Spazi sincroni – Interni mag. dicembre 2013

Un lavoro semplice. Quasi fosse una serie di post it.
Quasi polaroid quando la si usava per i sopralluoghi.
Quindi formato quadrato, tranne l’apertura che però è l’esatta somma di due quadrati.
Che poi, se non si vuole usare il verticale, e io proprio non volevo, il quadrato è il formato che più riempie la pagina.
Il design è per me un luogo di ossigenazione e di sintesi.
Non che non ci siano frenesie, ma sono talmente lontane dalle abitudini del ritratto da sembrare acqua di rose.
Poi c’è sempre questo splendido legame con l’industria. Qui, la sintesi.
Delle immagini staticissime, cementate direi, e silenti.
Come essere in un plastico… al tempo della Polaroid, oggi in un rendering.
E in effetti quando con Nadia Lionello, stylist di Interni mag, sono andato a fare il sopralluogo, l’impressione era quella di girovagare per un enorme plastico. E noi piccolissimi. Io anche un po’ muto.
Il complesso residenziale City Life firmato da Zaha Hadid consta di circa 400 appartamenti. E rientra nel ”progetto di riqualificazione del quartiere Fiera di Milano”.
Non so bene cosa ci fosse da riqualificare però è quanto ho letto. Credo riguardi il fatto che la vecchia Fiera di Milano ha cessato funzioni e ospitalità, sostituita dalla nuova in quel di Rho-Pero, propaggini di Milano.
Ma tutto questo non c’entra con queste immagini. O forse sì.
Nel dubbio concludo dicendo che la casualità non esiste.
E che la semplicità è come una carezza leggera: non si sente subito.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Stylist: Nadia Lionello.
Assistente alla fotografia: Giulia Diegoli.

Fotocamera: Nikon D800.
Ottica: Nikkor 24-70, lunghezza focale 35 mm.
Luce ambiente.

iPhone 4S per il sopralluogo che segue + l’immagine di testa, di backstage.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

La vita di una foto – Adriana Zarri

Ogni fotografia ha una sua vita, indipendente dall’autore.
Indipendente da noi.
Anche prima quando non c’era il Web. Giuro.
E questo ha avuto il grande merito di riesumarne davvero tante dal passato, anche quello lontano, quasi dando loro nuova luce. Forse a dispetto delle recenti e recentissime che invece, mediamente, tende a eclissare rapidamente: questione di mole, di similitudine, di sovraesposizione e conseguente rigetto.
Che se frequenti un qualsiasi forum, o un social esplicitamente dedicato alla fotografia, è un bombardamento.
La longevità di un’immagine non mi è chiarissimo da cosa dipenda.
E forse non è neanche individuabile o restringibile a qualche elemento preciso valido in assoluto.
È un fatto di DNA… di qualcosa che possiede già alla nascita e che non ha una logica. Altrimenti qualsiasi autore produrrebbe solo immagini longeve. Tutte quante a sopravvivergli. O a sopravvivere almeno alla contingenza del gusto, del trend (brutta parola) e della morale condivisa.
Invece non è così: sono rare le fotografie in grado di attraversare le epoche e le mode e di presentarsi indenni agli occhi dei posteri.
E di diventare così un classico.
Cos’è che hanno?
E non è da confondersi col successo, che è solo una questione di applausi, magari anche uno scroscio, magari apoteosi ma che ha un tempo ben definito: il successo si misura con l’epoca di appartenenza. Qui stiamo parlando di chi va oltre… diremmo mai che il Don Giovanni di Mozart è un’opera di successo? E anzi, giust’appunto, non è che avesse riscosso tutto questo plauso all’epoca. E invece, eccolo rappresentato in tutti i continenti.
Paragone che non evoca alcuna similitudine, ma rende bene l’idea.
Io sarei felice di attraversare il decennio con qualche mia foto.
Qualcosa che ogni tanto qualcuno riprende da chissà dove… una fotografia che si presti magari all’equivoco temporale e che faccia pensare sia stata scattata ieri.
Con questo ritratto a Adriana Zarri è successo.
Realizzato nel 1984, che ero un pischello e armeggiavo sudando.
Nell’eremo dove viveva, fuori Ivrea.
Ricordo ancora la chiacchiera per convincerla crocefissa a terra.
Che non è un gesto gratuito, non un famolo strano… si veda la sua biografia.
Quella donna mi aveva molto colpito e era davvero speciale.
Una semplicità disarmante e un pensiero forte in un corpo esile.
Un godimento assoluto ascoltarla.
Di recente è stata aperta la sua pagina Facebook.
Il suo amministratore ha postato l’immagine, trovata in rete, e mi ha contatto.
Io ne sono davvero contento.
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamera: Nikon FE con ottica Nikkor 20mm f/3.5
Film: Kodachrome 25.

Per PM, anno 1984, neonato magazine della Mondadori che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’editoria periodica italiana perché aveva un respiro internazionale. E al centro c’era l’immagine.
Il suo art director era Romano Ragazzi, una persona molto importante per la mia crescita. E che tutt’ora vedo.

Vasco 100

La faccio breve… il 22 maggio scorso ero a ritrarre Vasco Rossi, a Cento… Pieve di Cento. In quell’albergo stile cattedrale nel deserto in cui prova i concerti, con la band tutta riunita.
E i fans fuori sempre presenti. Alcuni li conosco da tempo e queste sono le occasioni per fare il punto sulla propria vita, de visu, non mediati da alcun social. Tutto strano perché cadenzato da tempi vaschiani, quindi comunque altrui.

Pensare fotograficamente a Vasco mi rimbalza a TABULARASA, ed è pensiero impegnativo (https://blog.efremraimondi.it/?p=2460).
Perché una misura. Finita. Imprescindibile per me.
Mi si creda, non è facile.
E poi non lo sentivo da un anno Vasco… chissà come realmente sta?
Be’… è come risorto! Mi fa davvero piacere e le foto non c’entrano.
Fondo bianco da due e settanta, luce una e secca, secchissima… la voglio proprio quell’ombra nera… alle spalle.
Avevo una mezza idea su cosa fare.
L’altra mezza viene facendo, a me funziona spesso così.
In questo caso le frange della sua giacca. E un po’ tutto che incombe.
Come il futuro, che non si conosce.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Assistente, Lucia Iannuccilli.
Make up, Marco Orea Malià.

Fotocamera, Nikon D800 con Nikkor 24-70.
Flash Profoto.

don’t cheese, please.

© Efrem Raimondi. All Rights Reserved.

Mi chiedevo cosa c’entrasse il formaggio… niente.
Ma il postulato recita che pronunciare cheese induca un sorriso naturale, di quelli fotogenici.

Da qualche parte ho letto che in Spagna si dice patata.
Di getto mi piace di più.
Solo che, malgrado abbia lavorato per lungo tempo a Barcelona, io proprio non ricordo.
Fotograficamente non ho mai capito perché siano così indispensabili gli stereotipi.
E inoltre, come proprio il concetto di fotogenia sia un equivoco.
Che poi, di che tipo di fotogenia stiamo parlando?
Immaginiamoci una foto di gruppo, bello numeroso, almeno dodici commensali… tutti cheese?
E se uno, per disavventura è bleso (ha la zeppola), funzionerà uguale?

Quando ho iniziato a ritrarre, o comunque a occuparmi di bipedi, spessissimo mi capitava che mi venisse stampato in camera lo stesso sorriso. Piuttosto conforme e idiota.
Una sorta di passepartout mediatico, pensavano evidentemente.
Perché cheese è ottimista. Questo gli uffici stampa.
Fa niente se di personale ci fosse zero. Fa niente se l’espressione risultasse in mezzo a un guado alla ricerca di una sponda alla quale aggrapparsi. Nel dubbio meglio annegare nel mare mediatico.

Per questo, quando ho iniziato, sulla Nikon che usavo, accanto all’obiettivo cioè quella roba dove generalmente lo sguardo propende, ho attaccato una bella etichetta autoprodotta. Almeno le mie intenzioni erano chiare. E visibili.
Ora tutto si è spostato in rete… tutti ‘sti Buongiorno amici miei, è una meravigliosa giornata e io sto da Dio: sorrido al mondo che mi sorride… sorridete anche voi… è tutto una gran figata.
Ecco, non reggo. Mica perché sia vietato sorridere, anzi, è auspicabile.
Ma è come essere investito da decine di forme di formaggio. Stagionato. Intollerabile. Parlo per me.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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TABULARASA – Vasco Rossi

Vasco Zone

Vuoi venire con me in America?
Era Tania Sachs al telefono… ottobre 2000. Credevo fosse uno scherzo. Ho riattaccato. Non sapevo che fosse la responsabile della comunicazione di Vasco Rossi. E che non stava scherzando per niente. Così è iniziata per me questa fantastica e complessa scorribanda iconografica nella Vasco ZONE. Non complicata… complessa. Perché fotografare Vasco non è facile. Innanzitutto sono dovuto partire per Los Angeles, io che non amo viaggiare se non in macchina… passi anche il treno se ho poco bagaglio. Finalmente posso parlare di Vasco Rossi! Era ora… ci voleva TABULARASA. Altrove l’avevo già fatto. Qui mai. Per pudore forse. Nei miei confronti… questo blog non ha un anno e come fai a parlare di Vasco se non hai ancora un anno?!
Ma adesso sono legittimato. Adesso carta canta!
Fatto a quattr’occhi (servono sempre entrambi, anche se il mirino della fotocamera ne ospita uno) con Toni Thorimbert.
Lo diciamo anche nella Prefazione, una convergenza rara. Un’esperienza, questa, che mi ha dimostrato che lavorare a un progetto comune è possibile. E adesso direi auspicabile…

Ph. Giorgio Serinelli, c/o Studio Thorimbert

Di questa avventura editoriale devo ringraziare soprattutto Toni: l’intuizione è stata sua. Ma qui non ci si nasconde. Entrambi conoscevamo le reciproche immagini about Vasco. Mica tutte. Ma le più note sì. Poi io posto su FB (chi dice che serve a un cazzo?!) una immagine, quella che chiude il libro e che avevo realizzato un mese prima. Con un Vasco visibilmente provato.  Dentro però c’è tutto il mio affetto per quest’uomo.
Che insomma, qualche giro insieme s’è fatto e qualcosa vorrà dire. Toni vede ‘sto post e pronti via mi scrive. Ci vediamo. Lui aveva la sua maquette pronta per la stampa, volendo. Io la mia. Che stava lì da un po’. Ferma in attesa di qualcosa.  Allora non sapevo di cosa. E io credo poco alla casualità dei frangenti… Mentre sfoglio la sua mi rendo immediatamente conto che la mia è monca. Cioè, intendiamoci, non era male… se passassi il tempo a guardarmi l’ombelico avrei potuto anche credere che fosse una grande storia. E chiusa lì. Ma non era così: era monca! Prima di novembre 2000, Los Angeles, non avevo niente! Manco un autografo… Vasco lo ascoltavo e basta. Vinile prima, cd poi. E questo vuoto non era però un semplice fatto cronologico, fosse stato così me ne sarei rimasto dov’ero col mio pacchetto di foto sottobraccio… no, le immagini che sfogliavo raccontavano un periodo in un modo che condividevo totalmente. Anche emotivamente.
C’è sempre un prima e un dopo. E il dopo è TABULARASA. Così il prima non aveva più lo stesso senso. Questo per me.
Qualche numero magari aiuta a capire: 27 anni di viaggio, dall’85 a oggi per quasi 200 immagini  (sequenze e dittici valgono una).
All’inizio erano quasi 400… troppe: Stefania Molteni, photo editor, ci ha messo del suo e ha contribuito a dare un ordine. Stampata al volo la nuova maquette siamo andati da Gabriella Ungarelli, Mondadori. Che ha gradito.
Tralascio i passaggi intermedi, chi se ne frega. Ora, se sfoglio questo libro mi ritornano forti certe emozioni. E una bella quantità di aneddoti, uno per ogni immagine forse. Certamente per ogni shooting e per il contorno che comporta: mica si passa tutto il tempo a cliccare!
E posso aggiungere persino di essermi fatto delle sane risate in sua compagnia. Perché Vasco è anche allegro (cinicamente allegro): non ostinatamente attaccato alla sua icona… sa scendere dal palco. A differenza di altri. Che tra l’altro il palco, quel palco, l’hanno solo visto da lontano. Un luogo speciale, e non c’è niente come starci sopra e puntare l’obiettivo sul Popolo di Vasco: meravigliose facce da randa!

Imola, 16 giugno 2001. Da TABULARASA.

Lo chiarisco a scanso di equivoci: io provengo da lì. E in quelle facce, in quella eterogeneità mi riconosco. Qualcuno di loro forse ricorderà l’instant book Intorno a Vasco, edito dalla EMI in occasione della mostra omonima che feci alla Galleria Grazia Neri, a Milano nell’aprile 2001: una sorta di diario del mio primo viaggio con Vasco a Los Angeles. Alcune di quelle fotografie sono ancora qui, in TABULARASA. Certe immagini ti accompagnano sempre. Alcune accompagnano più persone. Anche tra loro estranee. È la fotografia. Quella roba che ha la capacità di trascendere il tempo e la sua precarietà. Che regala souvenir diversi. Come certe canzoni.
Vuoi venire con me in America?
Meno male che Tania ha richiamato.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Negativo cover Rolling Stone aprile 2004. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nel libro, che non è di ma su Vasco Rossi, compaiono diverse persone del suo staff con le quali nel corso di questi anni ho chiacchierato, discusso, cenato, girovagato, lavorato e anche cazzeggiato… e che qui voglio ringraziare: Floriano Fini, Guido Elmi, Danilo ”Roccia” D’Alessandro, Massimiliano ”Macho” Barbieri.
Anche Swan, regista dei live e di alcuni videoclip, col quale ho collaborato ai tempi di Siamo soli.
E Massimo Poggini, insieme in giro per Los Angeles nel 2008, pubblicando poi per Max il libro Vasco Rossi, una vita spericolata.
Grazie anche a Gabriella Ungarelli, Marta Treves, Chiara Oriani, Donata Sorrentino.
A Giacomo Callo e Marina Pezzotta che hanno realizzato la copertina… insomma un grazie a tutta la redazione Mondadori.

Tania Sachs la ringrazio in modo particolare, a lei penso come a una amica.

Le tre Cover.

Ringrazio anche le/gli assistenti che si sono alternati in questi dodici anni di collaborazione vaschiana… in primo luogo Fabio Zaccaro con me a Los Angeles la prima volta. Poi, in ordine seguendo l’impaginato di Tabularasa: ancora Fabio (Roma 2004 – Cattolica 2001), Letizia Ragno (Roma 2004 – Bologna 2009 – Pieve di Cento 2003 ), Nicole Marnati (Sinai e Sharm El Sheik 2004 – Bologna 2004), Emanuela Balbini (Bologna 2009), Giulia Diegoli (Bologna 2012).

A Los Angeles nel 2008 e in altri luoghi, senza assistenti. Spesso con una semplice compatta, che è stata motivo di ironia da parte di Floriano Fini e dello stesso Vasco. Però eravamo tutti più leggeri. E ci si poteva persino permettere di “scambiarci” le foto. Non ne ho neanche una con Vasco… incredibile! Però ho questa sotto.

Giugno 2008, Hotel Melià, Milano © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Mai capito perché in questo paese ci siano delle remore a dichiarare il prezzo di un prodotto: TABULARASA costa € 25,00. Per tipologia e qualità di stampa appartiene a una fascia di costo decisamente maggiore. La scelta è dell’Editore, condivisa da Toni e da me. Brossura con alette, formato 25,4 x 18 cm. Pagine 252. In libreria dal 5 dicembre.

Presentazione: 17 dicembre – h. 18,30.
Libreria Mondadori, via Marghera 28, Milano.
Introduce Giovanna Calvenzi. 

                    

Irene Grandi e Stefano Bollani

Milano, ottobre 2012 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Li incontro mercoledì 24 ottobre, a Milano nello studio di registrazione Artisti Nascosti.
Scala ripida che porta giù giù… atmosfera underground e luce soffusa. Ottima per l’ambiente… insufficiente per fare foto.
Creiamo una postazione fissa in nove metri quadri, dove c’è una batteria: due generatori, due torce riflesse dritte al soffitto e luce sufficientemente diffusa.
Qui si lavora prevalentemente in Hasselblad. Mentre poi in giro si va in Nikon con flash sparato. E magari qualcosina che aiuti l’ambiente.
Irene Grandi l’avevo già ritratta per GQ Italia anni fa, poi l’ho incrociata altre volte. Mentre per Stefano Bollani è la prima volta.
Non sapevo bene che diavolo fare, ma visto che c’era una batteria e una chitarra, magari… penso a questo mentre mi fumo una sigaretta in superficie. Emerge anche Irene Grandi con la truccatrice e si parla di luci e make up.
Ma Bollani dov’è? Una botta di batteria definisce il punto esatto.
Perfetto, coi musicisti è così. Credo sia più forte di loro.
Mi è successo anche con Noel Gallagher, con Mark Knopfler e forse anche altri: se c’è uno strumento nei paraggi ti mollano e ciao, suonano.
E chi se ne frega se non è un pianoforte, in fondo la batteria è comunque uno strumento a percussione. E Stefano Bollani un musicista.
Così improvvisano un duetto. E io scatto. Mica c’è da dire un granché, giusto due accorgimenti puramente tecnici… siamo in nove metri quadri!
C’è un ottimo feeling tra loro. E ne beneficiamo tutti.
Poi c’è l’intervista di Angelo Sica, giornalista. Per il magazine Grazia.
Assisto e faccio qualche scatto così, molto leggero.
Fine dell’intervista e io ricomincio, random per corridoi e spazi assortiti. Loro sono entrambi gradevoli e disponibili.
Fine. Quello che dovevo fare l’ho fatto. Postproduzione veloce e consegna al magazine. Adesso non è più affar mio.
E qui pubblico ciò che a me piace.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Tutte le immagini sono state realizzate a Milano il 24 ottobre 2012, presso lo studio di registrazione Artisti Nascosti. Si ringraziano per la cortesia Chiara Fella e Mauro Abbiatello.

Assistente fotografia, Alessandro Albano.
Fotocamere: Hasselblad H3D II-39 con ottica 50 mm e Nikon D700 con ottica 24-120.
Luce, flash: Profoto e SB 900 Nikon.

FB_efrem

 

 

Tutto da qui.

HEARTHQUAKE, Irpinia 1980. © Efrem Raimondi. All rights reserved.Irpinia 1980, terremoto. Tutto è cominciato da qui.
Prima non me ne fregava un granché di fare il fotografo.
Il reportage… questo articolo mi serve. Per ricordarmi che è da questo che sono partito.
Da qui e dal lavoro sui disabili ANFFAS, febbraio 1981.
E che non mi dispiacerebbe affatto rifrequentare: niente addetti ai lavori attorno, niente trucco e parrucco, niente salette riservate per uno pseudo pranzo… niente.
Niente visi imbronciati e zero glamour.
E il set ce l’hai davanti già fatto, devi solo preoccuparti di sottrarre al quadro generale la tua inquadratura. Perché è ancora una volta di sottrazione che si parla.
In questo non mi smentisco. Proprio no.

Avevo 22 anni, ero militare di leva in convalescenza per una polmonite: sessanta giorni in tasca e nulla da fare. L’università m’aveva stufato (e ho sbagliato, Filosofia era un bell’ambiente in Statale), che fare?
Sono partito con un gruppo di volontari, da Milano direzione Irpinia.
Una settimana dopo il sisma.
Con l’intento di dare una mano. Ma visto che era pieno di gente davvero in gamba, e la mia partecipazione non mutava di un grammo il peso, ho messo mano alla Nikon FE che avevo con me.
Più l’adorata Pentax K 1000, caricata con del Kodachrome 25
(ISO…V E N T I C I N Q U E!!!) che ho usato per qualche paesaggio e un po’ di fiorellini, roba mai disdegnata peraltro… si fotografa ciò che si vuole, e che in fondo piace: non ci sono sovrastrutture, e la fotografia non ha morale!

Col reportage ho un rapporto conflittuale… non per colpa sua. E manco mia.
Però già da subito.
Contravvenendo alle sacre regole di allora (adesso meno, dipende solo dall’ambiente), scattai a colore, con l’aggravante slide e pure di scarsa qualità vista la poca grana.
Ma senza alcuna premeditazione, senza alcun piglio snob. Semplicemente era così che mi andava di fare. Non so dire il perché.
So che sono tornato con la chiara volontà di fare il fotografo.
Un incosciente taglio intimista… di questo me ne sono accorto già là, mentre scattavo: il mio occhio cercava il non eclatante e rovistava nelle zone d’ombra. Nella quotidianità offesa.
L’unica eccezione forse, la sequenza di una riesumazione, quella che ho pubblicato in SEQUENZE. E che forse oggi non farei.

Questo modo di declinare il reportage è lontanissimo dall’attualità, della quale non me n’è mai fregato niente.
Oggi più che mai non dovrebbe fregare ad alcun fotografo, e nemmeno ai giornali.
È così che ho cominciato. Da un reportage avulso.
Che mi ha insegnato una cosa: la fotografia ha una gran voce, ma non è difendibile da alcuna parola.
O è, o buttala.


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HEARTHQUAKE, Irpinia 1980. © Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.
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EARTHQUAKE, Irpinia 1980. © Efrem Raimondi. All rights reserved. HEARTHQUAKE
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Nota: la cromia è quella originale. Non ho voluto modificare nulla del sapore di allora. Condito con un po’ di deterioramento forse.
Così l’ho scattato e così resta.

Luoghi: Calabritto, Teora, Sant’Angelo dei Lombardi.
Fotocamere: Nikon FE, Pentax K1000.
Film: una slide qualsiasi che non ricordo, semplicemente economica.
Più Kodachrome 25.
Più una dose generosa di ingenuità. Che mi è stata decisamente utile.
Più una certezza. Una sola: l’esposizione è tutto.
Sia della pellicola/file che del fotografo. Qualsiasi fotografia faccia.

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SEQUENZE

Andreotti trittico, Roma 2006 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Non è un escamotage. E con la raffica non ha niente a che vedere, anzi ne è la negazione.
Questo perché non amo i postulati.
Solo un attimo per dire della prima e di come ci sono arrivato: ero un ragazzino con la fotocamera nell’Irpinia terremotata, anno 1980.
Ho seguito diverse riesumazione di poveri cristi, cadaveri da una quindicina di giorni. Scattavo e vomitavo… vedevo poco e la terra si assestava sotto i piedi. Di continuo.
A casa, in terra ferma, ho selezionato e rimontato in un’unica sequenza di quattro immagini. Forse un po’ ingenua e didascalica, ma è la prima… la mia matrice. Quella che mi ha permesso di pensare alle altre.
Allora non le degnava nessuno… c’è voluto del tempo.
Non nasce perché non sai cos’altro fare: appunto non è un escamotage, semplicemente pensi in modo differente e non ti soffermi sul singolo frame.
E con la raffica non c’entra niente perché di ogni scatto ne hai la percezione. E se c’è da rifare, miri al singolo.
La sequenza è una short story nella quale il valore di ogni immagine che la compone appartiene all’insieme.
E l’opera va presa per quello che è: non è affrontabile per frammenti, non è scomponibile.
Per i magazine un vero rebus di impaginazione: serve spazio! E quello a disposizione è limitato. Per questo se è per loro che sto lavorando ricorro al dittico: pam pam! E hai una doppia pagina… una sequenza gestibile che li rincuora.
Per le pareti dei musei e delle gallerie no… riempiono bene. E le rare volte che mi sono affacciato, per quanto spinga il contorno mi sento piccolo.
Statica, come nel caso di Vasco Rossi, oppure dinamica per Sakamoto o Andreotti, la questione non cambia: è una composizione e ha bisogno di una regia. Il casuale non è contemplato. Se non nella natura del gesto, come nel caso di Vanessa Beecroft.
Nascono tutte dall’esigenza di aggredire e dilatare lo spazio, che a volte è stretto.
O comunque geometricamente imposto e indiscutibile.
Scusa, ma allora non potevi darti al video?
No, non potevo e non posso. Sono un fotografo, vivo di contraddizioni e fermo il tempo.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

NOVEMBER 1980. IRPINIA EARTHQUAKE. PERSONAL

NOVEMBER 1980. IRPINIA EARTHQUAKE. PERSONAL

 

RYUICHI SAKAMOTO, TRITTICO

RYUICHI SAKAMOTO, TRITTICO

 

NICOLA SAVINO SEQUENCE

NICOLA SAVINO SEQUENCE

 

JOAQUIN CORTES

JOAQUIN CORTES

 

PIA TUCCITTO

PIA TUCCITTO

 

VASCO ROSSI - L. A. 2008

VASCO ROSSI – L. A. 2008

 

VANESSA BEECROFT

VANESSA BEECROFT