ISOZERO update

ISOZERO by Efrem Raimondi

 

Un aggiornamento doveroso: da più parti mi giunge eco del fatto che non si riesce a trovare ISOZERO…
C’è chi mi ha scritto che non l’ha trovato neanche alla Milano Libri…
Ammetto che la cosa mi fa piacere, perché è una testimonianza di affetto.
E di fiducia.
Purtroppo malriposta nello specifico, perché ISOZERO è sì la rivista che vorrei, ma al momento non esiste.
Mi sembrava che sul finale Claude Fisher – non esiste neanche lui, almeno nei panni del mio intervistatore – lo dicesse chiaramente:

Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia.

Le cose stanno così. Mi scuso per l’equivoco.
E ho una vera, sincera simpatia per chi l’ha materialmente cercata.
Ciò non di meno, è la rivista che vorrei. E che, almeno a me, manca.

Dopo La fotografia non esiste… non esiste neanche ISOZERO.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

ISOZERO – Interview

Efrem Raimondi - ISOZERO MAGAZINE

Los Angeles, August 2014.

Claude Fisher – ISOZERO: Buongiorno Efrem, prima cosa, grazie di essere qui: come stai?
E.R: Meravigliosamente! Non ci penso.
Ottimo, ma ci riesci?
Con un po’ di esercizio sì. Non pensare sta diventando la mia condizione abituale…
Cos’è, una battuta? Non si direbbe guardando il tuo lavoro.
Ti confesso che è soprattutto al mio lavoro, al fotografare, che non penso. E comunque più in generale, non penso.
Perché se dovessi pensare non fotograferei più. Non è più tempo.
Farei altro… chessò, il rivoluzionario o comunque un lavoro socialmente utile. Invece non pensare mi consente di fotografare.
Che per me è ancora il miglior escamotage per evitare il peggio.

A Los Angeles siamo diretti: vuoi un caffè?
Se poi posso fumare, sì volentieri…
Sono spiacente ma questo non è possibile… mi spiace davvero molto.
Allora sì, lo prendo. Sai com’è, a Milano siamo indiretti…
Molto bene: latte, zucchero?
Assolutamente niente, grazie.
Dieta? – ride.
Ti sembro ciccione? No… anzi, voglio morire grasso. Semplicemente il caffè mi piace liscio. Lo zucchero lo aggiungo se mi fa schifo… Mi piace l’incipit di questa intervista. Dico davvero. Isozero è una rivista che amo proprio per la sua autenticità: che tu mi confermi.

Ok, veniamo alla prima domanda: ti sei definito più volte un outsider e qui in U.S.A. è un genere molto apprezzato. Ci dici qualcosa a riguardo? Perché saresti un outsider?
Perché non ho fatto alcuna scuola, non ho fatto l’assistente… non ho mai fatto niente. Niente che in qualche modo avrebbe potuto aiutarmi a crescere dandomi degli strumenti concreti. Che sono invece importanti e fanno risparmiare un sacco di tempo. Oltre al fatto che ti permettono di conoscere un po’ di persone… e sai com’è, le conoscenze aiutano. Io invece no.
E quindi cos’hai fatto? Quando hai deciso di fare fotografia e diventare fotografo?
In un certo modo fotografi si nasce… a quattro anni sfogliavo Popular Photography, alla quale mio padre era abbonato. A sei, sette anni mi capitava di accompagnarlo per circoli fotografici e per mostre… sono stato più volte con lui al Jamaica, nel cuore di Brera, quartiere artistico per eccellenza di Milano, dove incontravi Ugo Mulas, Bruno Cassinari, Piero Manzoni, Alfa Castaldi… un locale che era stato abitualmente frequentato da gente come Ungaretti… che nei ’70 era quasi dimora per Allen Ginsberg… E c’erano un sacco di operai, perché quello era un quartiere operaio: chi cazzo ci va adesso al Jamaica?!

Che sigarette fumi?
Lucky Strike…
Me ne offri una?
Con vero piacere! Lo sai che il fumo fa male?
A Los Angeles? Ma non mi chiedi come mai ne chiedo una?
Nnno… non mi piace mettere in imbarazzo le persone. Tu me l’hai chiesta, io te la do. Ma nessuno dice nulla se fumiamo qui dentro?
Ma qui si fuma abitualmente – ride. Si va sul tetto, almeno in due: non è consigliato andarci da soli… l’ascensore può riservare una compagnia non molto attraente – ride. Però ci sono le eccezioni. Anche a Los Angeles, cosa credi? In questo ufficio ogni tanto succede. Ti chiederai come mai prima ho detto che non era possibile…
No. In ogni caso anche outsider si nasce. Tra la fine dell’80 e l’inizio dell’81 feci due reportage. Ero un ragazzo con una voce fuori dal coro, ma non fu un fatto volontario: ero realmente così. Eppure quei due lavori mi convinsero che la fotografia sarebbe stata la mia vita. Cominciai a bussare a tutte le redazioni che ritenevo interessanti. E ce n’erano parecchie… la fotografia italiana ha radici nell’ambiente amatoriale degli anni ’50 e ’60… un luogo davvero ricco di talenti autentici. Alcuni si sono imposti altri no. Ma comunque il confronto era con una fotografia di alto livello espressivo. E le riviste intercettavano questo talento dandogli degli argini certi. Evitando dispersione…
Adesso per favore chiedimi cos’è il talento…

LOS ANGELES by Efrem Raimondi

Scusami, quali magazine?
Diversi e ognuno con l’intenzione dichiarata di mettere al centro la fotografia. Ne cito due per tutti e che mi riguardano direttamente: PM e INTERNI… il primo fortemente italiano, di attualità, il secondo con un taglio inevitabilmente internazionale visto che è di design che si occupava, e si occupa dato che per fortuna c’è ancora.
Ma lo sai che è capitato di ricevere lettere – mica c’era Internet – in redazione a Interni?
A seguito di un redazionale o di un numero particolarmente denso. Anche da qui, dagli U.S.A.

Quindi parlo non di magazine che si occupavano di fotografia, ma di quelli che la fotografia la producevano davvero. Pensa a Lotus, la conosci?
Ce ne ha parlato Francesca Solincielo, il nostro occhio italiano in redazione…
C’è ancora, con una formula editoriale diversa. Be’, ci pubblicavano regolarmente Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella…
li conosci?
Conosco Luigi Ghirri e Gabriele Basilico… Conosco Giacomelli e Ugo Mulas. E conosco anche il lavoro di Giuseppe Cavalli. Francesca dice che in Italia non è molto conosciuto: mi sembra impossibile.
Giuseppe Cavalli? Tu conosci Giuseppe Cavalli? Un grandissimo!
Ma Francesca ha ragione: a parte alcuni addetti ai lavori e i critici di professione, è semisconosciuto.
Scusami, tu quanti anni hai?
Trentaquattro…
Bene, ognuno ha l’età che si merita. Io ne ho tremiladuecento, circa, e non ho un presente.
Siamo un popolo senza presente noi italiani, per questo usiamo quello degli altri.
Chi ci conosce? A parte i nomi che hai fatto, chi ci conosce?
E anche qui ci sono delle responsabilità, anche di noi fotografi. E del concetto di mamma che abbiamo. Perché in Italia la mamma è un concetto.
La propria. Quella degli altri a volte è solo troia. E anche questo è un concetto.
Guarda, quanto a concettuale non c’è popolo al mondo che ci batta…
Voi e quella invenzione paracula che avete chiamato Pop Art…
Comunque… io ero un pischello che spingeva, ma ciò che guardavo, il mio parametro era di questo livello: quei fotografi lì, quelle riviste lì, quelle mostre lì. E un là, quello che arrivava oltre confine ma non si viveva come un prodotto di importazione. Non era cioè qualcosa di estraneo e inoculante: se ne percepiva chiaramente il background, la specificità locale. E questo garantiva dialettica e confronto: stimoli! crescita!
Vuoi mettere la pappetta preconfezionata con tanto di visto internazionale? Quella roba che parla un linguaggio passepartout che non ha un microbo. E senza microbi, muori.

Non credi ci sia un linguaggio internazionale?
C’è una convenzione espressiva internazionale ridotta ai minimi termini, per un mercato del pensiero unico e globalizzato. Non è un linguaggio, è un paralinguaggio, è un business. E il metronomo lo caricate voi.
Noi, tutti noi resto del mondo, balliamo al ritmo della vostra musica. Noi ci ingoiamo Miley Cyrus e Terry Richardson. E al massimo produciamo epigoni. Proprio perché non usiamo più il linguaggio. Che è un elemento distintivo che garantisce la dialettica, lo scambio… se tutti parlassimo nello stesso modo non ci sarebbe più espressione.
Mi chiedi cos’è il talento, per favore?
Capisco. Siamo degli imperialisti schifosi… è questo che dici, no?
Io credo che la fotografia sia in grado di superare molte barriere linguistiche e in questo è un grande strumento di comunicazione immediata. Diretta e veramente trasversale… come si dice? Una fotografia vale più di mille parole!
Dipende quale fotografia e quali parole. Non mi piacciono le generalizzazioni, producono il conformismo al quale aggrapparsi per insultare qualsiasi divergenza. Mentre è proprio nella divergenza, è nella contraddizione che risiede l’origine del linguaggio.
Non dico che siete degli imperialisti schifosi… dico che avete industrializzato un metodo di esportazione culturale che non prevede emersione del contraddittorio. Del resto se no come avreste fatto a competere col sistema dell’arte che vi ha preceduto? La Pop Art è stato il vostro Cavallo di Troia. Un cavallo chiassoso, con finimenti e bardature spaccone degne di un circo. Avete appeso il silenzio hopperiano nei vostri musei dopo averlo celebrato il minimo per potercelo mettere su quelle pareti, e siete partiti col carrarmato Warhol.
Mi chiedo come facciano taluni tanti, a sostenere che Edward Hopper sia stato il precursore della Pop Art… lui, che diceva robe tipo “Non dipingo quello che vedo ma quello che provo”.
Semmai è stato il precursore di tanta fotografia e cinema. E non mi riferisco all’operazione di Richard Tuschman, della quale francamente non capisco la necessità.

Interessante, quindi outsider
Hai detto che qui l’outsider è molto apprezzato… e certamente è stato così. Non so adesso… 
Se proprio devo dirla tutta, outsider definisce anche una posizione culturale. Quella che aspira al superamento del trend e delle certezze pontificate. Francamente è la condizione che consiglierei a un giovane fotografo: chiudere gli occhi e estraniarsi da questo insopportabile rumore digitale che ammorba l’aria… Ezechiele 25:17

Pulp Fiction!
Esatto. Lo citano tutti, lo faccio anch’io.
Rumore… digitale versus analogico? I fotografi della tua generazione, quelli che abbiamo incontrato, hanno opinioni discordanti a riguardo: tu che ne pensi?
Bene… chi usa astrazioni a riguardo fa solo demagogia.
Per garantirsi un po’ di luce mediatica. Una marea di gente a diverso titolo si esprime su questo falso dualismo. Mistificante direi. I più violenti, in genere, sono i digitalisti. Perché sanno perfettamente che se per uno scherzo diabolico il digitale sparisse così, d’emblée, non sarebbero in grado di fare più un cazzo. A me non frega niente della diatriba, a me interessa solo il risultato, cioè la fotografia che ho di fronte. E giusto per chiarire, uso il digitale ormai nella stragrande maggioranza dei casi. Perché è comodo e io sono pigro.
Però è stato come Hiroshima. Per cui si abbia la cortesia di non chiedermi di amarlo. Lo uso e stop.

Mi sembra che tu esprima un certo disprezzo. E con la postproduzione che rapporto hai?
Non disprezzo. Il digitale è ineludibile. E non si può essere rancorosi nei confronti degli strumenti che usi. Annoto solo che della pellicola mi manca il volume. E quella leggera scia sporca che i cristalli di alogenuro d’argento custodivano gelosamente. Quei cristalli se trattati con affetto partecipavano alla tua cifra espressiva. C’è più personalità in una pellicola. Tutto qui.
In parte la poca postproduzione che faccio mi serve per recuperare un po’ di quella  personalità. Voglio però dire una cosa molto chiara: la postproduzione c’è sempre stata. Non è patrimonio esclusivo del digitale.
Dalla manipolazione dello sviluppo della pellicola a quella della stampa: il computer ha solo sostituito la camera oscura.
La questione semmai è quale postproduzione.

Quale postproduzione?
Quella che non espone al ridicolo, al comico a volte.
Quella che ha un motivo preciso e non è volgarmente protagonista.
Quella che non si droga di perfezione, e che non perde mai di vista l’insieme: ogni fotografia non è la somma di particolari perfetti.
Ma un unicum da prendere in blocco. Il suo equilibrio riguarda la dialettica degli elementi che la compongono. Un equilibrio che puoi spingere fino alla precarietà assoluta. Fino all’estremo. Fin lì e basta. Poi precipita tutto in un attimo. E non c’è nulla che possa salvarti.
Ci troviamo di fronte a una vera e propria emorragia di cattivo gusto. Dove la singola fotografia altro non è che il supporto geometrico per degli esercizietti più o meno audaci.
Questione seria questa qua. Al punto che nella maggior parte dei casi potremmo saltare la voce “fotografia” e passare direttamente alla voce “postproduzione”… che ce ne facciamo della fotografia?
E le fotografie diventano solo il media per una visione postprodotta talmente alterata da essere trash. Gran fumettoni e via andare.
Visione alterata… cioè tu insisti per un una visione comunque legata alla realtà? Il mondo però cambia e ogni epoca ha il proprio modo di rappresentarsi… si inventano nuovi linguaggi e mai come oggi il legame con la tecnologia produce espressione e in certi casi addirittura la determina. Non penso che ancorarsi al passato sia una soluzione. E anche il gusto, scusami, cambia.
Non è questione di passato e di presente…
C’è una fotografia transitoria legata al costume e questa non solo c’è sempre stata ma mi interessa in quanto rappresentazione di un’epoca. O per dirla alla contemporanea, legata a un periodo.
Che è però sempre più breve perché determinato dalla necessità del consumo, tanto e speedy. I cui tempi non prevedono più neanche lo stomaco: ingoi e caghi. Peccato, perché ti fotti il sorriso.
A me una fotografia da fast food non interessa.
Ritengo che il linguaggio, qualunque sia, debba essere alto.
O comunque tentarci.
E solo le avanguardie sono in grado di esprimerlo compiutamente.
Perché solo le avanguardie sanno manipolare le nuove tecnologie, sanno davvero usarle senza essere usate. Da questo dipende il cambiamento che davvero mi auspico con tutto il cuore. E il po’ di cervello che mi resta.

Ritieni di essere un’avanguardia?
Ma figurati! Io non ritengo niente per ciò che mi riguarda, io mi limito a respirare e a guardarmi attorno.
E se anche il respirare è un fatto automatico, a volte sarebbe bene romperne il ritmo e inspirare profondamente. Questo è l’unico momento in cui si ha coscienza di cosa sia il respiro.
Questa è l’urgenza della fotografia adesso: fermarsi e inspirare.
Perché quello che sta vivendo è un’apnea.
C’è… è viva. Oltre le macerie di fotografie, c’è una fotografia che riflette… ci sono giovani che hanno molto chiaro come organizzare il proprio talento. Anche loro in apnea, ma hanno preso il boccaglio: la condivisione. E i collettivi possono davvero essere il luogo ideale per un’avanguardia. L’epoca di Lancillotto e Mandrake è finita. Io non ci credevo nemmeno prima, figurati!
Una fotografia collettiva?
Sì. Una fotografia che esprima con assoluta chiarezza da che parte sta ogni volta che si espone: propositiva o mediatica? Contraddittoria o accondiscendente?
Perché sono due sponde diverse.
Ciò che vediamo a livello social, di iconografico intendo, non è condivisione ma solo accumulo di fotografie. Lì, sparse come i coriandoli, che galleggiano per aria per pochi secondi e appena dopo precipitano a terra. Soprattutto oggi, noi tutti avremmo bisogno di bombardieri, altro che democrazia digitale!

La copertina di questo numero di Isozero l’abbiamo scelta insieme…
Era in lizza col ritratto di Philippe Starck, altro bianco e nero, ma molto ben impacchettato: l’ago della bilancia è dipeso da te alla fine, perché questa scelta?
In fondo non sono così estranee… sempre di pacco si parla – risata.
La mutanda è una Polaroid del ’93, ero ancora nel bel mezzo del rigore da banco ottico, nel mio caso comunque un po’ sporco… e la Polaroid era il modo per evadere da una certa staticità ineludibile.
Ho sempre amato gli estremi, e rimbalzare dal banco alla sx-70 era per me come passare da una marina all’Everest, il tutto in un attimo, il tempo di allungare la mano e prendere lo strumento meno mediato possibile rispetto al precedente. In fondo era come accorgersi, nello scarto, del respiro di cui si diceva prima.
Questo rimbalzo è stato ed è tuttora fonte di ossigenazione per il mio cranio: non è vero che lo strumento è indifferente, perché ognuno ha delle specificità proprie. La differenza la fa la tua capacità di relazione, e più è dialettica, meno subisci i limiti e più diventi la fotografia che fai.
Questa immagine fa parte della serie Appunti per un viaggio che non ricordo, un lavoro in progress sul tema dell’allucinazione e della percezione. Un lavoro sul dubbio e l’incertezza. Rigorosamente in formato quadrato. Credevo fosse finito con il decesso Polaroid.
Poi sono arrivati Instagram e lo smartphone. Forse posso riprenderlo.
Forse…
Ma scusa, è stata ripresa la produzione: Impossible Project, che rappresenta la continuità Polaroid…
Provata. Quando mi avviseranno che è cambiata la riprovo.
Al momento non ho echi. Mi dicono che però sono ecologiche.
E chi se ne frega.
Te ne freghi dell’ecologia?
Proprio per niente! Solo non può essere usata come un alibi.
Che poi, visto il costo di ogni confezione, rigorosamente da otto, e visto il consumo ben più che doppio dato che vai per approssimazione empirica e comunque non è detto, mi spieghi cosa c’è di realmente ecologico?
Non ho nessun preconcetto nei confronti di Impossible Project, e infatti resto in fiduciosa attesa. Nel frattempo sono anche più ecologico e uso l’iPhone, se questo è il parametro.
Torniamo alla mutanda: cos’è realmente?
È una Cagi. Le mutande che portavo allora. Le adoravo… tutto era a suo agio.
Ne sono lieto, ma a parte questo dettaglio che eviterei di approfondire, è la metafora di cosa? E torniamo quindi alla domanda: perché questa scelta?
Comincio a pensare che la motivazione, tua e mia, non coincida…
Dico la mia: non è la metafora di niente ma solo le mie mutande appese. Una mutanda che incorna, con quelle due mollette messe lì. Questa è l’unica concessione che posso fare. Potrebbero essere di chiunque e sarebbe comunque un fatto intimo. Credo che l’esposizione delle mutande sia più osé di un nudo quanto a svelare intimità. Il fatto che siano le mie rende l’immagine più intima. Ma la fotografia in sé non denuncia la proprietà dell’oggetto.
Per comunicarlo dovrei scrivere una nota, o intitolarla Le mie mutande. C’è del feticismo in ciò? Non lo so. Può anche darsi, ma saperlo e capirne le ragioni non mi riguarda.
All’occorrenza posso anche argomentare la fotografia che faccio, ma non le fotografie. Che non hanno bisogno di me. E anzi è meglio che mi stiano più alla larga possibile per la salute di entrambi. Creandole, ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità per renderle autonome. Il mio compito si esaurisce lì. I commenti e le spiegazioni… i messaggi ecc appartengono agli altri. Io non ho messaggi e tutto si esaurisce con un mi piace o no.
Visto che è qui, in bella cover, mi piace. E a te?
Certo che mi piace, diversamente non sarebbe appunto in bella cover. Ma aggiungo: è una fotografia tremula nella manifestazione ma forte nel segno, punk direi. E integralmente Polaroid.
Appesa. A cosa? Non il filo, che è davvero solo lo strumento percepibile, quanto quel poco di vuoto apparente che la circonda. Questa è la domanda. E poi…
Il bello di una fotografia, è che ognuno può vederci quello che vuole. Non ci sono risposte univoche. Alcune possono essere condivise, ma la coincidenza è impossibile. E si aprono porte inaspettate. Ma tutto questo non è affare che riguarda l’autore. Non lo può riguardare perché le singole fotografie sono solo lo strumento per l’affermazione di una propria idea di fotografia. E di questo, se ne può parlare. Mi è certamente più congeniale. Perché uso un’astrazione. Quello che condivido, l’unica cosa di ciò che dici, è che la domanda è più importante della risposta. Anche perché io non do risposte. Pongo solo domande.
Nel 1990 feci una personale nella più importante galleria fotografica italiana, e una delle più importanti d’Europa, Il Diaframma.
Si intitolava Ritratti. Ed era un lavoro col quale sostenevo la tesi dell’autoritratto, il self portait applicato a qualsiasi soggetto stessi ritraendo. Non sto a tediare… In più avevo scritto quattro righe intorno al tema della specializzazione in fotografia, che trovavo un fatto puramente utile per una collocazione, sia commerciale che critica, ma assolutamente inutile e anzi dannosa per il fotografo, quello che almeno intende davvero usare la fotografia come linguaggio: nulla è più deputato di altri a diventare soggetto.
Il soggetto è solo il pretesto per raccontare liberamente di sé.
A me sembrava ovvio, invece venni anche contestato per queste affermazioni.
Quasi immaginando certe reazioni, esposi anche un mio autoritratto in mutande, calzoni calati. Che adesso ti faccio vedere.

Efrem Raimondi, self portrait, 1990

C’era anche una didascalia, ed era l’unica fotografia esposta ad averla: Titolare dal 1963. O ’64, non ricordo cosa diavolo avevo scritto.
E faceva il verso a una campagna dell’American Express.
Solo che io mi sentivo titolare solo delle mie Cagi.
Come vedi, evidentemente certe immagini, solo alcune, hanno poi una maturazione. Questo per me è il senso di questa Polaroid: l’evoluzione sul tema delle mie mutande. Stop.
Questa è un’immagine che hai realmente esposto in una personale?
Sure! Te la faccio io una domanda… cos’è Isozero? La seguo da un paio di anni. Non saprei dirti neanche se c’è un motivo preciso. So che la compro con grande piacere.
Dove la trovi in Italia?
Non so dirti altrove, ma a Milano la trovo da Milano Libri, che è un po’ un luogo di culto e di souvenir giovanili per me… ho cominciato a frequentarla che avevo i pantaloni corti e una Pentax K1000…
E lì c’è un banco con una serie di riviste internazionali esposte.
La trovo lì.
La prossima volta che vengo a Milano mi porti.
Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia. Anzi dico meglio: che si occupa di linguaggio. Una rivista trasversale senza pudore che nasce per essere cartacea. La versione Web è solo di lancio, pillole gratuite del numero in uscita.
Noi amiamo la carta. E la crisi dell’editoria non ci riguarda. E poi…
Ti dico una cosa, scusa l’interruzione: se avessi soldi veri, o un editore complice, investirei sul cartaceo. Proprio adesso che ‘sto mondo annaspa. Tutti a dire e ridire ma non conosco un solo fotografo, un solo artista, un solo critico, una sola galleria, che non ami la carta.
Ma sai, per noi il feedback è positivo. Ma siamo in una nicchia.
Io amo le nicchie. Non credo ci sia, oggi, altro luogo per esprimersi compiutamente.
Vero. O almeno noi ci crediamo visto che è in questo ambito che ci muoviamo. Ma è complesso e i problemi aumentano proporzionalmente col passare del tempo. A volte da un numero all’altro. E noi siamo un trimestrale, con l’ambizione di diventare bimestrale. Ma finché c’è carta e stampa, c’è speranza. E noi tiriamo avanti. Molto coerentemente  con l’idea, la filosofia direi, che ci riguarda sin dal numero zero: noi non informiamo, non esprimiamo opinioni… noi esprimiamo giudizi. Prendiamo posizione. Diciamo e pubblichiamo ciò che ci riguarda… e ciò che vedi quando compri l’ultimo numero alla Milano Libri, coincide con ciò che siamo.
A volte sembriamo contraddittori, e forse lo siamo anche. Ma siamo vivi e ci disinteressiamo del marketing strategico: non inseguiamo bisogni che non conosciamo per piazzare un medium a due dollari.
Noi siamo soltanto noi. E ci siamo accorti che ci sono altri noi.
Questo è Isozero. Un trimestrale inesistente che costa 15 dollari.

Chiarissimo. Netto direi.
Te lo chiedo in ginocchio, mi chiedi cos’è il talento?
Ma hai bisogno che te lo chieda?
Grazie per la domanda Claude. Claude… come mai un nome francese?

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Continua…

P.S.   Questa rivista è mia. Guai a chi me la tocca.
This magazine is mine. Hands off, please.

UPDATE DEL 22 OTTOBRE

Un aggiornamento doveroso: da più parti mi giunge eco del fatto che non si riesce a trovare ISOZERO…
C’è chi mi ha scritto che non l’ha trovato neanche alla Milano Libri…
Ammetto che la cosa mi fa piacere, perché è una testimonianza di affetto.
E di fiducia.
Purtroppo malriposta nello specifico, perché ISOZERO è sì la rivista che vorrei, ma al momento non esiste.
Mi sembrava che sul finale Claude Fisher – non esiste neanche lui, almeno nei panni del mio intervistatore – lo dicesse chiaramente:

Dunque… Isozero è la rivista che non c’è. Ma ha un’idea precisa di cosa dovrebbe essere una rivista che si occupa di fotografia.

Le cose stanno così. Mi scuso per l’equivoco.
E ho una vera, sincera simpatia per chi l’ha materialmente cercata.
Ciò non di meno, è la rivista che vorrei. E che, almeno a me, manca.

Dopo La fotografia non esiste… non esiste neanche ISOZERO.

UPDATE 26 FEBBRAIO 2020
In realtà un ISOZERO è nato: il mio laboratorio di fotografia, ISOZERO Lab.
Un percorso didattico che è proprio altro. Un po’ allineato con l’intervista. Ciao!

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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DOVE VAI


Otto opere 100×100 cm.
Realizzato in Franciacorta (Lombardia) nell’ottobre 2002
con una SX-70.
Con lo sguardo attonito, rivolto a terra poco oltre i miei piedi, attraverso un paesaggio mutato e continuamente mutante.
Dove tutto si mischia e coesiste… simile ormai
in tutta la vecchia Europa.

Questo la scheda di DOVE VAI, inserito in Tracce. Una mostra a invito voluta dalla Fondazione Terra Moretti e dalla rivista Photo.
Ospitata in due sale de L’Albereta Relais & Chateaux di Erbusco: Franciacorta piena.
Adelaide Corbetta e Wolf-Gregor Pazurek i curatori.
Oltre a questo mio lavoro, quelli di Hassan Badreddine e di Hugh Findletar.
Era il dicembre 2002… qualche anno fa.
 La Polaroid SX-70 alla portata di tutti. E perfetta per questo percorso: testa bassa e passo veloce.
Perché lo ripesco?  Non è mai stato sommerso… sedimentava.

Ci sono immagini che sedimentano.  Un privilegio che non riguarda tutte le fotografie che realizziamo. 
E che in genere non riguarda le “migliori apparenti”, quelle cioè che subito ti fanno gridare al miracolo e quanto sei bravo. Figo. Geniale. Con quel taglio che solo tu e quella luce che emana dall’io profondo…
Non dobbiamo avere fretta. A maggior ragione adesso coi mezzi a disposizione, coi quali rischi il cortocircuito tale è la mole di materiale e l’immediatezza dell’immagine.
Mi sono costruito una gabbia entro la quale stare. E non sono uscito di un millimetro.
In questo il quadrato aiuta. Perché in qualche misura asseconda la bidimensionalità di uno sguardo forzatamente privato dell’orizzonte.
Solo in una ho alzato le palpebre. Solo perché la stada era in salita.
E ciò che spuntava era poca roba… una macchia all’inizio del niente.
Aveva una sua misura decorosa, perciò non mi spaventava.
 Perché invece ciò che non ho registrato, ma che c’era in quella fascia di mezzo tra suolo e cielo, non aveva più niente di decoroso e mi lasciava statico e attonito.
Un po’ come la figura guida delle otto immagini.
Alla quale sono negati il mezzo busto e l’espressione.
Vorrei sapere che fine ha fatto l’orizzonte.
Vorrei sapere perché la misura del nostro sguardo non lo raggiunge più.
DOVE VAI è il lavoro col quale di fatto, mio malgrado, chiudo con la Polaroid. E con un paesaggio per certi versi assoluto e romantico. Che infatti non mi riguarda più.
Il paesaggio col quale ci confrontiamo oggi è un soggetto attivo e reattivo.
In tempi molto più rapidi rispetto a qualsiasi epoca precedente.
A me interessa intercettarne gli umori. E non solo i fenomeni.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Adelaide Corbetta e Wolf-Gregor Pazurek i curatori.
Fotocamera e film: Polaroid SX-70.
Scansioni da originale stampate 100 x 100 cm

TIRATURA 6 100/100 cm + 3 50/50 cm.

Do you like fiorellini?

Ciclamini by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved
Fiori
.
Si fa in fretta a dire fiori…
E allora io faccio ancora più in fretta: taglio tutto e mi fermo oltre. Appena oltre.
Recisi…
Cadaveri presentabili grazie a un po’ d’acqua e ghiaccio… alchimie del fiorista.
Come stare in un obitorio.
Una stanza prima, diciamo. Perché respirano ancora.
Moribondi allora.
Si fa in fretta a regalarli.
E pensare che erano i padroni del mondo: il primo respiro intorno a 200 milioni di anni fa. Milione più milione meno.
Non c’era ancora manco un mammifero. Manco un bel niente.
E l’ossigeno l’hanno inventato loro.
Appena prima le piante, vero… comunque è ai vegetali che dobbiamo tutto.
Figli dei fiori… anche senza treccine e una raffica di cioè a disposizione di eloquio.

Si fa in fretta allora a fotografarli, come un album di famiglia.
Ma se ci piacciono tanto, perché li ammazziamo?
A fine anni ’80 ho cominciato a chiedermelo.
Guardando i fiori di Robert Mapplethorpe: bellissimi… apoteosi estetica.
La scelleratezza dei vent’anni non guarda in faccia a nessuno.
Ho preso il mio banco ottico e ho detto ”Faccio anch’io!”
Solo che era molto diverso il fiore che io avevo davanti rispetto a quello di Mapplethorpe.
Cioè, i suoi come dopo il make up delle pompe funebri americane. Come nei film.
Questo è ciò che ho percepito un giorno preciso alla Milano Libri, in via Verdi 2.
Mio luogo di pellegrinaggio in un certo periodo.

Erano due ore e almeno la terza volta che sfogliavo i suoi fiori a piena pagina.
Stampati da Dio.
E ho avuto ribrezzo.
Si può dire?
Io guardavo i miei. E sembravano urlare.
Io guardavo i miei. E mi ricordavano le Danze macabre del Baschenis.
Se guardavo solo i suoi non avrei mai fatto niente.
Il problema era quindi ancor prima di fotografarli.
E infatti non ho mai pensato fossero degli still life.
Ma dei ritratti. A della gente messa piuttosto male.
In alcuni casi malgrado le apparenze, in altri incluse.
Li ho ritratti fino a metà ’90, poco più.
Lo facevo saltuariamente, quando capitava e avevo una buona riserva di energia.
Ed ero completamente solo. Poi ho smesso.
Fino a gennaio 2012. Erano lì, omaggio di una ospite.
Erano lì in un vaso.
Li ho raccolti, sono andato a fare una passeggiata sul Ticino e li ho lanciati in acqua.
Prima però li ho ritratti.
E ieri ho fatto lo stesso con degli Iris.
Mi costa abbastanza a queste condizioni.
Ma mi è chiaro che me ne fotto.
Eccolo qua il vero senso della fotografia: al netto di tutto, me ne fotto.
E procedo.

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Iris, by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved

Ciclamini, by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedTulipano Nero by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCiclamini © Efrem Raimondi. All rights reserved.Tulipani © Efrem Raimondi. All rights reserved.Tulipani © Efrem Raimondi. All rights reserved.Giglio rosso © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Vaso di fiori alla finestra © Efrem Raimondi. All rights reserved.Gigli bianchi © Efrem Raimondi. All rights reserved.Vaso di fiori © Efrem Raimondi. All rights reserved. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Queste immagini sono state realizzate tra marzo 1992 e oggi.

Fotocamere: Toyo 45G con Rodenstock 180 mm, Hasselblad H3D II-39 con 80 mm, iPhone 4S.
Film: Polaroid 55, Agfapan 100, Ektachrome EPN 7058 svl. in C41.

Tulipano nero, no fotocamera: solo film + accendino Bic.
In una camera oscura che più scura non si può.

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Il mio gatto bianco.

Felipe by Efrem Raimondi - All Rights Reserved

    Felipe – Cap Ferrat 1998.

Felipe… il mio gatto bianco.
Con lui, con la sua complicità, ho imparato a fotografare i gatti.
E fotografandoli ho imparato anche molto altro su di loro.
Che mi è molto utile, ancora, quando fotografo i bipedi.
Pratica enormemente più semplice.
Se non altro perché usi la parola.
Se non altro perché una volta risolti i preliminari, più o meno sempre gli stessi, noiosi a volte, si tratta solo di scattare.
Insomma, visto che siamo qui per questo, diamoci. E c’è in qualche modo un’equivalenza dei ruoli al fine del risultato.
E l’unico risultato che contemplo è il coinvolgimento o l’estraneità.
Non considero i piani intermedi: o ci si dà o ci si nega, per me vale uguale.
Perché anche la negazione ha la sua forma.
Le robe a metà, quelle sì mi sanno di posato artefatto.

A volte è solo un dettaglio a fare la differenza. A volte un insieme indefinibile.
E tutto questo l’ho imparato soprattutto fotografando Felipe.
Che mi ha educato molto.
Questa è una storia sulle relazioni. Sull’importanza di mettersi in ascolto.
Usando tutti i piani a disposizione.
Con lui le parole non avevano significato… erano suono.
I movimenti, anche del sopracciglio, linguaggio esplicito.
I gatti non delegano alla sola coda la propria comunicazione, così come noi non rimandiamo alla sola parola. Che anzi a volte è strumentale.
Quand’ero con la fotocamera nei paraggi, mi osservava con attenzione.
E sapeva che da lì a un momento l’avrei mirato.
Ho sempre avuto la certezza che gli piacesse. Che in qualche modo lo recepisse come un nostro rito e un momento alto di relazione.
Perché come mi guardava in macchina Felipe, ne ho trovati pochi. In assoluto.
Senza appunto dover dire niente. E tutto il mondo altrove. Lontano da dov’eravamo.
Lui e io, stop.

Questo è fotografare: tutto condensato in quel minuto… in quell’ora… in quel giorno. Il racconto della tua vita.
Tutto o niente, in quel tempo che abbiamo. E che passa.
Puoi decidere di stare a guardare, svogliato.
O di impugnare ‘sta cazzo di macchina e respirare a pieni polmoni.
Che a volte fa male… fotografare non è una passeggiata. Mai, per come la intendo.
E un’immagine non vale l’altra.
La fotografia non è un accessorio, un modo per riempire il tempo o un quarto di pagina di una rivista. Chi la pratica lo sa bene. Chi la usa, non è detto.
E anzi a giudicare da ciò che si vede sui media a un euro e dintorni, c’è da credere che lo smarrimento regni sovrano. Va be’…

E poi e poi… gli estremi son sempre due.
Coi gatti, il bianco e il nero.
Traslando fotograficamente, una condizione che mi è congeniale.
Anche quando penso a colore, che se per caso mi arriva una eco b&w capisco che qualcosa non va.
Un po’ come fosse un parametro. Una matrice alla quale erroneamente deleghiamo la nostra parte nobile.
Probabilmente il peccato originale dal quale la fotografia dipende.

I gatti sono ossessionati dalla pulizia e Felipe al suo bianco ci teneva.
Con lui ho imparato che il bianco andava aperto: se l’esposimetro diceva x, io dovevo aprire di almeno mezzo diaframma. Pena una nota di grigio.
Ma questo vale anche per il nero… solo a chiudere però.
Perché il bianco e il nero sono un concetto. E quello che va restituito è l’idea che abbiamo di questi estremi. Anche quando la scala è colore.
Felipe ci teneva sì al suo bianco… doveva essere esattamente come lo pensava: assoluto.
Un impegno quotidiano al quale non è mai venuto meno, leccandosi con ostinazione militare quando non gli quadrava.
Non era un fatto oggettivo, era davvero la sua proiezione di bianco, cioè di sé.
Se sono stato il fotografo di qualcuno, è solo di Felipe.
Non dimenticherò mai il suo sguardo.

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Felipe by Efrem Raimondi - All Rights ReservedFelipe by Efrem Raimondi - All Rights ReservedFelipe by Efrem Raimondi - All Rights Reserved© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamere: Polaroid SX-70 e 690 SLR.

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INSTAGRAM

INSTA 10, marzo 2013 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Guardo il Web ma qui viro in una sola direzione.
I social network sono l’ambito di amplificazione di atteggiamenti individuali deteriorati che trovano finalmente traguardo sociale. E l’applauso.
Ci sono persino le claque. E neanche portate da casa… si autogenerano.
Questo riguarda tutti i social network che conosco e frequento: Facebook da un paio d’anni, Twitter dopo che Red Ronnie m’ha fatto una testa tanta in occasione della mia co-partecipazione a una puntata del suo meraviglioso Roxie Bar TV, per cui primo tweet il 13 febbraio complice Rossella Rasulo che mi ha istruito.
E adesso Instagram. Complice nessuno salvo un paio di dritte di Settimio Benedusi.
Non ho idea se ce la faccio. Sono molto franco, io non uso giri… mi sembra tutto un circo. Per fortuna gli animali siamo noi.
Almeno questo lo risparmiamo alle altre specie.
Finché si trattava del solo Facebook potevo reggere, anche perché io sono un punk di prima generazione… mi affeziono alle cose che capisco. Le altre le rifiuto. Di Twitter capisco poco, mi sembra un soliloquio. Più utile forse. Ma mi è emotivamente distante. Almeno per ora.
Instagram è invece faccenda molto seria. Non entro nel merito della menata dei diritti ecc. ecc… chi se ne frega, al momento.
Prima ero estraneo e non ci pensavo. Adesso ci penso eccome!
Perché sono un fotografo inattuale. Uno che dell’attualità non sa che farsene… non mi dice niente che io non veda. Mentre a me, in fotografia, interessa ciò che non si vede. E che per prendere forma e voce ha bisogno di me. Nel pieno delle mie facoltà.
Tante o poche che siano, purché mi riconosca.
Si dice che Instagram sia la Polaroid attuale. Non è vero.
In che cosa differisce da qualsiasi altra fotografia realizzata col cellulare? Nella sostanza in niente. Quindi anche qualsiasi altro sistema, organizzato o meno in forma social, potrebbe rivendicare l’attributo.
Instagram ha a che fare con la Polaroid solo perché è istantanea.
E usa una gabbia quadrata. Ma c’è chi si sta già lamentando.
Mentre però le pola si confrontavano con un istante dilatato e molto personale, le instagram click trovano ragione di vita nell’omologazione di un format immediatamente mediatico che ha raggiunto 100 milioni di utenze. Utenze…
In questo forse è davvero l’instant per eccellenza.
Su La Stampa.it del 28 febbraio leggo: Unisce la macchina fotografica e la camera oscura, illude ogni utente di essere il nuovo Henry Cartier-Bresson…
A parte l’illusione bressoniana e il rapporto con l’istante, che ci sarebbe da dire tanto ma non adesso, il tema della cosiddetta camera oscura è rilevante.
La serie di filtri che accompagnano l’applicazione sono ”la camera oscura”. A furia di parlare come conviene al marketing finisce che ci si crede. In realtà ‘sti filtri sono semplicemente degli applicativi di effetti. Che hanno lo scopo di rendere accattivante lo scatto originale. E qui siamo al punto.
Accattivante, cioè mediaticamente commestibile… che ammicca al gusto degli adepti. Questo ci permette di accumulare seguaci. Proprio così, seguaci.
Se questo è lo scopo nulla da dire. Se il riconoscimento mediatico è il fine, nulla da dire.
E ognuno faccia come preferisce o fervidamente crede.
In questi pochissimi giorni di praticantato mi son fatto un po’ di giri trasversali, quasi a caso, in varie bacheche… o gallery, o album, chiamatele come volete e salvo alcune immagini mi sembrava di essere finito in un fumetto, comics insomma. Sembrava di essere tornati indietro di un quinquennio, anche di più, tra saturazioni, desaturazioni, contrastoni, effettoni modello Photoshop Elements.
Roba un po’ vecchia a dire il vero… passata.
Poi ogni tanto appariva qualcosa che mi riconciliava.
Che mi ha fatto venire la voglia di esserci.
E che ha davvero a che fare con l’unica idea che ho di fotografia, che è indipendente dal mezzo che uso.
Quindi la sfida, poco remunerativa mediaticamente, mi affascina.
Non sono declinabile per Instagram.
Piaccia o meno, io Normal. Al massimo Inkwell.

Instagram Camera Oscura.

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Ci sei o ci fai

Mio padre e io, 1962 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Io faccio il fotografo. Se lo sono o meno non mi riguarda.
Sembra esserci una distinzione sottilissima, o addirittura zero… invece il solco è profondo.
E ampio, perché distingue un atteggiamento.
C’è chi fotografo si sente. E lo dichiara. Ma non lo è.
Produrre dei file non significa niente… non qualifica nessuno.
Non fa mestiere. Perché fare il fotografo ha anche a che fare col mestiere.
E non solo col gesto.
Ed anzi il gesto è tanto più incisivo quando non si limita all’episodio.
Il gesto in sé può anche essere grande ma se non ha supporto, non ha continuità espressiva, è isolato. E tale resta.
E questo vale anche se ci si appiccica l’etichetta Artista… che poi mica ho mai capito la differenza. Spesso anzi mi induce un sospetto.
California Dreamin’ è canzone immortale: sono cinquant’anni che scorrazza sulle frequenze radio di tutto il mondo.
Ma qualcuno ricorda cos’altro hanno inciso i Mamas and Papas?
Gli è andata di culo. Tutto qui. Forse in molti farebbero cambio… di gran culo, quindi.
Oliviero Toscani, mi sembra, poneva una domanda: ma fai o sei fotografo?
Sottintendendo che esserlo vale molto più che farlo. Sottintendendo che esserlo è in qualche modo attributo nobile, a differenza dei manovali della fotografia, quelli cioè che dichiarano semplicemente di farlo. E che in tal modo non fanno coincidere la propria intimità col proprio lavoro (quasi una parolaccia), che resta separato.
Mi pare recitasse più o meno così il salmo.
Io non riconosco il bivio. Non mi frega niente della distinzione.
E il livello di nobiltà lo misuro non attraverso un titolo o una dichiarazione d’intenti ma per ciò che vedo. Sia della persona che del prodotto.
In quest’epoca zeppa d’immagini simili a pallottole a salve, cos’è che davvero va a segno?Cos’è che si può fare? In che modo un’immagine, basta vederla, si dichiara tua?
L’altra sera, presentando (ancora, sorry…) TABULARASA, il libro su Vasco Rossi, Toni Thorimbert rispondeva a una domanda (cazzo mi ha anticipato! ma io coincido) dicendo ”Io faccio sempre la stessa foto”.
Questa è la differenza. Questo è ciò che pensa e produce chi fa il fotografo. E che non si preoccupa di trend e di posizionamento, e comunque mai a scapito della fotografia che gli appartiene.
Che è una perché ha a che fare con una matrice facilmente individuabile: te stesso. E qui sì che le cose coincidono.
Perciò se fotografi, fotografa! Non interroghiamoci continuamente sul senso di ciò che facciamo, fotogramma per fotogramma: il linguaggio si misura su una frequenza più lunga e ampia della singola immagine.
Se fai lo scrittore, scrivi! Non puoi su ogni riga impiantarti alla ricerca di qualcosa che non trovi. O che ti pare migliorabile. Alla fine si vedrà. E si vede sempre.
Facendo il fotografo e non preoccupandomi dei quarti di nobiltà, non trovo di per sé distintiva neanche la rivista per la quale lavoro, o il cliente in genere: quello che mi frega davvero è che le immagini vengano rispettate. Che non subiscano traumi tali da renderle innocue… scariche… a salve insomma.
Come avere sempre un bel muro bianco davanti, al quale attaccare il proprio racconto.

Romano Ragazzi, 1985 © All rights reserved.

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Appunti per un viaggio che non ricordo. Part II

Seconda parte di Appunti per un viaggio che non ricordo.
Il trip è lo stesso di Part 1. Quindi allucinazione e intangibilità spalmate su tutto il percorso.
Il periodo è solo un po’ più compresso: 1995-2002.
Perché non è vero come ho scritto non ricordo dove, che il 2000 è l’anno in cui ho riposto Polaroid… mi sono accorto essere il 2002.
To be continued? Non con questa emulsione. Morta… per me una vera sofferenza.
Ma siccome l’idea di riprendere il viaggio a dieci anni di distanza mi affascina, qualcosa, qualche strumento o supporto che supplisca lo troverò.
Basta che me ne convinca… che insomma allucinazione e intangibilità abbiano ancora un valore attuale. Per me.
Credo che tutto intorno deponga a favore.
Perché il concetto di verità istantanea espresso con la complicità di una miriade di mezzi non mi riguarda.
Salvo qualche momentanea emozione, mi fa schifo.

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Link YOU TUBE:  http://www.youtube.com/watch?v=UOgdlLbJlWw

TABULARASA – Vasco Rossi

Vasco Zone

Vuoi venire con me in America?
Era Tania Sachs al telefono… ottobre 2000. Credevo fosse uno scherzo. Ho riattaccato. Non sapevo che fosse la responsabile della comunicazione di Vasco Rossi. E che non stava scherzando per niente. Così è iniziata per me questa fantastica e complessa scorribanda iconografica nella Vasco ZONE. Non complicata… complessa. Perché fotografare Vasco non è facile. Innanzitutto sono dovuto partire per Los Angeles, io che non amo viaggiare se non in macchina… passi anche il treno se ho poco bagaglio. Finalmente posso parlare di Vasco Rossi! Era ora… ci voleva TABULARASA. Altrove l’avevo già fatto. Qui mai. Per pudore forse. Nei miei confronti… questo blog non ha un anno e come fai a parlare di Vasco se non hai ancora un anno?!
Ma adesso sono legittimato. Adesso carta canta!
Fatto a quattr’occhi (servono sempre entrambi, anche se il mirino della fotocamera ne ospita uno) con Toni Thorimbert.
Lo diciamo anche nella Prefazione, una convergenza rara. Un’esperienza, questa, che mi ha dimostrato che lavorare a un progetto comune è possibile. E adesso direi auspicabile…

Ph. Giorgio Serinelli, c/o Studio Thorimbert

Di questa avventura editoriale devo ringraziare soprattutto Toni: l’intuizione è stata sua. Ma qui non ci si nasconde. Entrambi conoscevamo le reciproche immagini about Vasco. Mica tutte. Ma le più note sì. Poi io posto su FB (chi dice che serve a un cazzo?!) una immagine, quella che chiude il libro e che avevo realizzato un mese prima. Con un Vasco visibilmente provato.  Dentro però c’è tutto il mio affetto per quest’uomo.
Che insomma, qualche giro insieme s’è fatto e qualcosa vorrà dire. Toni vede ‘sto post e pronti via mi scrive. Ci vediamo. Lui aveva la sua maquette pronta per la stampa, volendo. Io la mia. Che stava lì da un po’. Ferma in attesa di qualcosa.  Allora non sapevo di cosa. E io credo poco alla casualità dei frangenti… Mentre sfoglio la sua mi rendo immediatamente conto che la mia è monca. Cioè, intendiamoci, non era male… se passassi il tempo a guardarmi l’ombelico avrei potuto anche credere che fosse una grande storia. E chiusa lì. Ma non era così: era monca! Prima di novembre 2000, Los Angeles, non avevo niente! Manco un autografo… Vasco lo ascoltavo e basta. Vinile prima, cd poi. E questo vuoto non era però un semplice fatto cronologico, fosse stato così me ne sarei rimasto dov’ero col mio pacchetto di foto sottobraccio… no, le immagini che sfogliavo raccontavano un periodo in un modo che condividevo totalmente. Anche emotivamente.
C’è sempre un prima e un dopo. E il dopo è TABULARASA. Così il prima non aveva più lo stesso senso. Questo per me.
Qualche numero magari aiuta a capire: 27 anni di viaggio, dall’85 a oggi per quasi 200 immagini  (sequenze e dittici valgono una).
All’inizio erano quasi 400… troppe: Stefania Molteni, photo editor, ci ha messo del suo e ha contribuito a dare un ordine. Stampata al volo la nuova maquette siamo andati da Gabriella Ungarelli, Mondadori. Che ha gradito.
Tralascio i passaggi intermedi, chi se ne frega. Ora, se sfoglio questo libro mi ritornano forti certe emozioni. E una bella quantità di aneddoti, uno per ogni immagine forse. Certamente per ogni shooting e per il contorno che comporta: mica si passa tutto il tempo a cliccare!
E posso aggiungere persino di essermi fatto delle sane risate in sua compagnia. Perché Vasco è anche allegro (cinicamente allegro): non ostinatamente attaccato alla sua icona… sa scendere dal palco. A differenza di altri. Che tra l’altro il palco, quel palco, l’hanno solo visto da lontano. Un luogo speciale, e non c’è niente come starci sopra e puntare l’obiettivo sul Popolo di Vasco: meravigliose facce da randa!

Imola, 16 giugno 2001. Da TABULARASA.

Lo chiarisco a scanso di equivoci: io provengo da lì. E in quelle facce, in quella eterogeneità mi riconosco. Qualcuno di loro forse ricorderà l’instant book Intorno a Vasco, edito dalla EMI in occasione della mostra omonima che feci alla Galleria Grazia Neri, a Milano nell’aprile 2001: una sorta di diario del mio primo viaggio con Vasco a Los Angeles. Alcune di quelle fotografie sono ancora qui, in TABULARASA. Certe immagini ti accompagnano sempre. Alcune accompagnano più persone. Anche tra loro estranee. È la fotografia. Quella roba che ha la capacità di trascendere il tempo e la sua precarietà. Che regala souvenir diversi. Come certe canzoni.
Vuoi venire con me in America?
Meno male che Tania ha richiamato.

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Negativo cover Rolling Stone aprile 2004. © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nel libro, che non è di ma su Vasco Rossi, compaiono diverse persone del suo staff con le quali nel corso di questi anni ho chiacchierato, discusso, cenato, girovagato, lavorato e anche cazzeggiato… e che qui voglio ringraziare: Floriano Fini, Guido Elmi, Danilo ”Roccia” D’Alessandro, Massimiliano ”Macho” Barbieri.
Anche Swan, regista dei live e di alcuni videoclip, col quale ho collaborato ai tempi di Siamo soli.
E Massimo Poggini, insieme in giro per Los Angeles nel 2008, pubblicando poi per Max il libro Vasco Rossi, una vita spericolata.
Grazie anche a Gabriella Ungarelli, Marta Treves, Chiara Oriani, Donata Sorrentino.
A Giacomo Callo e Marina Pezzotta che hanno realizzato la copertina… insomma un grazie a tutta la redazione Mondadori.

Tania Sachs la ringrazio in modo particolare, a lei penso come a una amica.

Le tre Cover.

Ringrazio anche le/gli assistenti che si sono alternati in questi dodici anni di collaborazione vaschiana… in primo luogo Fabio Zaccaro con me a Los Angeles la prima volta. Poi, in ordine seguendo l’impaginato di Tabularasa: ancora Fabio (Roma 2004 – Cattolica 2001), Letizia Ragno (Roma 2004 – Bologna 2009 – Pieve di Cento 2003 ), Nicole Marnati (Sinai e Sharm El Sheik 2004 – Bologna 2004), Emanuela Balbini (Bologna 2009), Giulia Diegoli (Bologna 2012).

A Los Angeles nel 2008 e in altri luoghi, senza assistenti. Spesso con una semplice compatta, che è stata motivo di ironia da parte di Floriano Fini e dello stesso Vasco. Però eravamo tutti più leggeri. E ci si poteva persino permettere di “scambiarci” le foto. Non ne ho neanche una con Vasco… incredibile! Però ho questa sotto.

Giugno 2008, Hotel Melià, Milano © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Mai capito perché in questo paese ci siano delle remore a dichiarare il prezzo di un prodotto: TABULARASA costa € 25,00. Per tipologia e qualità di stampa appartiene a una fascia di costo decisamente maggiore. La scelta è dell’Editore, condivisa da Toni e da me. Brossura con alette, formato 25,4 x 18 cm. Pagine 252. In libreria dal 5 dicembre.

Presentazione: 17 dicembre – h. 18,30.
Libreria Mondadori, via Marghera 28, Milano.
Introduce Giovanna Calvenzi. 

                    

Appunti per un viaggio che non ricordo.

Appunti per un viaggio che non ricordo.
Un lavoro sull’allucinazione e l’intangibilità. Alcune già pubblicate nell’articolo ABOUT POLA  https://blog.efremraimondi.it/?p=1323
Finito per mancanza di Polaroid. E non si dica che quello che si vede in giro è la stessa cosa.
A me non pare. Spero di essere confutato al più presto. E potere riprendere il discorso.
Se no lo riprendo con qualcos’altro.

L I N K    Y O U T U B E :

http://www.youtube.com/watch?v=IzHUnw26fXA

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