Would you like us to stabilise it?

ROUGH ONE ©Efrem Raimondi

Would you like us to stabilise it?
No thanks… I do the same in photography. It’s a disease.

Lo standard è indubbiamente altro. Anche l’attualità.
Ma quanto mi piace a volte essere altrove in compagnia di una folaga…
Ma quanto mi piace, sempre più spesso, essere altrove e shakerare il mondo che mi capita…

Gliel’ho detto a YouTube che non è un inciampo tecnico, non un raptus emotivo… che invece è proprio una malattia congenita che all’occasione si manifesta. Così senza preavviso, senza apparente causalità.
Da un bel po’ shakero…
Senza motivo comincio a sbattere tutto.
E ti giuro che sbatterei anche te, sempre alla ricerca del senso e del messaggio.

Non ti posso aiutare… non ho la minima idea di cosa faccia. 

Qui ROUGH ONE, video 2012… fatto con una compattina Ricoh.

ROUGH ONE ©Efrem Raimondi

INSTA 77 ©Efrem Raimondi

Qui INSTA 77, una iPhonata 2016 piazzata ieri su Instagram. Dedicata ai seguaci della bella calligrafia.

Qui davvero tutto il mio disagio quando vedo e non capisco.
Mi rifiuto di capire…
Perché le conseguenze del capire non riguardano la fotografia.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Colore – Una pura formalità, 6

 

Efrem Raimondi - FUORISALONE 2013
Colore… si dice così.
E assegna una collocazione di massima.
Quindi?

Quindi il vuoto. Uno spazio preconfezionato, incolore, che aspetta noi.
Poi?
Poi diventiamo variopinti…
Se non abbiamo un’idea del colore che ci corrisponde, se è solo una contrapposizione al lessico BN – vale anche il contrario – al massimo siamo variopinti.

E se il BN risponde a una esigenza espressiva, il colore idem – sorvolo, che ne ho già chiacchierato: search una pura formalità, 4.
Con una differenza paradossale, contraddittoria rispetto all’intenzione originaria: il colore si distingue ulteriormente dal piano reale. E se ne va per la propria strada.
Perché più dell’altro, quel BN dai modi aristocratici, ritiene la realtà un incidente di percorso. E non una verità alla quale attenersi.
Alla quale anzi sottrarsi, con o senza schiamazzi, ma comunque senza dichiarazioni ecumeniche.
Creandone una a caso o talvolta più consapevole, deciamente consapevole.
E qui la forbice.
In questa sottrazione il nostro distinguo.

Come qualsiasi altro elemento, il colore è parte integrante della nostra cifra espressiva: a quale Fotografia lo riconduciamo?
O ci limitiamo ad assolvere le quattro fotografie che stiamo affrontando al momento e al prossimo giro si ricomincia?
E lui dentro come capita, poi… contrastato – saturato – desaturato – crossoverato – sbiancato – caldo – freddissimo, meglio – no, meglio caldissimo – virato – ipertutto di qui e di là e facciamola finita che proprio boh – magari normale…
Normale? Quali le norme?
Violato… picchiato. Proprio malconcio, così succede di ritrovarselo.
Suo e nostro malgrado.
Restituito come fosse privo di identità. La nostra identità latitante.
Questa la forbice.

La Fotografia non è BN. Non è colore.
Lo sono le fotografie. Che sono un mero strumento.
Per far cosa?
Rispondere a questa domanda ci aiuta a definire anche la relazione col colore.
E non c’è una risposta univoca.
Solo la coerenza del linguaggio che ci riguarda stabilisce il grado di coincidenza.
E non è mai una coincidenza avulsa dalla percezione, che è la vera discriminante.
Che ha un solo termometro… la restituzione in forma concreta, non blaterata: ciò che si vede è.
Ciò che mostri, è.
Il resto, tutto il resto, appartiene a un altro tempo. A un’altra giostra.

Un fatto individuale…
Il colore non è una informazione cromatica oggettiva, ma lo strumento per esprimere, sottolineare direi, la parzialità di uno sguardo.

Che non è però scevro dall’epoca in cui guarda.
Né dalla latitudine in cui s’è formato.
La vista è un fatto essenzialmente biologico. La visione fotografica no.
Proprio perché percettiva.
Sostanzialmente il colore è un prodotto culturale.
Il colore.
Il variopinto no.
Il variopinto è una tavolozza principalmente chiassosa che impone al colore di essere soggetto, persino quando desaturato, livido come la morte.
E che non tiene conto del fattore primario: il soggetto, il solo di cui davvero ci dovrebbe fregare, è la fotografia, proprio quella lì che mostriamo, nella sua totalità: all’interno di quel perimetro nulla è separabile.
Il variopinto è l’escamotage corrispondente al maquillage: un tentativo di abbellimento.
A volte grottesco, e questo è il suo momento di gloria. 

O meglio, lo è stato. Dalle retrovie mediatiche gli ultimi strilli di una fotografia da carrozzeria.
Accompagnati dal mio soave vaffanculo.

Per due o tre anni – non ricordo – sono stato membro dell’Hasselblad Master Jury.
Tra il 2009 e l’11 credo.
Ed è stato un punto di osservazione privilegiato: la parte finale riguardava un centinaio di autori per un migliaio di fotografie.
Ho fatto fatica.
Una gran fatica a distinguere un super vip wedding a Los Angeles da un reportage delle miniere di diamanti sudafricane.
Dall’Argentina al Giappone, dall’Islanda all’Australia, tutto uguale.
Ritratto incluso. Anzi più uguale.
Poi le eccezioni: cinque per ciò che mi ha riguardato nell’ultimo contest.
Un solo autore… ossessivo, petulante, democratico: Photoshop.
E il colore? Il tuo colore, dov’è?
Il problema non è mai lo strumento, ma come si usa.
Ed è così da sempre.
Après, con una domanda di Michel Pastoureau: Ma si può ancora parlare di individualismo se i comportamenti individuali vanno tutti in un’unica direzione? *

Il colore che amo in fotografia, anche quello che personalmente uso, non si vede nemmeno.
Non ha un nome.
Non si dichiara.
Partecipa e basta.
Ma se non ci fosse, ne sentirei la mancanza.

Di che colore è un divano rosso in una stanza buia?

Che poi è così semplice, noi ci misuriamo con un’idea di colore, sempre, e non c’è nulla di tangibile: nella sua esposizione la nostra relazione.
E lo allunghi… lo centrifughi… lo espandi… lo sottrai… lo concentri.
Fino a coincidere.
E tutto ciò solo con l’esposizione. Che è determinante.
Il colore, anche lui, è un arbitrio, non un dettato.

Ma di che rosso parli?

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

* I colori dei nostri ricordi, 2010
   Michel Pastoureau
   Ponte alle Grazie, 2011.

Fotografia per INTERNI mag.
Fuorisalone 2013, Milano – Knoll at Prada
iPhone

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Maledetti Fotografi – Intervista

Maledetti Fotografi, alias Enrico Ratto, mi intervista il 4 settembre scorso.
Un’intervista pubblica, nello splendido giardino de LaBottega di Serena del Soldato, a Marina di Pietrasanta.

Per poco più di due ore credo.
E forse si poteva allungare un filo, giusto per mettere più precisamente a fuoco alcuni elementi.
Sarei andato avanti altre due ore… perché Enrico era un interlocutore perfetto: mi è piaciuto proprio.
Ma poi va a finire che non si finisce più.
E invece una fine dev’esserci.
Nostro malgrado, è così.

Questa l’intervista

Efrem Raimondi - Maledetti Fotografi

Colgo anche l’occasione per ringraziare le persone che sono intervenute: le facce conosciute, quelle riconosciute, e quelle incrociate per la prima volta.
Soprattutto il meraviglioso gatto grigio che a un certo punto è salito sul palchetto, si è guardato attorno, e l’ha attraversato con calma.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Io cerco te

Annarita by Efrem RaimondiIo cerco te.
Io cerco chi non si vede.
Io cerco chi mi sta davanti.
Io cerco te.
Io cerco tra le pieghe del gesto, lungo la smorfia delle tue labbra.
Io cerco te. Io cerco il tuo riflesso e al suo barlume m’aggrappo.
Io cerco te, così come ti giri e mi guardi.
Che cosa vedi? Fin dove arrivi?
Ti ricordi? Anch’io ho avuto vent’anni.
Anche qualcuno in più. Anche un po’ meno.
Adesso è ieri: a cosa credi serva la memoria?
Io cerco te.
Se ti nascondi io ti vedo.
La tua maschera…
Non ti serve alcuna armatura: sei nuda.
Io cerco te.
Non ho bisogno di niente e ’st’aggeggio che pesa, ‘sta roba che scatta è il nostro specchio.
Io cerco te.
E a volte mi trovo.

Laura by Efrem RaimondiLaura, 1986

Vanessa Beecroft by Efrem RaimondiVanessa Beecroft, 2011

Cat Power by Efrem RaimondiCat Power, 2012

FERNANDA PIVANO by Efrem RaimondiFernanda Pivano, 2005

ZHANG JIE by Efrem RaimondiZhang Jie, 2008

VALENTINA by efrem RaimondiValentina, 2010

Fiammetta Bonazzi by Efrem RaimondiFiammetta Bonazzi, 1995

Maddalena by Efrem RaimondiMaddalena, 2016

MONICA BELLUCCI by Efrem RaimondiMonica Bellucci, 1999

Laura by Efrem RaimondiLaura, 2013

Laura by Efrem raimondiLaura, 1998

MARIA TERESA by Efrem RaimondiMaria Teresa, 1999

GIORDANA by Efrem RaimondiGiordana, 1998

ALESSANDRA FERRI by Efrem RaimondiAlessandra Ferri, 1996

FOOTBALL PLAYER by Efrem RaimondiFootball player, 2000

Dana de Luca by Efrem RaimondiDana de Luca, 2016

Azzurra Muzzonigro by Efrem RaimondiAzzurra Muzzonigro, 2016

SILVANA ANNICHIARICO by Efrem RaimondiSilvana Annicchiarico, 2012

INNA ZOBOVA by Efrem RaimondiInna Zobova, 2005

Francesca Matisse by Efrem RaimondiFrancesca Matisse, 2015

Anastasiia by Efrem RaimondiAnastasiia, 2015

PIA by Efrem RaimondiPia, 2007

ADRIANA ZARRI by Efrem RaimondiAdriana Zarri, 1984

Valeria Bonalume by Efrem RaimondiValeria Bonalume, 2015

Madri & Figlie: Miri Elias Rettagliata e Simona Segre. 2002Miri Elias Rettagliata e Simona Segre. Madre e figlia, 2002 – non ricordo il nome del cane…

Annarita by Efrem RaimondiAnnarita, 1995

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

La donna… sì certo, la fotografo. Ed è al centro.
Un altro centro.

U P D A T E   febbraio 2018.

Cecilia Fabiani by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCecilia Fabiani, 1990

CAROLINA KOSTNER by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCarolina Kostner, 2006

Franca Sozzani by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedFranca Sozzani, 2016

FRANCESCA PICCININI by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedFrancesca Piccinini, 2011

Noemi Batki by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedNoemi Batki, 2017

BODY NUNBER 1 © Efrem Raimondi - All Rights ReservedBody Number 1, 2004

Maria Cabrera by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedMaria Cabrera, 1988 – Dolce&Gabbana

Laura by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedLaura, Cap Ferrat 2004

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Fotovacanze…

FOTOVACANZE: nessuna differenza.
Chi pensa che un fotografo cambi registro tra la produzione cosiddetta seria – quella fatta con tutto l’arsenale dispiegato – e quella prodotta nel tempo libero, in vacanza, quando girovaga per mari e per monti o dovunque si trovi privato della sua invidiabile potenza di fuoco, si sbaglia.
Piuttosto non fotografa.
Piuttosto non fotografo…

Ma se fotografo, lo faccio sul serio.
Perché non ci sono due registri.
Fossero anche dei fiorellini invasati, lo sguardo è uno.
Ed è lo stesso.
Quindi, per ciò che mi riguarda almeno, non esiste alcuna collocazione stagionale sospesa.

Nessuna deroga: ciò che produco, e che mostro, mi appartiene in toto.
Come questa fotografia a due capretti.
Che è un ritratto a tutti gli effetti.
A meno che non si ritenga che il ritratto sia appannaggio della sola specie umana.
Dato però che non faccio distinzione di specie, di razza, di colore, di nazionalità, di classe, di quoziente intellettivo e per dirla tutta, nemmeno della rettitudine morale mi frega, fotografo sempre col solo intento di restituire la fotografia che mi riguarda e nella quale mi rifletto.
E si deve vedere. Perché se non è così ho fallito.
Quindi il mio approccio è lo stesso che ritragga Philippe Starck – un nome a caso per capirci bene – o appunto questi due capretti.
Magari cambia l’arsenale di cui sopra, e per questa fotografia non c’erano assistenti… no stylist, trucco e parrucco, uffici stampa e manco lo studio con tutta la luce che voglio.
Ma tutto ciò ha solo un peso relativo. E varrebbe zero se ciò che mostri è una ciofeca.

Se non ha l’identità che ti riguarda.

Questi due capretti, così come sono in questo perimetro, mi corrispondono.
E questo mi basta.

© Efrem Raimondi - All Rights ReservedFrom the series Guardami negli occhi, perfavore…
Pinzolo, agosto 2016, in vacanza.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Workshop Cambiano – Una sola faccia…

 

Workshop.
Nessun timore a ribadirlo: workshop!
La sede del ritratto, questo il titolo. Che è una precisa dichiarazione d’intenti.
Dopo un’infinità di tempo che non ne facevo – perché ritenevo che non ne avessi uno degno – l’anno scorso per Fondazione Fotografia Modena ho varato questo sul ritratto.
Che poi ho riproposto in altre sedi.
Inclusa Cambiano Foto Festival, sempre l’anno scorso.
E così, UGUALE, anche quest’anno, 10 e 11 settembre – INFO.
Perché non vedo proprio per quale motivo dovrei cambiare.

Sui workshop si può dire tutto e anche il contrario.
Su questo che è proprio mio, che mi calza, e anzi coincide con ciò che intendo per Fotografia, mi si perdoni la presunzione, no: nessuna e è possibile. O lo si ritiene utile o no.
E questo non è a prescindere.
Perché Workshop non è Aperitivo con…
Non si tratta di quattro chiacchiere, tre nozioni e un po’ di bisboccia.
È un reale impegno. Mio e di chi partecipa.

L’unica discriminante è avere la seria intenzione di mettersi in gioco.
Essere disposti a resettare alcuni convincimenti sul ritratto.
Che chiamerei cliché.
Se si possiede la verità assoluta, questo percorso non solo è inadatto. Ma decisamente nocivo.
Se è invece il dubbio ciò che ci anima, allora…

Efrem Raimondi - Selfie

Comunque questa è la mia faccia.
Vi auguro buone vacanze.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

p.s. c’è un modo per capire se un workshop ti può essere utile: guardare il lavoro e il curriculum di chi lo propone. Al di là delle parole, dei bacetti o al contrario delle dichiarazioni formato rude boy/girl, il lavoro si vede.

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Street Photography a chi?

Street Photography…
Di quando eravamo ignoranti.
 Per strada.
E non sapevamo che stessimo facendo Street Photography.
Quanto eravamo ignoranti…

Ci consola, un po’, il fatto che non lo sapevano neanche i Robert Frank, i Cartier Bresson, i Weegee – più strada della sua! – e tutta quella compagnia lì, randagia, zingara e precisa come il bisturi di un chirurgo. Intenta a fare Fotografia.
Incluso Eugène Atget, al quale Wikepedia mi pare, attribuisce la paternità. Della Street Photography. Amen.

Non m’interessa occuparmi delle denominazioni. Non in questo caso.
Non m’interessa quando la motivazione è formale e il neologismo sembra mosso dalla necessità di puntualizzare una distanza artificiale.
Frutto di un intellettualismo puerile, scolastico.
Frutto di un’esigenza commerciale.
Dettata da un mercato, quello dell’arte finanziata – spesso non coincidente con quello dell’Arte – che ha la necessità di sdoganare i prodotti di un’epoca fastidiosa e inattuale: quella della carta stampata.
Quando tutta questa fotografia si chiamava reportage.
E per quanto nobile sia il prodotto, la denominazione soffre dell’equivoco che la vorrebbe dedita alla documentazione.
In questo subordinata ad altre esigenze, più cognitive che espressive.
Una fotografia utile e basta.

Personalmente sono affascinato dall’inutilità delle cose.
Un po’ come dell’inutilità dell’uomo e del suo instancabile produrre.
Questo come postulato. Ideologico direi.
Poi, immischiandomi un po’: ma chi l’ha detto che Caravaggio è inutile?
Sì certo, forse per qualche ministro di questa repubblica…
E sporcandomi un po’ entro nel dettaglio per dire che l’utilità in Fotografia non è mai la discriminante.
Non lo è neanche la sua collocazione di genere.
Lo è solo la sua potenza espressiva. Indipendemente da ciò che rappresenta.
Da ciò che arbitrariamente impone.
E tu autore, chiunque tu sia, possiedi l’arbitrio per fottertene di qualsiasi denominazione?
Non si tratta di esporre. Si tratta di imporre.
La differenza tra esprimersi e emulare.
La differenza tra l’usare un linguaggio e farne la parodìa.
Questa è l’unica cosa della quale dovremmo preoccuparci.
E magari capire che la cosiddetta posa, cioè la percezione inequivocabile che il soggetto ha di noi, lì per lui che lo stiamo mirando, non rende la fotografia borghese.
O come ho sentito recentemente classica – magari! Provaci tu a diventare un classico!
Mentre se non si capisce un cazzo e tutto viene preso a randellate di flash allora è underground.
Quando stiamo fotografando, in quel momento lì, tutto il mondo è in posa per noi.
E ci tiene a una restituzione degna di una rappresentazione.
Se così non fosse non avremmo uno straccio di fotografia.

Le due fotografie sotto, realizzate con una Tri-X tirata a 800 ASA sono del febbraio 1982 e febbraio 1983, quando consapevolmente ingenuo girovagavo accompagnato spesso da una fotocamera 35 millimetri.
È stato un periodo utile al fine del ritratto che cominciavo a immaginare e che da lì a poco ho affrontato.
In banco ottico.
Ero timido con le persone. E l’idea di piantar loro addosso un obiettivo mi terrorizzava.
Ma la figura umana volevo affrontarla.
Il ritratto volevo affrontarlo.
Stare per strada, o comunque in luogo pubblico, è stata una palestra.
Uscivo con due ottiche: un 20 e un 35 mm.
Perché mi costringevano ad avvicinarmi.
A sentirla proprio la persona. Percepirne la fisicità.
A volte con la fotocamera puntata partivo da un po’ lontano e mi avvicinavo.
Dritto come un tram alla sua fermata.
Era fondamentale che mi vedesse distintamente.
Nessun equivoco: ce l’avevo con lui.
Lui il soggetto, lui al centro della scena, lui che  a quel punto mi distingueva bene.

Non scattavo finché non ero sufficientemente vicino.
E col suo sguardo in macchina gli dicevo: La sto fotografando… sia gentile, mi guardi, mi guardi bene.

Scattavo solo quando avevo la consapevolezza che non stessi facendo uno scatto.
Ma che avevo davvero qualcosa di simile a una fotografia. A quello che pensavo fosse una fotografia.
Che è anche la storia di una relazione.
A volte non dicevo assolutamente nulla.
Ma alla fine due chiacchiere si facevano sempre.
In assoluto non è così importante. Relativamente al percorso che stavo impostando, alla mia palestra di strada, lo era.
Comunque sia, i fotografi non rubano niente. Semmai ammazzano.

©Efrem Raimondi, 1982 - All Rights Reserved

©Efrem Raimondi, 1983 - All Rights Reserved

Mi resta solo un rammarico.
Del signore ritratto in treno, che mi guarda così, non ho saputo più niente.
Com’è nell’ordine delle cose.
E se non avessi scartabellato nel mio archivio, giusto per vedere cosa combinavo un po’ di tempo fa per strada, non avrei neanche la sua fotografia.
A questa ci tengo.
E ce l’ho.
Matrice solida.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Fotografia trasversale

Trasversale.
Che non è Eclettico… che in qualche modo, sotto sotto, assume spesso una declinazione spregevole. In fotografia come fosse una fusione di stili.
E tu che ci sguazzi usando come soggetto la forma.
Quella pura. Quella che fa della gradevolezza il passe-partout interdisciplinare…
Ma la Fotografia è una. E non c’è nessuna interdisciplinarità: se hai uno sguardo e l’apparato grammaticale per esprimerlo sei in grado di attraversare qualsiasi stato.
E appropriartene.

A condizione che ti appartenga. A patto che ti riguardi.
E questo vale per chiunque. Che sia un professionista – lo sono anche gli artisti, quelli veri – o un dilettante, uno cioè che di fotografia non campa, ciò non di meno è in grado di esprimersi compiutamente.
Due figure diverse non contrapposte che hanno un denominatore comune: come declini, e solo questo, fa la differenza.
Perché il soggetto è la fotografia prodotta, non le mèche dell’autore.

Trasversale.
Che tu ritragga un umano, un gatto, un edificio o una patata…
Che tu veda una sedia, un paio di scarpe, un tubino o una baldracca…
Che tu sia fermo sulla strada, fronte mare, lungo un fosso o all’inferno…
Trasversale.
Che tu sia ritrattista, stillaifista, paesaggista, reportagista, fashionista o qualsiasi ista tu sia… cos’è, se giri lo sguardo resti muto?
Cos’è che vuoi raccontare? Sarà mica tutto lì, lungo l’orlo di una sottana?
Che magari va benissimo e racconti cose che non so immaginare, e mi convinci.
Davvero mi conquisti.

Solo che a me l’orlo non basta.
Solo non impedirmi di voltarti le spalle e rotolarmi dove mi pare.
Dove mi riconosco. E potrebbe essere ovunque. In chiunque.
Dal grande direttore d’orchestra ai funghi del Lambro.

Che ne so io? Che ne sappiamo noi? A priori nulla.
La fotografia ha un solo obbligo: va fatta.

La riconoscibilità di un autore non sta nel fatto che ritrae solo funghi del Lambro.
O grandi direttori d’orchestra.

Questa è solo una sempificazione. Estremamente utile.
La riconoscibilità è un sottile fil rouge che attraversa funghi e direttori. E riconduce a te.
C’entra niente con l’eclettismo. Molto con la trasversalità dello sguardo.

Il fine non è di piazzarsi sulla cima del mondo, in trionfo al MOMA con la banda e le petalatrici, ma di trovare la nostra cima.
E da lì, assenti, indifferenti al brusio sottostante, estranei al rumore sovrastante, bersi un Martini Cocktail in santa pace.
Cosa che mi appresto a fare.

Jmmy Choo - Vogue Pelle by Efrem Raimondi

Vogue Pelle, 2005 – 30° Anniversary Issue.
Jmmy Choo, sandalo.
Redazionale, una di quattro.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Parametro Pupo

Ho fotografato Pupo. Lo dico alle lectio appena finita la proiezione del mio lavoro intorno alla figura umana, convenzionalmente detta ritratto.
Tra tutte le persone che ho fotografato, nella circostanza è l’unico nome che cito.
Perché è un parametro perfetto se intendi fare ritratto.
Ci sono cliché e postulati sul ritratto tutti frutto di una serie di equivoci.
Almeno per ciò che mi riguarda.
In primis che sia un ambito chiuso, la cui essenza e cifra espressiva si misurano con la capacità dell’autore di restituire l’anima del soggetto.
Bene…
Tu guardi Pupo. Ma vedi me.
Quindi di che anima stiamo parlando?

Non ho mai pensato di fotografare la persona, qualsiasi persona, con la presunzione tipica del ritratto: non   c a r p i s c o   un cazzo!
Una presunzione pericolosa. Perché più che in ogni altro ambito fotografico riduce la dialettica iconografica entro il recinto del genere. Ed è facile crollare.
Lavoro. Ed è un lavoro che coinvolge tutti i sensi che hai.
Ciò che si vede è solo un abbaglio: è ciò che non si vede, è lì che lavori. Lì che risiede la tua cifra espressiva.
Stiamo facendo Fotografia…
La cui dialettica non ha restrizioni: o è così o per me non è Fotografia. L’unica cosa che mi interessa produrre.
Ci provo. E qualche volta ci riesco.
Sai che mi frega del Ritratto!
Altrimenti in Pupo non mi sarei mai riflesso.
E al massimo avrei potuto restituire una didascalia.

L’ho ritratto nel 2006, in partenza per non ricordo quale posto impronunciabile dell’ex Unione Sovietica: se usassimo la presunzione del ritratto, se usassimo la nostra presunzione estetica, musicale in questo caso, restituiremmo ciò che non ci riguarda.
Invece l’intento è di restituire qualcosa che ci riguarda intimamente.
Detesto chi fa calcoli in fotografia.
E si risparmia perché la persona che sta ritraendo non corrisponde al suo circuito… Culturale? Estetico? Morale?
Quella faccia lì, quella che poi mostriamo, è la nostra!
Porta la nostra firma…
Qualcuno mi dica perché dovremmo certificare così banalmente i nostri limiti espressivi…
Invece la faccenda è molto più semplice. E ha a che fare con la complessità di Pupo.
Ed è qui che ti devi fermare.

Qui, per andare oltre la didascalia di genere.
Qui, disintegrando il paravento della privacy.
Qui, e non hai alibi.

Tutto è possibile. Con chiunque se davvero comunichi.
Una qualità dialettica direttamente proporzionale alla fotografia prodotta.
Anche nella divergenza. Anche quando c’è scontro.
Anche quando ciò che fa il soggetto che ti tocca non ti riguarda.
E anzi, più non ti riguarda più la fotografia che produci deve essere roba tua.
Anche per questo Pupo è perfetto.
Amo l’immagine che ho restituito. Una di quelle che amo di più.
E questo affetto è davvero gratis. Perché a prescindere da qualsiasi aspettativa.
Che poi, altro errore capitale: avere delle aspettative.
Le fotografie si producono facendole.
Non pensandole. Non parlandone.
Nel ritratto è quando hai la persona davanti.
Il prima, con tutte le sue sovrastrutture, e il dopo con tutte le promesse non mantenute, contano zero.
Non conta chi hai ritratto. Non è una questione di tacche e quante più persone famose hai mirato più sei figo. Forse per la vanagloria mediatica, solo per questa, ha un valore.
Ma in Fotografia conta solo il come.
E chi hai davanti in quel momento è tutto.
Io avevo davanti Pupo.
Sei tu.
Sono io.
Sono felice di averlo ritratto.
Dovesse succedere a te, cosa faresti?
Non chiedertelo. Fallo.

Pupo by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved

Fiumicino. Hilton Rome Airport Hotel, dicembre 2006.
Quando collaboravo con Grazia magazine.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Gioele #1 by Fabio Moscatelli

Gioele #1. Quaderno del tempo libero: titolo per esteso.
Io non lo chiamo neanche progetto.
Che data l’inflazione, solo a scriverlo, mi viene la nausea.
Questo non lo è. Questo è un libro meraviglioso.
Con un peso specifico editoriale alto.
E una densità che si riscontra raramente.
Bello, bello, ma proprio bello!
Fabio Moscatelli l’autore… il coautore, ci tiene a precisare.
Perché Gioele è stato soggetto attivo.
Gioele è un bambino autistico.
E sull’autismo sappiamo non molto.
Io niente.
Però intercetto questo libro, non ricordo neanche come, e lo compero http://www.dollseyereflex.org/shop/    – scorrere
E quello che vedo, tutto quello che sfoglio, mi rende felice.
Poi contatto Fabio.
Ed eccoci qui.
Con una breve chiacchierata.

La speranza di un mondo diverso, in una Fotografia migliore, alta, risiede in noi.
È nelle nostre mani.
In uno sguardo educato che sa perfettamente cosa lo riguarda.
E ce lo restituisce.
Ormai lontano, molto lontano salvo alcune eccezioni, dall’establishment editoriale.
Sempre più confuso.
E soprattutto lontanissimo dalle frenesie pseudo autoriali.
Che di artistico e autoriale non hanno niente.
Personalmente mi fanno sorridere. Anzi ridere.

Qui no. Qui la semplicità è davvero soggetto.
Ed è difficile a farsi.
Finalmente un po’ di ossigeno.

ER – Partiamo subito dalla questione centrale: perché questo lavoro? Da che urgenza nasce?
Non pensare troppo… come fosse un’intervista!
Fabio Moscatelli – La fotografia è un mezzo di comunicazione ma anche di ricerca. Ero ignorante in materia di autismo e al tempo stesso quasi affascinato: attraverso amicizie comuni ho conosciuto Gioele e con lui un mondo davvero particolare, fatto non soltanto di stereotipi legati a questo tema così delicato e per certi versi ancora misterioso
Perché affascinato?
Per quell’aspetto quasi fiabesco e romantico che spesso cinema, ma nel mio caso il riferimento è alla letteratura, hanno cercato di trasmettere.
Toccare con mano, vedere con i propri occhi è naturalmente più veritiero e restituisce una visione al netto dell’interpretazione fantasiosa.

Quali i riferimenti letterari?
Uno su tutti Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, di Mark Haddon.
Dove un bimbo affetto dalla sindrome di Asperger assume le vesti di un piccolo Sherlock Holmes per risolvere un piccolo giallo.
Libro divertente, utile forse anche a scuola, ma che descrive una realtà poco verosimile…
Asperger?
Il cosiddetto autismo ad alto funzionamento, quello che in parole povere potrebbe essere facilmente riscontrato nelle persone geniali: ma è a tutti gli effetti una forma di autismo.

Quali sono gli stereotipi intorno all’autismo?
L’isolamento di chi vive questa condizione, l’alienazione e l’impossibilità di comunicare con l’esterno.
È pur vero che le casistiche sono molteplici ma è altrettanto vero che gli autistici hanno un modo personale di comunicare e di vivere l’esterno.
A tal proposito la definizione più calzante in merito è questa: l’autismo è una diversa percezione del mondo attraverso i 5 sensi.
Per esempio?
Ad esempio il sottofondo, o meglio il brusio che i normodotati possono avvertire in un centro commerciale, viene percepito come un boato continuo da una persona affetta da autismo.

Chi è Gioele?
Gioele è un ragazzino che si sta affacciando all’età adolescenziale, con le sue stravaganze, la sua quotidianità fatta di gioie e delusioni e le difficoltà legate a questo delicato passaggio.
Tempo fa mi dicesti che il soggetto di questo libro è il bambino, non la malattia. Tuttavia questo è un percorso sulla condizione autistica. O no?
Senza dubbio, ma non ho mai voluto rendere protagonista la condizione, non considero l’autismo una malattia.
Ho seguito Gioele nella sua quotidianità evitando di scattare determinate situazioni. Uno dei complimenti più belli ricevuti, anche se arrivato come critica, è stato “bel lavoro ma non sembra autistico!”

Come è nato il vostro rapporto “lavorativo”? Come ha reagito inizialmente alla tua richiesta di fotografarlo? E i suoi genitori hanno acconsentito con o senzza remore?
Il nostro rapporto è nato con il tempo, mentre i genitori sono stati disponibili da subito.
Inizialmente non è stato facile… per un adulto è sempre complicato farsi accettare da un bambino. All’epoca Gioele aveva 10 anni. E dopo aver accettato me, ha accettato anche lo strumento fotografico tanto da realizzare alcune fotografie che fanno parte del libro.
Oggi posso dire tranquillamente di considerarlo quasi un figlio, con tutto il rispetto per i suoi genitori.

Ah! Quindi ha partecipato anche in termini di produzione fotografica!
Come? Con un suo mezzo… con il tuo…
Non solo! Molta della sua normale produzione fa parte del libro: i suoi disegni in cui compaiono animali degni di una mente tolkieniana sono parte integrante ed in qualche modo interattiva. Inizialmente ha scattato con la mia macchina fotografica, dopodiché per curiosità di entrambi con una snapshot.

Quindi potremmo dire che questo libro è una produzione a due…
Ho sempre considerato Gioele il coautore, parlo sempre del nostro libro, non del mio. È un segnale molto forte secondo me.
Un bambino autistico che realizza un libro, qualcosa di impensabile per molti!

Già… dunque Gioele aveva 10 anni quando avete iniziato: questo racconto è la sintesi di un percorso durato quanto tempo?
Sono due anni è mezzo che ci conosciamo e noto quanto Gioele sia cambiato: non è più un bambino, la voce è cambiata, sono spuntati i primi radi peli sul viso e la prima acne giovanile. È bello per me sentirmi parte della sua crescita.
Be’, un bellissimo percorso insieme. Davvero insieme.
Non amo tanto definire per generi la fotografia, almeno quella maiuscola – e questa lo è: diresti che è un reportage? E se no, cosa?
Non è un reportage ma un percorso condiviso tra un adulto ed un bambino speciale, tradotto in immagini.
Che poi sI fa spesso un abuso spropositato del termine reportage…. il mio è un diario da conservare e da riguardare un domani, magari insieme a due adulti come Gioele e mia figlia Syria.
La fanciulla che compare con Gioele?
Esatto, un altro aspetto che impreziosisce questa esperienza.
Seppur distanti per età e sesso sono diventati grandi amici, senza barriere di alcun tipo, senza distanze.

In qualche immagine Gioele si nega: o coperto da un lenzuolo o di spalle dietro a una tenda… c’è un motivo?
No, non si tratta di una negazione, piuttosto di momenti spontanei, forse particolari ma spontanei. Gioele in questo senso non si è mai opposto, anche quando magari ho ritenuto utile e preziosa una foto in posa.

Il titolo… quel #1 fa pensare che ce ne saranno altri.
È mia intenzione dare un seguito a questo primo capitolo: parlavo prima della fase di cambiamento, dell’attuale età adolescenziale di Gioele… ecco, è un aspetto che mi interessa molto… cercare di dare un seguito sottolineando questo delicato passaggio e realizzare un quaderno diverso, non più quello di un bambino bensì di un ragazzo.

Parliamo del libro: nel retro di alcuni inserti c’è sempre una frase, cosa rappresenta?
Sono pensieri liberi di un libero pensatore come Gioele.
Nessuna relazione con l’immagine?
Non necessariamente, anzi quasi mai. Sono estrapolati dal suo quaderno del tempo libero, che ha dato il titolo al libro.

Chi e con che ruolo ha partecipato alla cucina del libro?
Lo studio Der Lab, di Roma, di Irene Alison e le sue collaboratrici Agnese Capalti e Alessandra Pasquarelli.
La mia partecipazione emotiva era troppo grande per poter realizzare tutto da solo.
Ad esempio sarebbe stato impossibile per me rinunciare a una fotografia in fase di editing, sarebbe stato come cancellare un momento di vita insieme. E così è nata questa collaborazione.
Der Lab ha fatto la curatela, e io sono l’editore.
E l’art direction?
Ci ha dato lo spunto Gioele stesso, che ha un vero quaderno in cui raccoglie le sue creazioni grafiche e testuali.
Ecco volevamo riprodurre proprio questo concetto, il tutto è stato sempre condiviso con me, che ho sempre avuto l’ultima parola. L’art direction vera e propria è di Irene Alison e Alessandra Pasquarelli.

Il tuo è uno sguardo molto delicato ma potente: cos’è per te fare fotografia?
Scoprire e contemporaneamente esprimere me stesso… nella mia fotografia ci sono io, il mio pensiero, la mia essenza. In due parole prima ancora del fotografo c’è l’uomo.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

 

Gioele #1 - Fabio Moscatelli - Efrem Raimondi Blog

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Gioele #1. Quaderno del tempo libero, 2015 – Fabio Moscatelli.
54 pagine, illustrato, con inserti + stickers + taccuino.
Rilegato a spirale – 26,5 x 18 cm.
€ 35,00

La prima edizione è stata stampata in 150 copie numerate e firmate – sold out – cui è seguita una seconda edizione di 100 copie.
Parte dei proventi di questo libro sono destinati a Gioele per contribuire a realizzare i suoi desideri di bambino/ragazzo e venire incontro alle sue grandi esigenze di persona affetta da condizione autistica.

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