: Profoto flash.
Film: Agfapan APX 100.

Ritratto in una stanza e mezza.

Carlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved

Carlo Petrini è morto due giorni fa, a 64 anni. È stato attaccante anche del mio Milan, col quale ha vinto una Coppa dei Campioni nel 1969.
Non voglio parlare di lui, della sua vicenda calcistica e dei libri che ha scritto (tra tutti Nel fango del dio pallone, Kaos Edizioni).
Sono grato a quest’uomo. Perché ritrarlo mi ha rimesso in piedi.
Ero appena tornato da un periodo tosto, faticoso, stressante e pieno di luci. Di quelle che abbagliano. Ero rientrato da Los Angeles cinque giorni prima, davvero disfatto.
Trovarmi lì, in quella situazione, è stato un ceffone. Di quelli che fanno male. E d’emblée ti svegliano.
A Monticiano, fuori Siena… fuori da tutto, in un buco di una stanza e mezza più una piazza: la mia storia è tutta qui.
Ho un solo modo di ricordare le persone: il mio. E passa attraverso la fotografia. E la voce.
Qui piazzo le foto. Che mi permettono di dire un paio di robe…
Questo è un lavoro per GQ Italia, numero di gennaio 2001.
Ci credereste? Eppure… articolo del torinista Marco Mathieu.
Non è un reportage, cos’è allora che lo rende simile di primo acchito… cos’è che fa stridere, persino a pensarla, la parola shooting?
Com’è che un patinato come GQ, per il quale mi occupavo del ritratto, ‘ste cose le produceva? E perché proprio io? Ma soprattutto, perché no? Non è che se per caso bazzichi per una sera il jet set, ti dimentichi del treno dal quale sei sceso. O sì?
Per chi il treno non ha mai avuto il bisogno di prenderlo non vale.
Questo è per me un lavoro importante. Che ho lasciato nel cassetto per tanti anni.
L’importanza di un lavoro non si misura sulla base della visibilità o appunto dell’importanza del soggetto. Né il numero di tacche sulla fotocamera fa di per sé curriculum.
So per certo che più d’una photo editor, una in particolare, non direbbe che è mio.
I cliché in fotografia sono diffusi, a tutti i livelli, e essere obliqui non è detto che sia un plus (si legge come è scritto).
Queste fotografie sono dei posati a tutti gli effetti, e concordo, il reportage è un’altra cosa. Forse… perché non vedo cos’abbiano di meno questi ritratti. Non vedo a cosa servisse raccontare altro.
A volte basta una foto, a volte no. Ma ricamarci sopra è gratuito.
E io non sono un buon ricamatore.

In ricordo di Carlo Petrini, R.I.P.

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Carlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCarlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCarlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCarlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCarlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Assistente fotografia: Fabio Zaccaro.

Fotocamere: Polaroid 600 SE con Seiko 75 mm, Pentax 645N con 55 mm.
Luce ambiente e flash Profoto + luce ambiente.
Film: Polaroid 665, AGFAPAN 100

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Benvenuti!

Daniele Scarpa, Venezia 1999, GQ Italia. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Questo è un blog polemico.
Nasce dall’esigenza di approfondire diversi elementi, anche del mio lavoro, ma soprattutto quelli legati alla fotografia più in generale. Che è molto cambiata, al punto che credo sia lecito domandarsi cosa diavolo sia oggi e in che misura ci si rifletta e riconosca.
La mole di immagini che quotidianamente rimbalza da ogni dove è stordente.
Uno schiamazzo privo di espressione alla ricerca di consenso (facebook docet).
La massificazione digitale ha contribuito in larga misura solo nei termini dell’accesso alla produzione: prima occorreva una conoscenza, anche di quella roba tanto schifata che si chiama tecnica, oggi chi se ne frega… ON e PLAY coincidono.
Ma play cosa? Che rapporto c’è tra ciò che produciamo e ciò che vorremmo produrre?
Il linguaggio è ancora l’elemento centrale. Quello che ci distingue. Non è un fatto competitivo, è l’urgenza intima di manifestazione che in alcuni trova espressione. In altri no. La democrazia digitale è un sistema di controllo e omologazione del linguaggio che bandisce la ruga all’insegna di un codice estetico puramente mediatico. Con la fissa della perfezione. La fotografia, quella che intendo io, se ne fotte di essere mediatica .
Ed essendo linguaggio, è per definizione imperfetta.
Questo blog è in italiano. Non ho tempo per altri idiomi.

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