don’t cheese, please.

© Efrem Raimondi. All Rights Reserved.

Mi chiedevo cosa c’entrasse il formaggio… niente.
Ma il postulato recita che pronunciare cheese induca un sorriso naturale, di quelli fotogenici.

Da qualche parte ho letto che in Spagna si dice patata.
Di getto mi piace di più.
Solo che, malgrado abbia lavorato per lungo tempo a Barcelona, io proprio non ricordo.
Fotograficamente non ho mai capito perché siano così indispensabili gli stereotipi.
E inoltre, come proprio il concetto di fotogenia sia un equivoco.
Che poi, di che tipo di fotogenia stiamo parlando?
Immaginiamoci una foto di gruppo, bello numeroso, almeno dodici commensali… tutti cheese?
E se uno, per disavventura è bleso (ha la zeppola), funzionerà uguale?

Quando ho iniziato a ritrarre, o comunque a occuparmi di bipedi, spessissimo mi capitava che mi venisse stampato in camera lo stesso sorriso. Piuttosto conforme e idiota.
Una sorta di passepartout mediatico, pensavano evidentemente.
Perché cheese è ottimista. Questo gli uffici stampa.
Fa niente se di personale ci fosse zero. Fa niente se l’espressione risultasse in mezzo a un guado alla ricerca di una sponda alla quale aggrapparsi. Nel dubbio meglio annegare nel mare mediatico.

Per questo, quando ho iniziato, sulla Nikon che usavo, accanto all’obiettivo cioè quella roba dove generalmente lo sguardo propende, ho attaccato una bella etichetta autoprodotta. Almeno le mie intenzioni erano chiare. E visibili.
Ora tutto si è spostato in rete… tutti ‘sti Buongiorno amici miei, è una meravigliosa giornata e io sto da Dio: sorrido al mondo che mi sorride… sorridete anche voi… è tutto una gran figata.
Ecco, non reggo. Mica perché sia vietato sorridere, anzi, è auspicabile.
Ma è come essere investito da decine di forme di formaggio. Stagionato. Intollerabile. Parlo per me.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Madre di un fotografo

2013 © Efrem Raimondi. All rights reserved.      Mia madre, 2013

Quando sono nato, io non c’ero.
L’esserci coincide con la coscienza. Privato di questa, non esisti.

La mia consapevolezza ha cominciato a prendere forma con l’abitudine al seno di mia madre. Forse è a questo che devo la mia attenzione alle tette.
Ad alcuni funziona così, ad altri no e la saggistica a riguardo si spreca.
Solo non vedo il merito.
Per cui, in primis, mia madre.
Alla quale non devo tutto. Se non la nascita, che mica è poco… ma non è la vita, che è tale fintanto che si è in grado di esercitare quella roba chiamata arbitrio, che di sacro non ha niente.
Ma certo… a mia madre devo un altro milione di cose!
Per esempio, è la prima persona che ho ritratto.
Era il 1979 o giù di lì, e io cominciavo a smanettare con la mia Pentax K1000.
Sulle orme di mio padre, che fotograficamente non scherzava un cazzo – di lui ho pubblicato in diverse occasioni.

Ho capito in fretta che le orme semmai dopo, in quel momento ero una brutta copia. Dovevo andare per fatti miei. Cosa che ho fatto.
Andare per fatti propri è salutare in fotografia.
Dove, in che direzione, non sempre è dato di capire al momento. E il gerundio è il tempo fotografico ideale per tutti… fotografando si producono fotografie.
Mica scontato, però almeno ci si prova.

1979 © Efrem Raimondi. All rights reserved.           Mia madre, 1979

Mia madre in cucina e io con un grandangolo, un 28 credo.
Una fotografia ingenua forse, ma quello sguardo… quella posa…
Mia madre mi ama… e io? La amo altrettanto?
Me lo sto chiedendo qui, in questo ospedale. Mentre è stesa in attesa di un controllo. Brutta storia… sotto controllo ma brutta storia invecchiare. Io no, io ho ancora tre anni.
Io fotografo, io non ci penso.
E a me cosa resta? Mentre la guardo la fotografo.
Con l’unico mezzo che ho con me, l’iPhone.

Detesto raccontare il dolore. Quello degli altri soprattutto, nel quale non riconosco alcuna poesia, nessuna trascendenza.
Non censuro nessuna intenzione ma se proprio, racconto il mio. Come pare a me.
Libero da moralismi visto che riguarda me solo: nessuna morale!
E chissà da dove, mi viene in mente quello che mia madre mi diceva trent’anni fa, quando semi-pischello ho iniziato, Le copertine sono importanti. Quando le farai allora sì che sei arrivato.
Lo diceva con grande naturalezza, amore e ingenuità materna.
Oltre al fatto che non ne sapeva nulla di questo ambiente.
Mentre io lo respiro mamma… e sai una cosa? Ne ho fatte tante di copertine. Ma non si arriva mai. E non ci sono traguardi.

A margine: è di gran lunga più difficile ritrarre parenti e amici che gli sconosciuti, soprattutto se star. Ma da qualcuno bisogna iniziare.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamere: iPhone 4S e Pentax K1000
Film: Kodak Tri-X

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La fotografia non esiste.

 

La fotografia è un fatto arbitrario. Non oggettivo.
La sua relazione coi magazine, gallerie o altro non è influenzata dal consenso mediatico proveniente dai social network, che fanno partita a sé. Ciò non di meno, i campi da gioco cominciano a somigliarsi.
Chi ci smena sei tu, che la guardi o che la usi ‘sta fotografia. E non sai più bene dove puntare per trarre conforto.
Perché la fotografia alla quale penso è anche confortante.
La fotografia alla quale penso se ne fotte di ammiccamenti di qualsiasi tipo e si occupa di se stessa, modulandosi col soggetto di turno indipendentemente dalla sua importanza.
Usandolo come pretesto.
Indipendentemente dal grado di fotogenia (falso problema).
Indipendentemente dall’appeal, dall’interesse sociale che riscuote, dall’attualità, dal trend di turno, dalla morale.
La fotografia alla quale penso, quando incappa nel concettuale ha con questo un rapporto strumentale, non subordinato. E non perde la forma.
Non ha intenti messianici né sguardo incline ad alcuna dichiarazione demagogica, quella che in genere forma una patina brillante tanto utile in alcuni salotti espositivi, spesso tinelli.
La fotografia alla quale penso e nella quale mi rifletto non è un vezzeggiativo. Non è carina, non è simpatica.
Non accattivante.
Non è spaccona. Non sbraita. Se alza i toni emette un urlo muto che costringe a frequenze inusuali immutate nei secoli.
Non ha alcuna pretesa, a parte quella di trovare sede in me.
Questa fotografia obliqua non ha bandiera, non ha parrocchia, non ha diktat.
Non si interroga sul senso del mondo, lo rappresenta.
Seleziona, inventa e restituisce a suo piacimento. Senza se e senza ma.
La fotografia non è democratica…
Diretta come una sprangata o leggera come una carezza vera, di quelle apparentemente distratte.
Non è neanche glamour: non sa neanche cosa significhi. O meglio, non si pone il quesito.

La fotografia alla quale penso non si interroga sul grado di dignità di chi la produce, né del medium che la accoglie, fosse anche il cassetto in ufficio.
Ma scusate! Ma perché diavolo dovremmo fotografare?
Per soddisfare quale impulso? Una qualche ambizione?
Qual è l’urgenza se non rispondere alla propria coscienza, quella roba che prevede la consapevolezza di sé?
Che in fotografia coincide con l’immagine prodotta.
A patto che non costituisca sforzo: la fatica si vede!
Mentre credo nell’ancestralità della fotografia e m’interessa ciò che non si vede.
Io credo nell’utopia, e la fotografia le dà forma.
Nelle pieghe dell’imperfetto, negli sgabuzzini della memoria evolutiva si trova ciò che ci appartiene e al netto del doping mediatico lì potremmo trovare la nostra voce.
Quella che stentiamo a riconoscere quando riprodotta fuori da noi.
La fotografia si occupa dell’invisibile… se ti riguarda davvero, saprai dargli forma.
E restituirlo.
C’è una fotografia artificiale ed emulativa che non ci riguarda.
Poi ce n’è una che ci appartiene. Usiamola. Dovunque.
La fotografia non esiste senza di noi.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Tu e la tua macchina fotografica…

Ubaldo Dino Mancuso © Efrem Raimondi-iPhone

Reduce dal tour di presentazioni di TABULARASA, il libro su Vasco Rossi, edito Mondadori, la premiata coppia Raimondi–Thorimbert torna a faticare.
iPhone alla mano, immagini e audio, un botta e risposta negli spazi dell’ultimo (triste) Photoshow milanese.
Del tutto casuale la scelta delle persone, bastava che avessero una fotocamera esposta… almeno una. Poi c’era anche chi due… tre! Ho comperato la macchina apposta… mica come quel pirla col telefonino… Questi qui, appena mi avvicinavo e illustravo, declinavano.
Chi con un sorrisetto, chi sgarbatamente… facendomi sentire incredibilmente a disagio. Brutta sensazione.
Ammetto di avere privilegiato anche il grado di conoscenza, diretta, nel caso di un paio di persone incontrate incidentalmente. No premeditazione… no pentimento.
Non casuale invece il senso delle domande. Tre secche:
A – la tua macchina fotografica è femmina o maschio?
B – se ti do lo stesso modello della tua fotocamera ma nuova imballata, mi dai la tua?
C – il tuo/tua partner ama o odia la tua fotocanera?

Si dice body… corpo macchina. Ma non si tratta di un semplice involucro.
Non è un’armatura atta a proteggere fragilità inesponibili, quella di cui parliamo.
Esiste un rapporto feticistico, un transfert della meta sessuale?  O una affermazione del proprio status sessuale, a volte tale da diventare devianza… esibizionismo?
Già ai tempi del SICOF, che era altra roba rispetto al Photoshow, ricordo l’ostentazione di teleobiettivi formato super dotato. Il rimbalzo a Fallocrate e al suo Aforismi mi era chiaro.   E le fanciulle? Modulano diversamente.
Non è assolutizzabile, però alla domanda “Di che sesso è la tua fotocamera?” tutti rispondono. Quasi tutti collocano. Molti proiettano.
Per farne che, questa è un’altra faccenda. A volte niente. A volte per andare a spasso… prendere aria, vedere gente insieme: tu e la tua macchina fotografica, coppia fissa, nessuna relazione complicata. Che poi è l’elemento della terza domanda. Perché se il rapporto è certificato, il/la partner è del triangolo il vertice più lontano. Si assiste a vere scenate di gelosia… a tentativi di sabotaggio. Che in casi estremi prevedono anche la soppressione.
Ma in tutto questo, la fotografia cos’ha a che fare? Niente.

IMG_1806_Bruno
A: Femmina, perché LA Olympus.
B: Assolutamente no, le sono molto affezionato e non la cambierei con nessuna mai… mi si spezzerebbe il cuore.

IMG_1813_Jessica
A: Maschio! Perché… eh… perché mi sembra un maschio…perché è nera!
B: Dipende, se è scassata sì altrimenti no perché ci sono affezionata
C: Non la caga neanche…

IMG_1815_Luca Mantovani
A: Maschio, perché raggiunge l’obiettivo.
B: No, perché c’è un legame affettivo… ci sono voluti tanti sacrifici per arrivare a prenderla, mi è costata sudore insomma…
C: Se lei è il soggetto allora va bene altrimenti se la porto a destra e a sinistra, a fotografare animali o cose così… minchia!

IMG_1818_Barbara
A: Femmina, perché fa quello che dico io! – risata.
B: No, perché questa ho imparato a usarla e voglio andare avanti così.

IMG_1822_Antonio_Teresa
Teresa
A: Femmina
B: No! Si completa con la macchina fotografica maschio di mio marito.
C: Gli piace, è pur sempre una macchina fotografica… ma non vuole saperne di utilizzarla perché inquadra sotto il mio punto di vista!
Antonio
A: Maschia, perché è tosta,
ER: hai detto MASCHIA però…
Antonio – grande risata.
B: No, ci sono affezionato.
C: La ama, la ama… perché ama me! –risata.

IMG_1823_Roberto
A: Sicuramente è femmina… perché ci vuole tanta sensibilità, che è solo delle donne.
B: No, perché è impostata… mi trovo bene… poi mai lasciare il vecchio per il nuovo.

IMG_1826_Sara
A: Femmina! La… e poi perché assolutamente è  a occhio di donna…
B: No, ci sono affezionata e ci capiamo al volo.

IMG_1842_Giulia
A: Femmina, perché è LA macchina fotografica… sinceramente non vedo altre implicazioni per quanto mi sforzi… sono superficiale?
ER: Assolutamente no.
B: No! Perché ci sono molto affezionata… è il mio mezzo lo conosco e proprio non la cambio.

IMG_1846_Stefano Brandolini
A: Femmina! Perché è una cosa abbastanza intima… dev’esserci un rapporto… siccome c’è un contatto fisico dev’essere femmina.
B: NO perché non mi fiderei. Della macchina…

IMG_1850_Luca
A: Credo femmina…
ER: Come credo?
Luca: Non ne ho certezza, però visto che io la amo e sono tradizionalista penso sia femmina.
B: Non la vendono più la mia nuova… comunque NO mai! Sono legato sentimentalmente.
C: Bah… credo… credo che la ignori… credo.

IMG_1851_Ubaldo Dino Mancuso
A: Maschio… perché ci ho un coso lungo davanti quindi è maschio… maschio.
B: Eh certo, mica so’ fesso! –risata.
C: La adoperiamo insieme. Ci piace…

 IMG_1853_Massimo
A: Maschio perché… ha una forza… è virile! Virile sì.
B: No perché è personale… è un gioiello è come per la donna un gioiello.
C: Indifferente… indifferente.

IMG_1856_Liliana_Marius
A (Liliana): Una femmina –risata. Perché… perché così
A (Marius): Mmm… non ha un sesso.
ER: Questa fotocamera che state usando di chi è?
Entrambi: Tutti e due!
B: – all’unisono – Sì certo!

Questo è quanto… mia sponda. Quella di Toni è meglio, ed è qui:
http://tonithorimbert.blogspot.it/2013/03/what-sex-is-your-camera.html
© Efrem Raimondi. All rights reserved.

 

 

Ci sei o ci fai

Mio padre e io, 1962 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Io faccio il fotografo. Se lo sono o meno non mi riguarda.
Sembra esserci una distinzione sottilissima, o addirittura zero… invece il solco è profondo.
E ampio, perché distingue un atteggiamento.
C’è chi fotografo si sente. E lo dichiara. Ma non lo è.
Produrre dei file non significa niente… non qualifica nessuno.
Non fa mestiere. Perché fare il fotografo ha anche a che fare col mestiere.
E non solo col gesto.
Ed anzi il gesto è tanto più incisivo quando non si limita all’episodio.
Il gesto in sé può anche essere grande ma se non ha supporto, non ha continuità espressiva, è isolato. E tale resta.
E questo vale anche se ci si appiccica l’etichetta Artista… che poi mica ho mai capito la differenza. Spesso anzi mi induce un sospetto.
California Dreamin’ è canzone immortale: sono cinquant’anni che scorrazza sulle frequenze radio di tutto il mondo.
Ma qualcuno ricorda cos’altro hanno inciso i Mamas and Papas?
Gli è andata di culo. Tutto qui. Forse in molti farebbero cambio… di gran culo, quindi.
Oliviero Toscani, mi sembra, poneva una domanda: ma fai o sei fotografo?
Sottintendendo che esserlo vale molto più che farlo. Sottintendendo che esserlo è in qualche modo attributo nobile, a differenza dei manovali della fotografia, quelli cioè che dichiarano semplicemente di farlo. E che in tal modo non fanno coincidere la propria intimità col proprio lavoro (quasi una parolaccia), che resta separato.
Mi pare recitasse più o meno così il salmo.
Io non riconosco il bivio. Non mi frega niente della distinzione.
E il livello di nobiltà lo misuro non attraverso un titolo o una dichiarazione d’intenti ma per ciò che vedo. Sia della persona che del prodotto.
In quest’epoca zeppa d’immagini simili a pallottole a salve, cos’è che davvero va a segno?Cos’è che si può fare? In che modo un’immagine, basta vederla, si dichiara tua?
L’altra sera, presentando (ancora, sorry…) TABULARASA, il libro su Vasco Rossi, Toni Thorimbert rispondeva a una domanda (cazzo mi ha anticipato! ma io coincido) dicendo ”Io faccio sempre la stessa foto”.
Questa è la differenza. Questo è ciò che pensa e produce chi fa il fotografo. E che non si preoccupa di trend e di posizionamento, e comunque mai a scapito della fotografia che gli appartiene.
Che è una perché ha a che fare con una matrice facilmente individuabile: te stesso. E qui sì che le cose coincidono.
Perciò se fotografi, fotografa! Non interroghiamoci continuamente sul senso di ciò che facciamo, fotogramma per fotogramma: il linguaggio si misura su una frequenza più lunga e ampia della singola immagine.
Se fai lo scrittore, scrivi! Non puoi su ogni riga impiantarti alla ricerca di qualcosa che non trovi. O che ti pare migliorabile. Alla fine si vedrà. E si vede sempre.
Facendo il fotografo e non preoccupandomi dei quarti di nobiltà, non trovo di per sé distintiva neanche la rivista per la quale lavoro, o il cliente in genere: quello che mi frega davvero è che le immagini vengano rispettate. Che non subiscano traumi tali da renderle innocue… scariche… a salve insomma.
Come avere sempre un bel muro bianco davanti, al quale attaccare il proprio racconto.

Romano Ragazzi, 1985 © All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Mark Knopfler… a proposito di Fender.

Roma, settembre 2000 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Ero al  Grand Hotel Plaza, a Roma… settembre 2000. Il giorno dopo avevo uno shooting per GQ Italia.
Rientrando dal sopralluogo mi sembra di intravedere Mark Knopfler infilare la hall.
Sta a vedere che alloggio nel suo stesso albergo! E infatti…
Grandissimo chitarrista lui, e favolosa la sua Stratocaster… bisogna tesaurizzare! Chiamo la redazione… no anzi, la redazione chiama me e mi dice che Mark Knopfler è a Roma, al Plaza (lo so). Per una conferenza stampa (non lo so). Di ritrarlo (a ‘sto punto me l’aspetto). E che sta arrivando anche Antonio Orlando per intervistarlo (son qui). Non riesco neanche a dire che l’ho incrociato mezz’ora prima, Knopfler… ciao!
Esco dalla camera per andare alla reception con l’intento  di strappare un sopralluogo su due piedi (mica facile)… percorro il corridoio e vedo quattro persone che chiacchierano. Più una poltrona. Con seduto qualcuno. Ma è coperto e non vedo, intravedo…
È una zona defilata e riservata dell’albergo, e infatti non capisco cosa ci faccia io lì.
Forse un errore. Forse non avevano più disponibilità e mi è andata di lusso.
Va be’, mi avvicino e sbircio… e più o meno vedo la scena di questa foto. E mi piace.
Ma è una proiezione, intendiamoci. Intanto non c’era la Stratocaster. E io non avevo alcuna fotocamera con me. Mentre la proiezione richiedeva entrambe.
Quasi quasi gioco in anticipo penso… Mi faccio coraggio, saluto e mi faccio avanti.
Mi rivolgo a una fanciulla che mi sembra sovrintendere e infatti è dell’ufficio stampa della casa discografica. Insomma, per farla breve, coi miei assistenti  predisponiamo un set in 10 minuti.
Esattamente lì. E per come ho visto la scena. Più o meno.
A volte funziona così. Molto raramente. Anzi mai.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Assistenti: Pietro Bomba e Fabio Zaccaro

Fotocamera: Pentax 645 N con 75/2,8.
Luce: Profoto flash.
Film: Agfapan APX 100.

Lo sguardo del gatto

Gattoterapia, by Efrem Raimondi

Roma, 1999. Polaroid © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Sembra un fuori tema. Ma non è così.
Sembra una declinazione da social network, ma non è affatto così.
Io amo fotografare i gatti.
O meglio, amo i gatti. E li fotografo per come mi si presentano.
Detesto la deriva caricaturale antropocentrica fatta di cappellini, occhiali, scarpe e
ciarpame assortito che riduce tutto a sberleffo.
E inoltre svilisce il gesto fotografico.
Quindi, forse, è il caso che CHI FA FOTOGRAFIA continui a farla nel modo che gli è consueto.
La Adriano Salani Editore mi chiese tempo fa se mi andava di illustrare un libro sul gatto… ne abbiamo fatti due:  Gattoterapia (2004) e Gattoterapia, gli esercizi (2005).
Ed è stato facile: mi sono limitato a un editing delle fotografie che già avevo dei miei gatti. Sono immagini semplici, dirette… delle snap, dei ritratti, piccole sequenze. Non diverse da altre fatte a gatti incontrati per strada. Non diverse da come mi approccio alle persone.
Non diverse.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Gattoterapia, by Efrem RaimondiGattoterapia, by Efrem RaimondiGattoterapia, by Efrem Raimondi© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Fotocamere:
Polaroid SX-70 e 690 SLR, Ricoh GR1s e GX-100, Leica Minilux, Nikon FE, Hasselblad H3DII-39

Film:
Polaroid SX-70 e 600, Fuji NPS 160, Agfapan 100 e 400.

No Profit ADV

Alessandro e Elisabetta © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Se è gratis c’è un motivo. Trasparente e preciso. E a me basta per condividerlo.
Ed è l’unico etico… tutto il resto gratuito è infame, e chi si presta dovrebbe essere costretto a spiegarsi.
Non a caso è l’unica circostanza in cui le grandi agenzie di pubblicità non hanno alcuna ritrosia a rivolgersi senza budget a fotografi che sono tali, autori riconosciuti o giovani di talento non cambia: la faccia è quella.
Niente soldi e niente gloria, solo il piacere di dare il proprio contributo.
Che a volte è significativo.
E il coinvolgimento emotivo è forte: non sto parlando della donazione di un’opera, già bella e pronta, che contribuisce insieme ad altre a uno scopo certamente ugualmente lodevole… ma non è la stessa cosa. Per l’autore non è lo stesso.
Per me non è mai stato lo stesso.
Se parti da zero, se conosci direttamente le persone coinvolte, se parli coi famigliari, se ti addentri e ti mischi, non è la stessa cosa.
E ciò che produci è specifico e non intercambiabile.
Ne ho fatte diverse, anche recentemente, ma le due che pubblico qui hanno un valore per me particolare. E sono diverse tra loro.
La prima, campagna stampa del 1990, per ANFFAS, agenzia Carmi e Ubertis, è tutta immagine.
Alessandro e Elisabetta li ricordo ancora bene, lì in studio, testa bassa e una inaspettata reazione positiva al lampo dei flash, che calmava quel moto perpetuo del busto ficcato sulla sedia a rotelle, vera emanazione del loro corpo.
Del 1993, per AIP, agenzia McCann Erickson, la seconda campagna, stampa e affissione.
La faccia è quella di Paolo Ausenda, allora presidente dell’associazione. E parkinsoniano. Ricordo molto bene anche lui e il suo sguardo dritto in macchina. Ricordo le chiacchierate… in studio e poi al telefono, dopo l’uscita della campagna e della violenta polemica che ci fu.
Perché in questo caso la fotografia era complice dell’headline ”SPERO CHE IL MORBO DI PARKINSON COLPISCA ANCHE TE”.
E in questo caso mi fu chiesto se me la sentivo o meno di aderire con un mio lavoro. E fui totalmente solidale, perché quando sei dentro le cose la solfa cambia. Eccome. Tanto che conobbi anche la figlia di Paolo Ausenda, Raffaella. Che ho rivisto recentemente.
E il suo sorriso è lo stesso.
Questo è una campagna benefica. Per me.
E per farla devi essere un fotografo.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamera Toyo 45G con Rodenstock 90 mm.
Film Polaroid 55.
Luce Bowens Flash.

Paolo Ausenda, API / McCann Erickson © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Paolo Ausenda, API / McCann Erickson © Efrem Raimondi. All rights reserved. 

API / MCCANN ERICKSON, AFFISSIONE 1993-1994 © EFREM RAIMONDI. ALL RIGHTS RESERVED.

API / MCCANN ERICKSON, AFFISSIONE 1993-1994 © EFREM RAIMONDI. ALL RIGHTS RESERVED.

Fotocamera Toyo 45G con Rodenstock 180 mm.
Film Agfapan 100.
Luce Profoto Flash

Foto a cazzo.

Ovvero analogico versus digitale.

Sto iniziando una collezione di immagini dal titolo Foto a cazzo.
Sono fotografie realizzate senza pensare, puntando dove capita… dove comunque l’occhio ha una minima attrazione. O distrazione. Fotocamera in completo automatismo, autofocus incluso. Prevalentemente con una compatta, col cellulare o con qualsiasi cosa rigorosamente digitale.
Alcune di queste immagini racimolate anche dal passato più o meno recente e ammetto, anche in pellicola.
Quindi  si possono fare comunque delle immagini così come capita, e magari ugualmente a cazzo anche con l’analogico… solo che il fatto di non vederle subito e il costo del processo mi inibiscono. La disinvoltura del digitale è altra roba insomma.
Tutto ciò, ricorda qualcosa?
E qui comincia la faccenda… l’analogico prevede un maggiore rispetto per ciò che si sta facendo e schiacciare un tasto ha a che fare con un processo che si rivelerà un tot dopo, a seguito di un percorso che richiede tempo. Lo scatto resta in tempo reale, ma la sua conferma no. Non solo… è completamente assente il tasto che ti permette eventualmente di riacquistare la verginità perduta: la memoria non si recupera e quella a disposizione coincide col tòcco di pellicola che resta. Dopo di che fine. Dopo di che passi ad altro rullo. Ad altra attesa. Nel frattempo magari rilassi il dito.
Non è lo stesso! Non è meramente un fatto tecnico legato alla diversa tecnologia… è un fatto fondamentalmente culturale!
La percezione analogica richiede maggiore consapevolezza!
E questo plus incide sulla proprietà di linguaggio. Direttamente.
La fotografia è cambiata! Analogico, scansati!
È la parola d’ordine vuota e stupidamente appiattita alle regole di un mercato il cui unico interesse è massificare il consumo.
Certo che la fotografia è cambiata, cambia di continuo. Da sempre.
Ma mai come oggi è offesa. Al punto che varrebbe davvero la pena dichairarla morta.
Solo che è un cadavere non sepolto trasformatosi in zombie.
Non ho preconcetti nei confronti del digitale, lo uso come chiunque altro. Per cui non sono tacciabile di purismo. Puro cosa? Sono lercio e uso qualsiasi strumento mi serve allo scopo.
Solo denuncio la demagogia di una democrazia digitale che permette libero sfogo a chiunque, specialmente se privo di capacità espressiva ma che grazie al mezzo trasforma qualsiasi momento in esibizione. Siamo nel vuoto temporale, quello in balia del trend momentaneo. Dove il valore aggiunto della postproduzione è in molti casi folklore. Quando non devianza ideologica.
Ed è ora di dare una bella stoppata a Photoshop, non al programma, ma a chi lo masturba. Però di questo ne riparleremo.
L’editoria periodica è ridotta a pezzi e gli editori si lamentano… ma le vogliamo guardare ‘ste riviste? Fanno mediamente schifo.
Non è diverso lo stato della comunicazione pubblicitaria e dell’arte: quali sono le mostre che si ricordano?
Non è che magari ha a che fare con la negazione della memoria?
Con la necessità di un totale indistinto che evita accuratamente il linguaggio, cioè la capacità di rendere intelligibile la percezione, la propria, e magari produrre qualcosa di meno volatile di una scorreggia?
Solo apparentemente i due percorsi, l’analogico e il digitale, conducono allo stesso risultato, per cui di che diavolo sto parlando?!
Lascio perdere in questo caso discorsi sul volume e la piattezza e tutte quelle belle cose che sono peculiarità dell’uno e non dell’altro, quello che dico è che ci sono similitudini nel risultato solo in subordine al cranio di chi ne fa uso.
Altrimenti, vista la quantità spaventosa di immagini che rimbalzano da ogni dove, no, non sono per niente la stessa cosa.
Un improvviso azzeramento delle performance digitali in ambito fotografico decreterebbe una caduta verticale della frenesia produttiva di immagini. Ma questo non accadrà.
Ci vorrebbe un trattato sull’argomento, ma questo non è luogo e io non ho la patente.
Foto a cazzo è il mio personale contributo all’album di famiglia, quello della post-fotografia.
Work in progress.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nota: la fotografia pubblicata non fa parte della collezione.
Fotocamera Leica CM. Film Fuji NPS 160.
Errata corrige: fotocamera Ricoh GR1s.

AAA Assistente

Lucia e Giulia. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Via subito un equivoco: l’assistente fotografo non è un portaborse. Neanche un paggetto. E nemmeno un apprendista.
Un lavoro tosto in cui la relazione col fotografo è fondamentale.
La lacuna, la mia, è che non l’ho mai fatto. Perché quando avrei voluto non c’è stato sbocco. Ho capito poi il perché. E cioè: come puoi offrirti a un fotografo se non hai idea di cosa si sta parlando?
E io non avevo idea. Per cui mi sono arrangiato… certo mi sarei risparmiato un po’ di fatica e di sberle.
Quindi questo è solo il mio punto di vista di fotografo.
La fotografia non è un ambito esotico sospeso dove l’approssimazione trova dimora e la conoscenza è rimandabile a domani. Non c’è nessun domani, la fotografia è in tempo presente! Della tua vita puoi fare ciò che vuoi, e dilatare l’ombelico quanto ti pare, ma quando stai lavorando tutto si deve incastrare e basta.
Anche l’improvvisazione, quella roba che a volte fa la differenza.
E un assistente asseconda al volo gli umori del tuo cranio. Che a volte sono fulminei e inaspettati.  A volte sfiorano il deragliamento. E capita che abbiano un senso momentaneamente esclusivo, mio e invisibile.
Solo che può significare un ribaltamento della situazione. Subito.
Mica è facile… mica c’è il tempo di spiegare e fare disegnini.
Una palestra forse interessante per chi già sa ed è duttile, un assistente insomma. Un disastro per gli altri.
Dico un, ma è anche una assistente. Anzi, in genere preferisco. Perché le fanciulle hanno una marcia in più. E non mollano finché il lavoro è finito. Mediamente. Che quella sparuta eccezione di maschietti non s’incazzi per favore! Gli altri farebbero bene a guardarsi un po’ meno allo specchio e di più attorno, senza misurare continuamente il bigolo, che non c’è nessuna medaglietta in palio.
La capacità di monitorare il set, di avere cioè uno sguardo più ampio e percepire cosa accadrà da lì a un attimo. Ci vuole intesa, per questo preferisco un rapporto durevole, che riempia un periodo comune… che possa sfornare aneddoti e istantanee dopo vent’anni, direttamente dalla memoria. Perché è vero, un assistente è in grado di percepire in una mezz’oretta al primo incontro con chi ha a che fare, ma l’intesa, quella vera e complice, cresce col tempo. Ed è fatta anche di dettagli, di sfumature. Di manie para superstiziose che spesso i fotografi hanno. E che vanno assecondate. Senza domande, comunque prive di risposta. Poi ognuno tragga le sue conclusioni.
Strane bestie i fotografi. Almeno quelli non prodotti con lo stampino, né da party o da famigliari ben introdotti. E in questo gli assistenti sono un termometro infallibile perché a differenza di altre figure sovrintendenti, determinano sulla base del puro merito.
Che è dato da un percorso complesso, articolato, realmente creativo, da ciò che dichiari di fare a ciò che poi realmente fai.
Quello dell’assistente può essere uno stato temporaneo, scandito dal tempo che separa dal diventare fotografo. Oppure uno stato in sé concluso.
Non c’è differenza! Entrambe le condizioni non sono in funzione di un futuro più o meno prossimo, ma rispondono al presente… uno specifico che non prevede lo scatto, ma la predisposizione del resto. Di tutto il resto di competenza fotografica. Anche gli assimilabili se non c’è un responsabile di produzione.
Fare assistenza non significa presenziare per imparare o rubare il mestiere… ma mettere a disposizione il proprio bagaglio affinché un altro faccia fotografie.
Piatto piatto così si capisce meglio.
Chiaro poi che è un rapporto dialettico e non si procede col cranio blindato: gli occhi devono essere ben aperti… le orecchie tese. E lo scambio reciproco.
Io faccio prevalentemente ritratto, e questo mi permette di mettere bene a fuoco la distinzione dei ruoli credo: a un assistente chiedo di garantirmi tutto il ponderabile, con un occhio attento all’imponderabile che mi riguarda. Tutto qui.
Ho imparato molto dal rapporto coi miei assistenti. Anche oggi.
Sono le persone che ho più vicino quando lavoro.
Da qui la mia stima e riconoscenza.

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