Anja Niedringhaus

Ph. Angela Charlton

Ammazzare una fotografa, un fotografo, è come abbattere un aquilone…
Anja Niedringhaus è caduta così.

Non la conoscevo, ma il dolore è grande, come la rabbia.
E questo non è un post estemporaneo, perché sento una naturale vicinanza ai fotografi.
Se donne, di più. Perché doppiamente esposte.

Fuorisalone – FEEDING NEW IDEAS FOR THE CITY

Efrem Raimondi. All rights reserved.

 

Fuorisalone adesso tra una settimana. Ma io non capisco…
Ma tra i fotografi che conosco e che hanno abitudine al Web, cioè lo usano dialetticamente, è possibile che siamo in quattro gatti a occuparci di design?
Magari io un po’ saltuariamente rispetto all’abitudine degli altri tre, ma comunque tutti con l’intento di mettere al centro il linguaggio, quello fotografico, che ritengo coincidere, per essere tale, con una visione più ampia che riguarda l’idea di mondo. Per quello che è e per quello che si auspica. Anche utopico magari.
Non è solo una dichiarazione estetica, nella fotografia che mi corrisponde e che amo vedere, c’è una forte determinazione ideologica.
Che è roba ben oltre la quisquilia politica.
E che è insofferente a ogni forma di omologazione.
Insomma amo le prese di posizione. E la contraddizione.
A volte, questa fotografia ha modo di manifestarsi con precisione, senza doversi occupare necessariamente di buoni sentimenti e sfiga assortita.
E anche quando se ne occupa, non è allusiva di niente: è nuda.
Amo il design anche per questo, perché spesso è nudo… molto ben esposto. E se si deve in qualche modo difendere, coprire dagli spifferi delle tendenze, indossa un cappotto nero, lungo, chessò… un Ferré d’altri tempi, non un accappatoio da sfilata buono per il motel.
Non esiste una fotografia di design, non una di moda, non una di ritratto e nemmeno una di paesaggio: esiste una fotografia e basta.
Che è quella alla quale guardare.
Ma è possibile che dopo i grandi, tipo Aldo Ballo, Gabriele Basilico, Luigi Ghirri, la Cuchi White, solo per citarne alcuni che purtroppo non frequentano più – chiedo venia per quelli che manco ma vado di fretta – e che da soli erano in grado di generare attenzione, di far convergere giovani fotografi, ricerca critica, magazine e industria ogni volta che col design si cimentavano, possibile che si sia creato un vuoto? Possibile che ai giovani fotografi o aspiranti tali il design dica zero?
Io mi giro, ma non vedo un granché. A parte qualche eccezione mi tocca sempre guardare avanti.
È proprio così, e sono alla vigilia di questo Salone Internazionale del Mobile. Che anche quest’anno affronto con l’iPhone.
Diversamente dall’anno scorso non sarà mosso. Se non forse in qualche circostanza dettata dal caso.
Anche perché sarò stanziale, tra mura confortanti, quelle dell’Università degli Studi… la Statale di Milano.
A seguire conferenze, eventi, happening e altro che il programma offre. Sarà un reportage insomma. Forse più un backstage.
Forse non so.
Per capire bisogna cimentarsi, non sempre tutto è scritto.
E questo non è un copione.
Per INTERNI magazine, per Mondadori, con la convergenza di Expo 2015.
Tutto rigorosamente Web: Facebook, Twitter (pillole) Sito.
Come l’anno scorso, un social tris in tour de force…
Con sintesi cartacea poi, nel numero di giugno.
FEEDING NEW IDEAS FOR THE CITY, questo il tema.
Nutrire… alimentare se vogliamo.
Intanto ho iniziato con una preview, con cartoline dei lavori in corso.
Con un aperitivo. Leggero.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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L’anno scorso
https://blog.efremraimondi.it/milan-design-week-giu-la-cler/

Calendario eventi:
http://www.interni-events.com/

Fotocamera: iPhone 4S

Aggiornamento 5 aprile, sempre e solo PREVIEW:

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Fotocamera: iPhone 4S

Magazines tourbillon

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Magazines tourbillon…
Ho inviato a 68 persone che lavorano nell’editoria periodica, quindi quotidiani esclusi, una sorta di questionario.
Sono sedici domande più una, semplicemente per verificare dei dati.
Photo editor, stylist, giornalisti, redattrici, art director, segretarie di redazione, che lavorano stabilmente alla produzione dei magazine italiani. Salvo qualcuno, si tratta di contratti di assunzione a tempo indeterminato.
Alcuni appartengono alla stessa redazione, diversi allo stesso gruppo editoriale.
Hanno risposto in 57. Chi non l’ha fatto avrà avuto i propri motivi. Che io non discuto.
Sotto, pubblico domande e risposte.
Ognuno tragga le conclusioni che preferisce, io do solo i numeri.
Un’unica considerazione: il massimo dell’investimento è fashion.
Tutto il resto nel suo insieme vale sì e no il 10-20% dei borderò.
Esclusi i magazine di design e architettura, più quelli di indirizzo scientifico, ovviamente.
Inclusi i newsmagazine generalisti, maschili e femminili, più alcuni ”settoriali”… ovviamente mica tanto.
In effetti c’è un’altra considerazione: alcune risposte, quelle che dovrebbero dare un’idea sull’orientamento editoriale nel suo insieme, sono piuttosto contraddittorie.
Molto modestamente, mi sembra grande la confusione. E in generale tra le righe delle risposte ho percepito i forti timori di alcuni… per diversi motivi sui quali magari varrebbe la pena di tornare, più avanti e con un minimo di analisi.
Al momento la nota è che il conto da pagare è salato, e non tanto per via della contingenza economica: chi lo paga?

PDF    Q U E S T I O N A R I O

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Trussardi – Monografia mossa

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Se non si muove nulla, allora muoviti tu.
Se il movimento è incerto, allora sii deciso… corri.
Se la frenesia è altrui, allora stai fermo.
E tutto ciò per fare cosa?
Fotografia. Mossa.
Perché il mosso di cui parlo si fa quando si scatta.
Non dopo.
Che poi, diciamolo chiaro: si vede la differenza!
Ma perché mai si dovrebbe omologare una fotografia così?
Non ne ho idea. Né me la pongo.
Per questo all’occorrenza pratico.
E al Futurismo non ho mai pensato. Neanche per sbaglio.
Neanche la prima volta, che credo sia stato più o meno quando ho preso la fotocamera in mano.
Solo che appunto, poco dopo averla presa in mano ho passato i dieci anni successivi in banco ottico. Scorrazzando in lungo e in largo. Un grande amore. Di quelli per sempre.
Ogni tanto mi sono concesso un break.
E con la macchinetta in mano godevo del dinamismo ritrovato.
Quello realmente fisico.
È come passare dall’affresco e il trabattello, alla bomboletta e il fianco del metrò.
Ma non è mai stato un caso. Qualche volta un gesto isolato, vero, ma per essere davvero efficace e liberatorio serve un percorso.
Uno spazio ampio: argini alti che ne garantiscano il fluire e diano un ordine.
Perché altrimenti il mosso è solo un’ubriacatura… che poi passa e non ti rimane niente. Non ne ricordi nemmeno il motivo e fatichi a trovarne il senso.
Il mosso non è lo sfuocato, che non prevede alcuna dinamica: fermo lì a smanettare l’obiettivo e cambiare le sembianze, che accentuano  la matrice bidimensionale.
Il mosso è invece penetrazione della materia, sfondamento dello spazio, illusione percepibile di un volume.
Patteggiamento col tempo, che deformi a tuo piacimento.
Come un funambolo, così mi sento… appeso a un filo col baratro ovunque. Perché è un attimo finire di sotto. O di lato.
Attraversi il vuoto in uno stato di allucinazione, che è la condizione per raggiungere la sponda. E ritrovare la gravità. Quella che ti riguarda.

Questo lavoro è stato concepito così. Ne avevo bisogno.
Era morto da poco mio padre. Volevo spaccare il cielo.
Tutto questo a Nicola Trussardi non l’ho detto.
Anche se ne avevamo chiacchierato in due occasioni di questo progetto.
Né l’ho detto a Christoph Radl, suo il progetto grafico.
Non credo proprio potesse interessare. Erano solo fatti miei in fondo.
A entrambi loro, giustamente, interessava vedere cosa sarebbe emerso.
A fine settembre 1996 ho realizzato la prima parte, ci siamo visti, e a quel punto mi è stato chiesto di realizzare anche la parte che avrebbe riguardato l’inaugurazione di Palazzo Marino Alla Scala.
Questo lavoro, questo mosso, costituisce la struttura iconografica del libro Trussardi, Marino Alla Scala.
Ci sono altre immagini, di Mark Borthwick, Riccardo Bianchi, Santi Caleca, Massimo Montagnoli – caro amico scomparso prematuramente – e Mario Testino.
Ma la struttura, la cifra, appartiene a questo mosso.
Il cui soggetto è Milano.
Piaccia o meno, è proprio così.
Una monografia… Un libro. Che richiedeva esplicitamente uno sguardo.
Ricordo molto bene l’espressione di Nicola Trussardi quando guardava le stampe dell’intero lavoro: gliene sarò per sempre grato.
Questo non è un amarcord. Questo è un punto.

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Trussardi, Marino Alla Scala
118 pagine – Rilegato a spirale, 24 x 30 cm
Contenuto in scatola 28 x 32 cm
Progetto grafico Christoph Radl/R+W
Stampato da Nava Web
Milano, marzo 1997.

Le immagini qui pubblicate sono solo una selezione dell’intero lavoro.
Fotocamere Nikon FE e FE2
Obiettivi Nikkor: 20/3,5 – 50/1,8 – 105/2,5 in un’unica immagine.
Film: Agfapan 100 e 400 ISO

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Sebastiano Filocamo – Un ritratto


Ci sono facce che riconosci.
Le hai incrociate da qualche parte chissà dove e chissà quando.
E in qualche modo si sono sedimentate.
Te ne accorgi che è così perché quando le rivedi riemerge la prima immagine.
Quella che avevi fotografato solo mnemonicamente.
Questo è il mio tarlo: dare luce alle facce che memorizzo.
Che non sono tante… perché le facce di cui parlo corrispondono a dei topos figurativi. Riconoscibili anche per strada, anche in coda in tangenziale, anche alla luce fioca dell’intervallo al cinema.
Ne cerco lo sguardo. E quando lo trovo vorrei fermarlo fotograficamente all’istante.
Così com’è.
Si può lasciar perdere tutto il resto, tutto il contorno… che te ne fai dei capelli, che te ne fai delle orecchie, che te ne fai degli zigomi, che te ne fai? Che tanto è conforme all’epoca e tutto sommato intercambiabile.
Non lo sguardo. Il vero identikit, il tuo respiro.
E che viene infatti coperto o pixellato a tutela dell’identità.
Il resto è carrozzeria, più o meno metallizzata.
Solo che è raro si possa fermare fotograficamente uno sguardo, lì dove si incrocia.
Ci pensa la memoria a immagazzinare. E siccome la memoria, per essere tale, è un fatto dinamico, si ripresenta sempre all’appuntamento.
Non ha importanza che ti restituisca con precisione luogo e ora della registrazione, è la visione che conta.
Con Sebastiano Filocamo è andata esattamente così… io l’avevo già visto.
E il suo sguardo già incrociato.
Ed è clamoroso, perché il fatto che sia attore e che le probabilità di averlo visto mediato dal mezzo, cinema o teatro l’è istess, fossero molto alte, non mi ha neanche scalfito: ero e resto certo di averlo incrociato.
E comunque quando mi è stato davanti non ci ho pensato due volte… l’ho fotografato per come lo ricordavo. Per come la memoria me lo aveva restituito.
Il fatto che immagine memorizzata e immagine restituita coincidano, è liberatorio.
Perché finalmente uno sguardo ha trovato la sua faccia.
E io ho un tarlo in meno.

Antefatto.
Così: maggio 2012, tramite FB – ancora – ci conosciamo; quella faccia mi ricorda uno sguardo, o viceversa; so che deve uscire il film Tutti i rumori del mare, opera di Federico Brugia con Sebastiano protagonista; gli chiedo di ritrarlo; luglio 2012, cortesemente accetta, viene da me, tiro su un fondo bianco in tela da 1,50 x 2, impugno la fotocamera, luce ambiente, inquadro e scatto. Fine.

Poi… vado alla prima di Tutti i rumori del mare, e mi piace davvero.
Annoto che sono proprio contento di avere ritratto Sebastiano Filocamo.
Flash back: ma l’ho visto in Una pura formalità!!! Film di Giuseppe Tornatore.
Boh…
Che però però… dal mio punto di vista sono riuscito a ricongiungere uno sguardo memorizzato con la faccia di una persona. Stop.

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Fotocamera Hasselblad H3D II-39 con 80/2,8 + Extension tube 13 mm per la prima immagine.
Luce ambiente.

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Lectio Magistralis. Aperitivo

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Oggi sono allo IED di Torino. Per una lectio magistralis.
Che ha l’abitudine di presentarsi in maiuscolo.
Il più delle volte a ragione, nel mio caso no.
Non è una posa, so ciò che dico: ai posteri l’ardua sentenza… solo che a me dei posteri non me ne frega niente.
Perché se mi fregasse davvero qualcosa non farei il fotografo.
Farei cose, oggi, ben più utili. E non me ne starei a rimirare il mondo e la sua fauna umana proiettata all’inferno.
Con l’aggravante della pretesa interpretativa, invece cerco di rappresentarlo questo mondo… che è poi quello che ai posteri verrà consegnato.
Per questo ci malediranno. Perché invece di stare con l’iPhone in mano e scaricare tonnellate di spazzatura iconografica, potremmo fermarci.
Mica tanto… giusto il tempo per capire dove virare.
Tecnicamente non è facile, ma almeno un impegno emotivo e uno sforzo intellettuale, li vogliamo fare?
Io non voglio scendere da questo mondo, e anzi mi fa incazzare l’ineluttabilità della morte. Forse è questo che si fotografa: la resistenza alla perversione della logica, all’ineluttabile inaccetabile.
Alla supremazia della clava. In qualsiasi forma si rappresenti.
E tanto più metti a fuoco il senso del tuo resistere, tanto più trovi il linguaggio per esprimere la tua ribellione.
C’è chi ci sguazza… se mi fregasse davvero dei posteri mirerei il mondo non dal mirino di una fotocamera.
Sono giusto trent’anni che sono fotografo. Più i due che hanno preceduto formalmente il mio ingresso in società, fanno trentadue anni che faccio fotografia.
E non sono ancora in grado di tirare una somma che è una.
Qualcosa però ho imparato… la più importante: fotografare senza guardare.
La vista è un esercizio molto più complesso che implica un’abitudine all’invisibile. A ciò che non si palesa con la fanfara.
Io credo nell’utopia. E in ciò che non si vede.
I newsmagazine fateveli voi. Che tutto guardate e sapete.
Noi siamo ciò che saremo, sai che ci frega dell’attualità!
Di ciò che si vede, della realtà sottolineata e zeppa di strass non me ne frega un cazzo.

È curioso… ‘sta storia di Internet è potente: questo post mi precede a Torino.
Ringrazio Paolo Ranzani, collega e in più docente allo IED. È a lui che devo il fatto di essere, a breve, lì.
Con di fronte dei ragazzi. Nei quali mi rifletterò: trent’anni fa ero anch’io così.
Dimenticavo… ho avuto sette maestri, nessuno di questi è più tra noi, così non faccio torto a nessuno: Luigi Raimondi – mio padre, Richard Avedon, Caravaggio, Charles Bukowski, Louis-Ferdinand Céline, Michail Bulgakov.
E Felipe, il mio gatto bianco.
Poi ho girovagato. E ogni tanto qualcosa ho trovato.
La fotografia è rivoluzionaria. In quanto discute e scompone l’ordine costituito.
È violenta. In quanto restituisce arbitrariamente.
Qualsiasi forma assuma, non è un vezzeggiativo.
A tra poco.

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Viaggio al termine della notte – Seconda eccezione

Questa la seconda eccezione.
Che a differenza della prima, Una storia d’amore
https://blog.efremraimondi.it/una-storia-damore-prima-eccezione/
ha molto a che fare con la fotografia.
Perché Viaggio al termine della notte è totalmente un’opera visionaria. E allucinata.
Un viaggio attraverso la notte dell’uomo, la più idiota specie che calpesta il pianeta, ma anche attraverso la notte in quanto tale.
Che è un tempo straordinario iconograficamente.
La luce è altra, che la trovi o ce la metti. E a breve ne riparleremo.
Céline la luce ce l’ha messa. Ed è una luce senza mediazione.
E senza postproduzione.
E c’è un altro motivo per cui questo viaggio è fondamentale per chi fotografa: il linguaggio. La sua assoluta centralità.
Che diventa l’identità narrativa di una autoreferenzialità potente e rigorosa.
Le vicissitudini di questo capolavoro sono già di per sé motivo di narrazione, ma al momento chi se ne frega.
Quello di cui invece ci dovrebbe fregare da subito, è che Céline firmò un contratto capestro alla sola condizione che non venisse cambiata neanche una virgola, nemmeno una sillaba del suo romanzo.
Al centro la sua visione, il resto, tutto il resto, viene dopo.
Un inno anti omologazione. Imprescindibile. A costo di morire.
Éditions Denoël il primo editore, 1932. Poi subentrò Gallimard.
Ho una venerazione per il Voyage
Mi ha dato tantissimo. Ed è come una Bibbia per alcuni percorsi notturni che ho affrontato, fotocamera in mano.
Un giorno di un po’ d’anni fa, entro nella piccola biblioteca di Saint Jean Cap Ferrat, con tanto di tessera, un vezzo che avevo quando leggevo, e vedo il Voyage in edizione illustrata. Di cui ne sapevo nulla. L’ho appena sfogliato e sono andato all’istante a Nizza, in una libreria che amavo, la storica Jean Jaurès. E l’ho preso. Non potevo non averlo.
Io amo le librerie… passerei ore anche fermo a guardare il vuoto, mi basta l’odore.
Che mi serve. Che mi restituisce ciò che certi editori, certi strateghi del marketing e anche certe redazioni mi tolgono.
Sempre Gallimard, illustrato da Jacques Tardi. Splendidamente.
Non sempre funziona, ma in questo caso sì.
Perché Tardi ha sentito e tradotto l’urgenza espressiva di un linguaggio fatto di immagini. Senza mediazione.
Linguaggio puro, quello che alcuni celebrano solo se celebrato.
Come una vecchia campagna della Y10, Lancia/Fiat autovetture: piace alla gente che piace.
Céline invece non piace. Lo ami. O no.
Ma di cosa parli? Non sai neanche che esiste.
Io sì.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Voyage au bout de la nuit, de Louis-Ferdinand Céline.
Jacques Tardi.
1992, Éditions Gallimard.
Illustrato, 384 pagine, rilegato, 21 x 29 cm.
€ 50/60,00. A trovarlo.

Questa invece l’edizione non illustrata

Carolina Kostner due sguardi

Di pattinaggio capisco poco.
E chi se ne frega.
Ma vedere lei, Carolina Kostner, è un’esperienza a prescindere: vola come una rondine. Ed è splendida come una rondine.
L’ho fotografata per una campagna Dainese del 2007.
E in questa immagine, il suo sguardo è stato cercato.
Ma visto che è stato trovato, c’era. E le appartiene.
Io non stravolgo mai niente e nessuno.
Guardo e basta.

© Efrem Raimondi – ph. Carolina Kostner. All rights reserved

Poi, una volta finito lo shooting, pronti per il taxi, facendo due chiacchiere vicino a una enorme vetrata, lei mi guarda così.
Per fortuna avevo la Leica in mano, non so perché… la porto per farmi compagnia e spesso resta solo a guardare: ho puntato e scattato.
Forse me l’aspettavo. Forse ci speravo. Forse boh.
Ma è un’altra Carolina. Eppure è la stessa.
Se la si guarda volare, si capisce perché.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Agenzia: Carmi e Ubertis.
Per Dainese, Vittorio Cafaggi.

Fotocamere: Pentax 67 con 105 mm e Leica M7 con 35 mm.
Film: Fuji NPS 160 NC
Flash Profoto – luce ambiente.

Double Snapshot

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Era il 2000.
Ero a Los Angeles.
E le distanze non si colmavano mai.
E poi non riuscivo a fare entrare nella mia Polaroid SX-70 quella sensazione di dilatazione dello spazio che percepivo anche guardando un tombino.
La usavo molto l’SX-70, unitamente alla 690 SLR… per sfuocare, per muovere.
Per allucinarmi. Per dei redazionali veri, che oggi mi sparerebbero.
Ma per quanto drogata fosse l’aria di L.A. non riuscivo a farci stare un bel niente nella polaroid: percepivo, ma non realizzavo.

La finestra della mia camera dava su uno squarcio molto Ellroy, James Ellroy, che si rifletteva nello specchio, enorme, sulla parete opposta al letto.
Che a sua volta si rifletteva su un altro specchio a 45°.
Vivevo una condizione di perenne dilatazione e rimbalzo dello spazio.
E non potevo farci niente. Volevo solo fotografare quello scorcio e porre fine a quell’ossessione.
Poi un giorno feci la cosa più ovvia: scattai due volte.
Prima su, poi giù. Direttamente sull’Ellroy. Senza pensare.
Queste due polaroid sono la matrice della serie Double snapshot.
Che ho cominciato alla fine del 2001… inizio 2002 con dei redazionali, per Amica, Gentleman, Stern, Arte, Vogue Pelle.
Oltre che per fatti miei.
Così ho ritratto persone, musei, luoghi.
Il ritratto a Inna Zobova è l’unico che non aveva destinazione, l’ho fatto in una pausa make-up durante un servizio che aveva altre finalità… allora era la testimonial di Wonderbra.
Tutte le immagini della serie, mica solo queste, sono realizzate con delle normalissime compatte autofocus, pellicola soprattutto, e funziona così: inquadro alto, scatto… inquadro basso, scatto. Camera orizzontale.
Idem per le orizzontali: prima a sinistra poi a destra. Camera verticale.
Non penso: tutto dura pochi secondi. Sono davvero delle snap.

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Nell’ordine:
Francesco Bonami
Marta Dell’Angelo
Antonio Marras
Inna Zobova
Thyssen-Bomemsiza Museum, Madrid
Artium Museum, Vitoria – Bilbao
Kartell – Fuorisalone 2005
Belvedere Museum, Wien
PS1 MUSEUM, New York
Vogue Pelle – Studio Pollini
Vogue Pelle, 30° Anniversary Issue

Nota: l’unica eccezione alla compact camera è costituita dal lavoro per Vogue Pelle.
Realizzato con una Pentax 645N.

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