Spazi sincroni – Interni mag. dicembre 2013

Un lavoro semplice. Quasi fosse una serie di post it.
Quasi polaroid quando la si usava per i sopralluoghi.
Quindi formato quadrato, tranne l’apertura che però è l’esatta somma di due quadrati.
Che poi, se non si vuole usare il verticale, e io proprio non volevo, il quadrato è il formato che più riempie la pagina.
Il design è per me un luogo di ossigenazione e di sintesi.
Non che non ci siano frenesie, ma sono talmente lontane dalle abitudini del ritratto da sembrare acqua di rose.
Poi c’è sempre questo splendido legame con l’industria. Qui, la sintesi.
Delle immagini staticissime, cementate direi, e silenti.
Come essere in un plastico… al tempo della Polaroid, oggi in un rendering.
E in effetti quando con Nadia Lionello, stylist di Interni mag, sono andato a fare il sopralluogo, l’impressione era quella di girovagare per un enorme plastico. E noi piccolissimi. Io anche un po’ muto.
Il complesso residenziale City Life firmato da Zaha Hadid consta di circa 400 appartamenti. E rientra nel ”progetto di riqualificazione del quartiere Fiera di Milano”.
Non so bene cosa ci fosse da riqualificare però è quanto ho letto. Credo riguardi il fatto che la vecchia Fiera di Milano ha cessato funzioni e ospitalità, sostituita dalla nuova in quel di Rho-Pero, propaggini di Milano.
Ma tutto questo non c’entra con queste immagini. O forse sì.
Nel dubbio concludo dicendo che la casualità non esiste.
E che la semplicità è come una carezza leggera: non si sente subito.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Stylist: Nadia Lionello.
Assistente alla fotografia: Giulia Diegoli.

Fotocamera: Nikon D800.
Ottica: Nikkor 24-70, lunghezza focale 35 mm.
Luce ambiente.

iPhone 4S per il sopralluogo che segue + l’immagine di testa, di backstage.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Cafonal

Io mia moglie non la fotografo mica.
Umberto Pizzi: il più conteso fotografo delle feste nobili e nobilastre di questo Bel Paese. Quelle feste dove la ricchezza si ostenta e ogni poro si dilata per occupare più spazio possibile della sua inquadratura… che se Pizzi non ti mira, non esisti.
Visto dalla luna, sembra un Paese in cui potrebbero comandare i Simpson.
Questo, Roberto D’Agostino: un genio! Temuto e leccaculato, giusto per rimanere nello spirito dei soggetti di Cafonal in primis, che è il più strong, e di ultra Cafonal, il secondo volume della saga del bon ton Roma Antica Ultimo Stadio.
Umberto Pizzi mi piace, perché diretto… un iperrealismo punk che non lascia spazio alle congetture: ciò che si vede è.
Lo stimo, perché l’ho visto all’opera. A Capri due anni fa, per uno shooting, e girovagando per i soliti posti mi sono trovato lì per lì invitato a un matrimonio vippissimo… io che c’entravo niente, io che ero sderenato, io vestito da lavoratore della fotografia, versione estiva.
Ho indossato una camicia bianca – bisogna sempre averne una a portata di mano – e ci sono andato. Festone post incluso.
Così appunto ho visto come lavora: fotocamera in mano e flash centrale sparato addosso. Non ha bisogno di dire niente, è la fauna che si esibisce. Che lo insegue. Che sgomita e piroetta… un circo a sua disposizione. E a disposizione di Dagospia.
Entrambi pescano a piene mani. Ma Umberto Pizzi pesca di più.
Perché ha il potere tra le mani in quel preciso momento. E sa come usarlo. Senza sconti.
La sua presenza è catalizzante. Tanto che se per un po’ non lo vedi, c’è chi si preoccupa.
Io no. Io lo tenevo d’occhio. E quando l’ho visto in disparte, con la fotocamera abbassata, apparentemente inerme e rigorosamente da solo, mi sono avvicinato e l’ho fotografato, previo consenso, con la compatta. Che avevo assolutamente portato… si sa mai che esplode qualche tetta o casca qualche zigomo… e in tal caso, giuro, avrei scattato. Perché bisogna scattare per credere a ciò che si vede.
Che secondo me neanche Pizzi crede a ciò che vede, per questo usa la fotografia.

Questa fotografia oltraggiosa. Questa fotografia imitata da ragazzetti e ex, impasticcati di British style e Berlin power.
Vorrei ricordare che l’archivio di questo signore consta di 1.300.000 immagini… tutelato dal Ministero dei Beni Culturali – che non ho capito bene cosa materialmente significhi.
Poi abbiamo chiacchierato.
Non con tutti ma con alcuni fotografi mi intendo al volo.
In buona parte dipende dalla fotografia che fanno.
E Cafonal è in bella mostra nella mia libreria… ça va sans dire.
Poi Pizzi esibiva nella circostanza un’espressione che riconoscevo.
Questo me lo rendeva famigliare.
Le immagini di questi due volumi coprono il decennio 2000-2010.
Le avrei riprodotte tutte! Non è possibile. Poi meglio avere i volumi in mano. Soprattutto il primo, Cafonal. Che è davvero un concentrato potente.

Mai fatto cronaca nera. Perché?
Perché i vivi mi interessano più dei morti.
Non la annoiano mai?
Solo quando incrocio i morti di fama.
L’ultima cantante, l’ultimo televisivo… So che spariranno tra un istante, allora chiudo la mia nuova digitale, sbadiglio, e vado a bermi un caffè.
Pino Corrias per Vanity Fair.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Cafonal
Roberto D’Agostino – Umberto Pizzi
Dicembre 2008, Arnoldo Mondadori Editore.
442 pagine, rilegato con sovraccoperta, 22,5 x 26,5 cm.
€ 30,00

Ultracafonal
Novembre 2010, Arnoldo Mondadori Editore.
576 pagine, rilegato con sovraccoperta, 22,5 x 26,5 cm.
€ 40,00

 

 

 

 

B&W: realtà e finzione ecc.

Segnalo un articolo di Vilma Torselli, per Artonweb:
Bianco e nero, la realtà della finzione.
La questione è sempre aperta… quasi un peccato originale rispetto al quale non siamo in grado di prescindere.
Questo il link:

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

La prima di novembre

Non abbandonare i fiori di plastica. Novembre 2013.
La prima di una serie… ne parliamo più avanti.
Intanto l’epitaffio:
Le fotografie sono per come si mostrano. Non per come ognuno di noi le immagina. E non c’è alternativa. Prendere o lasciare.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamera: iPhone 4s

il Potere davanti

Il potere logora chi non ce l’ha. Celeberrimo Andreotti.
La miseria invece logora solo chi la vive.
Giulia Ligresti e Anna Maria Cancellieri, una vicenda di questi giorni, nella quale non entro. Non per ritrosia. Solo che questo non è luogo.
Però riguardare il ritratto che ho fatto a Giulia Ligresti mi dà lo spunto per una riflessione, stavolta scritta, sul rapporto tra fotografia e Potere. E il cartello opposto, fotografia e Miseria.
Altre due citazioni, sorry…
Di Helmut Newton: Per me il massimo è stata Margaret Thatcher: che cosa c’è di più sexy del potere? e ancora Mi piace fotografare le persone che amo, la gente che ammiro, il famoso e specialmente il famigerato.
Non sono semplici provocazioni, queste di Newton, e che per lui fossero sacrosante non c’è motivo di dubitarne.
Se le indosso, me le adatto così: il potere, fotografarlo, è affascinante. Anche sexy, dipende. A patto di essere onesti e restituire una immagine che ti appartenga. Nella quale riconoscerti.
Il che preclude, nel mio modestissimo caso, l’ammiccamento.
Perciò sei esposto, molto più esposto che in qualsiasi altro ambito ci si cimenti fotocamera in mano. Guerre a parte. Forse.
Il potere di cui parlo è maiuscolo, cioè politico, economico, finanziario.
Quello da cui tutto dipende, anche i direttori dei giornali. Anche direttori e sovrintendenti delle varie istituzioni culturali. Oggi più che mai.
E quando si piazza davanti all’obiettivo di un fotografo, lo fa sempre con grande cognizione di causa.
Anche quando decide di evitare. Mi è successo… mi è successo di essere stato cortesemente rifiutato da un potente molto potente. Esplicitamente rifiutato: mi ha fatto molto piacere. Perché onesto nei miei confronti. Oltre che nei propri. Così non si generano equivoci.
Fotografare il potere non è agevole. E non ti dà alcuna gloria.
Anzi a volte finisci all’indice perché ti viene imputata una qualche complicità. A differenza della fotografia della miseria – altrui  miseria – con l’impianto umanitario e sociale… che ha vinto tutti i più grandi worldpress. Piena di boria bianconera new style, con un che di retrò che commuove e affascina.
Ah sì? A me la fotografia affascinante fa schifo!
Moralista e demagogica, formato cartolina nei dispenser dei bookshop trova la sua destinazione finale.
Miseria che fa cassa.
Miseria comoda.
Miseria photoshoppata.
Miseria passepartout infilata in qualche fashion magazine in cerca di consenso intellettuale.
Miseria sterile e miserabili disarmati…
La fotografia ha un’etica. E se ne frega della morale.
E fotografare non significa emettere giudizi universali.
Io fotograferei chiunque, anche il Diavolo se ne avessi l’occasione.
Che così, epidermicamente, mi invoglia più di tanti santi, miti e boriosi.
Che poi, non è che sto parlando di immaginette da mettere nel portafoglio o buone per la campagna elettorale: alcune di queste immagini hanno visto la luce solo grazie al sostegno del magazine che le aveva esplicitamente commissionate.
È di Capital edito RCS che sto parlando, direzione Mario Fortini.
L’intenzione era vedere la forma antropologica del potere.
Non bastava la sagoma, volevo il dettaglio… volevo capire se la specie di appartenenza era la stessa: com’è fatto il potere?
E se davvero lo si vuole fotografare, va guardato bene in faccia.
Dritto negli occhi.
E magari da molto vicino.
Senza timore reverenziale. Ma senza preconcetti.
I preconcetti, o anche più comprensibilmente le divergenze ideologiche o etiche, emergono in chi poi le fotografie le guarda.
E il giudizio a riguardo è immediatamente condizionato a seconda della sponda di appartenenza.
Credo che il fotografo possa andare oltre questa immediatezza.
Non ci deve restituire uno stereotipo… non una classifica di buoni e cattivi.
Non una didascalia.
Non una caricatura.
Non un’omelia.
Ci dia ciò che vede. È questo che si pretende da un fotografo.
Tutto qui. A patto di avere un magazine complice.
Quindi non subalterno. Io non ne trovo più.
Paolo Sorrentino ha fatto un ritratto forte, diretto e onesto di un uomo di potere. E Il divo è lì da vedere. E rivedere.
Un manuale da prendere alla lettera per chi fotograficamente col potere si relaziona.
A meno di essere delle veline.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.


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Indice:
Giulia Ligresti, 2007 – First magazine
Massimo D’Alema, 1996 – Capital magazine
Gianfranco Fini, 1996 – Capital magazine
Guidalberto Guidi, 1997 – Capital magazine
Biagio Agnes, 1996 – Capital magazine
Pier Silvio Berlusconi, 2006 – Men’s Health magazine
Giulio Andreotti, 2006 – Grazia magazine
Giulio Andreotti, 2006 – Grazia magazine
Mario Draghi, 1996 – Capital magazine
Cesare Geronzi, 1997 – Capital magazine
Franco Bernabé, 1997 – Capital magazine
Lamberto Dini, 1996 – Capital magazine
Enrico Micheli, 1996 – Capital magazine
Umberto Bossi, 1996 – Capital magazine
Walter Veltroni, 1996 – Capital magazine

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Donne, bambole e cowboy.

Nel 2007 feci queste immagini per il catalogo Campeggi, 2008, curato da Italo Lupi.
È di design che sto parlando.
Nello specifico, di un design molto particolare, ludico e colto direi.
Presi Camilla in braccio e la portai in studio.
Il problema si pose dopo, a catalogo stampato e distribuito: queste immagini, questa bambola, creavano un po’ di inquietudine.
Ma soprattutto c’era ‘sta domanda che girava: cosa rappresenta questa bambola?
Allora scrissi un paio di paginette. Che consegnai all’azienda.
Uno shock. Giuro.
Sono ancora conservate e ogni tanto capita di riparlarne.
E le immagini sono ancora in catalogo.
Pubblico il testo stralciato della parte meno pertinente.
Solo la mia giustificazione quindi. Già.

… Quando si parla di design bisogna stare molto attenti a non equivocare: i numeri sì, decretano il successo o meno di un prodotto, ma non sono sostitutivi della sua storia.
Più in generale, il successo non sostituisce nulla. È solo un racconto parziale.
Che non m’interessa. Né mi riguarda… io faccio altro.
A ognuno il suo. E a me il mio.
L’origine del mio racconto per il brand Campeggi è riconducibile a un’immagine precisa, del 1993: Poppy, divanetto per bambini.

Per me è la madre di tutte le successive. Anche di quelle apparentemente più estranee.
Sicuramente di quelle con Camilla, bambola antropomorfa che sembra imbarazzi.
Le posture di Camilla non sono poi tanto diverse da quelle dei bambini di Poppy. 
E se visti da analoga distanza, bambola e bambini, si può equivocare sull’autenticità antropologica.
La differenza vera la facciamo noi. E le nostre proiezioni.
Che sui bambini sono, normalmente, regolate dal grado di parentela (ogni scarrafone è bello a mamma soja)… nel caso di una bambola, chi può dire?
Considerato il giocattolo più antico dell’umanità, ne ha viste di strane storie e loschi figuri… ne ha incontrati di umani che l’hanno cullata e torturata, vestita e denudata, imboccata e picchiata… coccolata e abbandonata.
Quasi per decreto, gli umani in questione sono bambine: le vere deputate al rapporto.
E questo per via di un malinteso che ha a che fare con l’iniziazione alla maternità.
Ma è una balla colossale, un alibi per celare l’esercizio di un dominio e l’educazione alla trasgressione. Che poi così, la donna-bambola si consegnerà a noi maschiotti, magari con l’aria timida timida, ma con una consapevolezza che se la cogliessimo ci metterebbe i brividi.
Tutto ciò avviene tra le mura domestiche.
Con un padre che ignora e una madre invece cosciente. Perché ci è passata prima.

Ma appunto, a noi maschietti è interdetta l’iniziazione e mentre siam lì a giocare ai cowboy, le bambine si autoeducano.
Noi siam tosti… noi bypassiamo la bambola e arriviamo dritti alla donna: perché perdere tempo?
Solo che la donna che abbiamo davanti la trattiamo come una bambola.
Perché non c’è niente da fare, a noi manca un passaggio. E il più delle volte l’iniziazione la facciamo più avanti attraverso la variegata iconografia erotica o, i più fortunati, grazie a una donna, che qualsiasi età abbia, è certamente più consapevole e dotta.
Camilla è tutto questo.
Compagna di gioco in Sneaker. Per i fatti propri nelle altre immagini.
Con la sua autonomia e il suo sguardo. Con la sua anima… quella che ognuno di noi riflette in una sorta di transfert, questa volta maschile. Quasi esclusivamente maschile, perché il piccolo sondaggio che è stato fatto, fotografie alla mano, dice che le donne sorridono, e i maschi si alterano. 
Le fanciulle hanno già dato, e se proprio ci devono tornare sopra, lo fanno su scala diversa col bambolotto di turno.
Ciò detto, si può anche pensare che sia una masturbazione mentale. E che l’unica anima che vale sia la nostra.
Che a ben pensarci le donne, in fondo, l’hanno acquisita da poco,
gli animali non ancora, figurarsi gli oggetti!
E che quindi, queste immagini, siano solo funzionali allo scopo, bambola o no.
Sperando che lo siano.

Milano, ottobre 2008.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.


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Camilla, bambola in porcellana, prodotta dalla Götz.

Le immagini:
Poppy, design Ufficio Stile Campeggi.
Sneaker, design Giovanni Levanti.
Conetto, design Giovanni Levanti.
Xito, design Giovanni Levanti.
Q.letto, design Denis Santachiara.
Ercolino, design Giulio Manzoni.

Fotocamera, Toyo 45G con Rodenstock 180 mm.
Flash, Profoto.
Film, Kodak 160 VC.
Per i particolari, Ricoh GR Digital + flash incorporato + Profoto.

FORMA cambia.

Fondazione Forma chiude. Anzi no. Anzi boh.
Io spero di no. Perché Forma chiusa è solo uno spazio in meno.
L’articolo di Giovanna Gammarota per Punto di Svista e il dibattito che ne è seguito:

http://www.puntodisvista.net/2013/10/una-questione-di-forma/

Normale

Sottrarre.
Senza sottrarsi…
Ridurre al minimo essenziale.
Quasi azzerare…
Via tutto e punto e a capo.
Di solito significa voltare pagina.
Adesso significa sottolineare ulteriormente la divergenza.
Non è che si può fare: si deve fare!
Di recente un collega, un amico soprattutto, mi ha detto: Il mare è mosso, è molto mosso.
Qui ci si bagna tutti, ho aggiunto.
Anche quelli con l’impermeabile.
Chi non lo capisce è un idiota.
Ci vorrebbe un sottomarino giallo.
E allora? E allora non c’è bisogno di niente… un qualsiasi aggeggio in grado di assolvere il tempo della ripresa e la risposta alla solita domanda: che ci faccio qui?
Poi serve un megafono. Che è sempre in mano altrui.
Quindi occorre trovare le mani che ci convincono.
E che in genere non sono arrossate dagli applausi.
La sponda qui me l’ha offerta Giovanna Calvenzi, impegnata a disegnare Credere, un nuovo magazine delle Edizioni San Paolo, gli stessi di Famiglia Cristiana con la quale non avevo mai lavorato.
Destino, Basilica di Sant’Antonio da Padova.
Soggetto, i pellegrini che vanno lì in visita.
Giusto un anno fa. In una splendida giornata di sole.
Sono come delle foto ricordo. Quelle che chiunque farebbe.
Quelle che vent’anni fa non avrei mai fatto.
Perché non ero capace.
Perché ci vuole leggerezza. E un’umiltà armata.
Che non so se possiedo, ma che certamente allora non possedevo.
Le avevo previste in iPhone. Poi ho cambiato idea.
Perché se sei a Milano o a New York fa figo. Se sei dove mi trovavo sei solo uno sfigato spocchioso.
Non c’entra il risultato e il controllo, per questo andava bene anche uno smartphone. C’entra il fatto che le persone che mi apprestavo a ritrarre e che dovevamo convincere, Alberto Loggia giornalista e io fotografo, dovevano immediatamente capire che si faceva sul serio.
E in questi casi la forma conta più che altrove.
In questi casi la forma conforta.
Mica ero sul set con Jessica Rabbit… ma per strada. Di fronte, delle persone con una storia reale, simile a quella di altri milioni. Magari non facile.
Questa forse! chiamiamola Street Photography
Per cui Hasselblad.
Se fossi stato in pellicola avrei usato il banco ottico.
Non credo servano spiegazioni… è stato anche un gesto di rispetto.
Tra di noi possiamo raccontarcela come vogliamo. Fuori no.
E già che c’ero ho pensato al verticale, che non amo particolarmente ma che qui è stato utile per accentuare l’istantaneità statica del souvenir, secondo schemi ben consolidati e chi se ne frega se desueti.
Anzi meglio.
Cosa c’è di diverso rispetto al ritratto di una star? Una qualsiasi…
Nulla! Salvo il fatto che lì la star non c’era a fare il pellegrino.
Per cui, in verità, tutto!
E quando scattavo non si accendeva lo SPECIAL.
Non c’è alcun riflesso concettuale, non si pensi: le cose stanno per come si vedono. Così sembra… in realtà, come sempre, le cose stanno per come voglio che stiano.
Per come ognuno, armato di poco o fino ai denti, vuole che siano.
Responsabilità piena quindi.
Il rapporto tra l’intenzione e il risultato, il prodotto fotografico, è ciò che distingue un percorso dalla semplice estemporaneità.
Figura intera. Più un paio di piani ravvicinati. Stop.
Tutto molto normale e semplice.
Ah! E c’è anche Photoshop.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Ringrazio tutte le persone che ho ritratto, per la cortesia e la disponibilità.
E ringrazio anche Alberto Loggia per la collaborazione, importante al fine di realizzare queste immagini.

Vasco, CAMBIA-MENTI

Questa cover è stata scattata il 22 maggio scorso.
Doveva essere l’aperitivo al lavoro poi fatto su fondo bianco.
Un po’ come una support band, che poi suona la star.
E infatti quelle sul bianco hanno per me un’altra densità.
E un’altra destinazione. Oltre a essere state in parte utilizzate per il video sotto.
Almeno immagino…
Perché, così mi dicono, le copertine degli album hanno criteri particolari.
Io non ho ancora capito quali.
Nel caso di Vasco Rossi poi, ho sempre pensato che la faccia, la sua riconoscibilità, non fosse per niente importante: basta il nome.
Questa volta però… questa volta però sì.
Perché è come risorto. E la faccia è al suo posto.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Di questo percorso, anzi, di quel 22 maggio ne ho parlato qui: https://blog.efremraimondi.it/?p=4052

Fotografia e professione

 

Mi è stato chiesto dalla rivista Punto di Svista un articolo, con ampia libertà di scelta.
È una rivista on line che seguo e apprezzo molto.
Un filo impegnativa, entra davvero nelle faccende.
Ci ho pensato un po’ su: che scrivere?
E mi è venuto naturale affrontare il rapporto fotografia–professione.
È un pochino più tosto rispetto al mio standard, quello che trova spazio qui dentro. E anche meno sboccato. Anzi per niente.
Come al solito però dico le cose per come le penso, essendo persona interessata ai fatti.

Questo il link:

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Ringrazio per la fiducia Maurizio Giovanni De Bonis, Orith Youdovich, Pietro D’Agostino, Giovanna Gammarota.