Carcere

Efrem Raimondi iPhonephotography.

                                                                                       Specchio a margine, 2015  © E.R.

 

Nulla succede per caso.
Ma per accorgersi che qualcosa sta succedendo, occorre essere curiosi e sapere ascoltare. Con tutti i sensi.
La fotografia, farla davvero, non impegna la sola vista.
E questo vale per tutti. Perché appunto, nulla è casuale.
Semmai causale.

Durante il mio workshop alla Fondazione Fotografia Modena, chiacchierando con Nicola Petrara, lì partecipe, viene fuori che ha fatto un lungo lavoro in un carcere di massima sicurezza.
Massima sicurezza… dove molti oggetti di uso quotidiano vengono negati.
Come lo specchio.
Non ci si pensa… ma se d’emblée ci venisse precluso, lo specchio intendo, che sarebbe della nostra faccia?
Quale la nostra identità?
Lavoreremmo sulla memoria?
Stai in carcere due, cinque, vent’anni… poi ne riparliamo.
Non c’entra con nessuna valutazione morale né con la pena che stai scontando: è l’idea insopportabile della propria immagine negata.
E di un riscontro impossibile: come avere la faccia da un’altra parte.

Per cui quando Nicola entrava in carcere era altro che ben accetto, di più!
Perché il monitor della sua digitale diventava il luogo di restituzione dell’identità. E il tempo finalmente tornava a coincidere.
Questa la molla che ha scaturito questo articolo – mi son rotto le balle di dire post… quelli, oggi, li fanno i newsmagazine.
E così ho coinvolto prima Giovanni Mereghetti, collega che conosco e stimo, e poi suo figlio Hermes.
Perché entrambi hanno fatto un lavoro sul carcere.

Questo è quanto. Buona visione.

© Efrem Raimondi. All rights reserved

 

Giovanni Mereghetti
Casa di reclusione di Milano-Bollate. Ottobre 2012 – Febbraio 2015.

Da sempre mi occupo di problematiche sociali e soprattutto della gente di “serie B”. Fotografare in un carcere significa andare oltre i margini del vivere comune. Entrare in contatto con persone che siamo abituati a vedere in modo diverso. Conoscere le loro storie, cercare di capire le loro vite. E poi fotografarle senza “rubare nulla”. Alla fine una stretta di mano. E un sorriso.

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N O T E


Hermes Mereghetti
Casa di reclusione di Milano-Bollate. Marzo – Luglio 2015.

Sulla scorta del mio precedente lavoro fatto in studio su persone amiche e conoscenti, ho voluto approfondire la mia ricerca interiore dell’individuo attraverso la particolarità dei detenuti di un carcere. E’ stato importante lavorare in simbiosi con i soggetti, i quali, oltre che posare, hanno suggerito loro stessi un aggettivo che in qualche modo li rappresentasse.

© Hermes Mereghetti. All Rights Reservedv e n d i c a t i v o

 

© Hermes Mereghetti. All Rights Reserveds c h i e t t o

 

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p e r m a l o s o

 

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f i d u c i o s o

 

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s i m p a t i c o

 

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g e n e r o s o

 

© Hermes Mereghetti. All Rights Reservedo n e s t o

 

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c a l c o l a t o r e

 

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d i f f i d e n t e

 

© Hermes Mereghetti. All Rights Reserved
t i m i d o

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N O T E


Nicola Petrara
Casa Circondariale di Trani (Bari). Reparto Massima Sicurezza.
Istituto Penitenziario Spinazzola (Bari). Detenuti Sex Offenders  – chiuso nel 2011.


Le immagini sono state realizzate durante due progetti distinti, nel 2008 e poi nel 2009.

La spinta iniziale è arrivata dalla curiosità di entrare in contatto con un mondo a me sconosciuto. La fotografia spesso ha questa funzione di “chiave”.
Ho accettato volentieri l’invito di due miei amici a documentare il loro progetto su base teatrale.

© Nicola Petrara. All Rights Reserved

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N O T E

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55 thoughts on “Carcere

  1. Buonasera signor Raimondi, un amico mi ha consigliato di dare un’occhiata al suo blog e devo dire che è stato un ottimo consiglio.
    Ho letto alcuni suoi articoli e li trovo molto interessanti oltre che trovare belle foto. Questo in particolare mi ha “rapita”, incuriosito e l’ho riletto più volte.
    Non mi soffermo sul reportage in carcere, non ho la conoscenza di quella realtà e non sono abituata a dare giudizi, la mia riflessione è solo sulle sue parole, sull’identità negata.
    Due i pensieri che ho elaborato:
    il primo a livello sociale, in un mondo in cui tutto è apparire, dove sembra esser più importante come si è e non cosa e chi si è, negare l’identità è un’aberrazione. Lavoro spesso a contatto con le persone, sono una costumista, lo specchio è un pezzo d’arredo importante del mio laboratorio, l’attore indossa il costume e la prima cosa che chiede è quella di potersi vedere e ciò che noto spesso è che non guarda l’abito ma si guarda il volto…….ricerca se stesso, la parte narcisa, poi vede il costume. Questo succede ogni giorno, amo osservare la gente per strada e cosa frequentissima è vedere le persone, di qualsiasi età, sesso esse siano, che si specchiano mentre passano davanti alle vetrine: contemporanei narcisi che si cercano per affermare a se stessi che esistono nel caos della città o semplice gesto dato dalla ricerca di perfezione dettata dai media?
    L’altra riflessione è più intimista. Lo specchio ridà a noi l’immagine della realtà, di ciò che il tempo lascia sulla nostra pelle e il negare di poterci specchiare è negare che esistiamo. Certo, anche senza uno specchio so di vivere ma perderei il contatto con il passaggio della vita, dopo un po’, probabilmente, sarei solo un ricordo di me stessa, dell’ultima volta che mi sono specchiata. Quando studiavo percezione visiva, il mio professore, per descrivere i quadri di Caravaggio parlava di “Rappresentazione mentale” riferendosi al fatto che le parti in ombra delle opere caravaggesche la mente le ricostruisce, senza uno specchio farei lo stesso, andrei a ricostruire il mio volto mentalmente, sarei la rappresentazione mentale di me stessa. Ma poi, se passa molto tempo, anche la memoria potrebbe tradirmi e dopo? Non esisterei più per il semplice fatto che non ricordo il mio volto?
    L’identità di una persona è cosa molto complessa e composta da più parti, il volto resta comunque la parte visibile di ciò che siamo, è ciò in cui ci identifichiamo, è la nostra unicità visiva a noi stessi e agli altri oltre che il passaggio del tempo con tutti i suoi cambiamenti e, metaforicamente, abbiamo la necessità di specchiarci per sapere di esistere, per sapere di esser qui ora portando con noi la nostra faccia non il ricordo di essa.
    Chiedo scusa per il mio dilungarmi ma è argomento molto interessante e ho letto con piacere anche le opinioni a riguardo delle persone che le hanno scritto.
    Le foto presentate sono veramente molto belle esteticamente parlando ma soprattutto mi hanno dato il volto di chi non vuol esser dimenticato.
    Seguirò con molto piacere il suo blog per le opere che presenta e per l’umanità con cui esprime ciò che pensa.
    Manuela

    • Manuela la ringrazio. il motivo che ha scatenato questo articolo sul carcere è proprio la negazione della propria immagine… non ci avevo mai pensato. non avevo mai pensato che una fotocamera potesse diventare strumento di riappropriazione della propria faccia – intendo nel modo descritto.
      e mi fa molto piacere che le immagini dei tre autori le piacciano molto: è un reportage che va oltre secondo me.
      la ringrazio ancora per l’analisi e la cortesia.

  2. Cara Vilma, e cari tutti…
    fare fotografia sociale significa riuscire a non farsi coinvolgere dalle situazioni.
    Trovarsi davanti a un bambino morente o di fronte ad una situazione di forte coinvolgimento emotivo e iniziare a “tremare”, porta alla distrazione. Bisogna imparare a conoscere le storie, perché se non le conosci non puoi rappresentarle al meglio. Ma bisogna anche imparare ad essere freddi, soprattutto nel momento dello scatto. Il mondo attorno deve scomparire. Ci sei tu e il soggetto, nient’altro. Poi riapri gli occhi e ti guardi attorno, ma solo dopo l’istante della rappresentazione fotografica. E ricominci a vivere.
    Fare questo mestiere significa che oggi sei con i malati di Alzheimer, domani sei in un carcere, la prossima settimana sei nel Sahel per documentare la siccità, e poi magari in un campo profughi ai confini con la Siria. Non puoi, e non vuoi farti “prendere” da tutto, altrimenti sarebbe un disastro.
    E’ anche vero però, che capita di lasciarci il cuore. Ma questa è un’altra storia e ve la racconto un’altra volta.

    Ps a volte capita di non essere all’altezza. Ma in questo caso abbassi la fotocamera. Non fai la foto sfuocata.

  3. Efrem –
    punk come una sorta di controcultura, come antagonista alla banalizzazione dei valori e alla rigidità delle categorizzazioni, come forza motrice della storia anche dell’arte (penso al dadaismo, al surrealismo e anche alla pop art), punk inteso come categoria dello spirito che travalica luoghi e tempi……. allora sì, forse un po’ punk lo sono sempre stata.

  4. Giovanni, non mi permetterei mai di mettere in dubbio la tua buona fede, la tua sincerità e la pace della tua coscienza, né io volevo fare un discorso ad personam né una critica al suo lavoro.
    Volevo però dire che è difficile (o impossibile) e utopistico sezionare le sensazioni, distinguere un uomo privato della libertà da un delinquente se sono la stessa persona. Siamo tutti delle ‘esseità’ complesse e inscindibili, sia per chi guarda quelle foto, che non può non essere influenzato dal fatto che ritraggono una realtà carceraria, che per chi le scatta, e infatti alla fine del tuo preambolo sei proprio tu (e prima di te Verri, Beccaria e qualche altro) a entrare nel merito, prendere posizione e dare il giudizio più forte: “Punire un colpevole di reato non serve a nulla. Tempo e soldi buttati al vento ecc…..”
    Una riflessione maturata mentre fotografavi quei “delinquenti” privati della libertà, denunciando un coinvolgimento emotivo del tutto personale ed inevitabile, perché noi uomini non possiamo smettere di pensare, né di provare emozioni, né, in molti casi, di giudicare.

    E, già che ci siamo, Jim era l’uomo che era anche perché era drogato, impossibile separare le due cose………

  5. Jim Morrison diceva che la vera poesia (o fotografia nel nostro caso) non dice niente, elenca solo delle possibilità. Apre tutte le porte. E voi potete passare per quella che preferite.

    So già che qualcuno dirà che era “uno” che si faceva di lsd.
    Peccato, sono nato troppo tardi.
    Mi sarebbe piaciuto fotografare Jim come uomo. E non da drogato.

  6. Cara Vilma, ribadisco, la mia mente non hai mai fotografato il delinquente, bensì l’uomo privato della libertà. Poi ognuno è libero di credermi o no. Per me è importante essere in pace con la coscienza. Poi sa come è la fotografia… è sempre discutibile.
    Cartier-Bresson dice bene, “Le immagini non hanno bisogno di parole, di un testo che le spieghi, sono mute, perché devono parlare al cuore e agli occhi”.
    Dipende però da che cuore hanno le persone che le guardano.

  7. Non ci sono regole etiche della rappresentazione specie se si parla di fotografia, la grande bugiarda!
    Tuttavia credo che non ci si possa nascondere dietro la supposta neutralità etica della tecnologia, la quale per sua stessa natura non si pone censure o problemi morali non avendo un suo valore intrinseco ed un senso proprio, ma acquistando significato solo se/quando usata dall’uomo.
    E questo è il punto debole del ragionamento, l’uomo/fotografo, che quasi sempre si chiama fuori, lei Giovanni scrive “La mia mente non ho mai fotografato il delinquente, bensì la persona privata della libertà”. Ma la ragione della privazione, il fatto di delinquere, e l’ambiente carcerario, non possono non influenzare l’approccio psicologico dell’osservatore e solleticare qualche naturale pensiero ideologico e giustizialista.
    Forse ha ragione Cartier-Bresson quando dice “Le immagini non hanno bisogno di parole, di un testo che le spieghi, sono mute, perché devono parlare al cuore e agli occhi”.

  8. Alla luce di quanto letto nei vari post, mi permetto di esprimere una mia modesta riflessione.

    Il carcere è un mondo immaginario, per chi non lo conosce. Probabilmente nessuno lo conosce fino in fondo, neppure i detenuti stessi. E’ il luogo “forzato” dove stanno i malandrini, i ladri, i venditori di morte, i criminali. A volte pure gli innocenti.
    La “galera” però, è anche il luogo dove l’individuo che ha sbagliato e sta scontando una pena, dovrebbe essere portato alla riflessione. Purtroppo non sempre questo processo interiore si attiva e accade. Capita spesso che, una volta varcato il muro, dopo aver pagato il proprio conto con la giustizia, spesso si riscivola sulla lastra ghiacciata della vita. E si cade di nuovo.
    Entrare in un carcere per realizzare un servizio fotografico può significare tante cose. Sono molte le impronte che si possono lasciare nel lavoro finale. Si possono raccontare storie legate al reato, oppure raccontare la vita di un detenuto specifico. Documentare il quotidiano “oltre il muro” o ancora, semplicemente, denunciare qualcosa.
    Personalmente non ho fatto nulla di tutto questo. Ciò che mi interessava fotografare non era tanto l’uomo inteso come colpevole o il detenuto che sta scontando una pena. Personalmente mi interessava raccontare l’essere umano privato della sua libertà.
    Quindi, il quotidiano di una persona che in qualche modo cerca di fronteggiare una reclusione carceraria imposta da terzi.
    Durante questo mio lavoro mi sono sempre posto al soggetto cercando di eliminare ogni tipo di pregiudizio e barriera. La mia mente non ho mai fotografato il delinquente, bensì la persona privata della libertà. Giustamente o ingiustamente, questo non sta a me dirlo.
    Ho impiegato quasi tre anni per capire un pizzico di quel mondo e abituarmi all’aria che si respira oltre un muro di cemento armato. Il coinvolgimento è stato totale. Ciò che ho fissato in un file visivo attraverso lo scatto fotografico, è solo un piccolo frammento dell’esperienza vissuta.
    Punire un colpevole di reato non serve a nulla. Tempo e soldi buttati al vento. Ciò che serve invece, secondo me, è un’adeguata rieducazione dell’individuo.

  9. Al solito la lettura del tuo blog lascia sempre il segno, che le fotografie siano tue o no si vede tanta, tanta buona fotografia! Densissime queste foto, c’è tanta testa dietro questi lavori e si vede, direi in maniera abbastanza incisiva pure! Ciao

  10. Giuseppe Pagano, grazie dell’occasione per potermi spiegare meglio.

    L’intervista a Morcellini mi è sembrata pertinente all’argomento, per lo meno a quello che per me era il focus dell’argomento, specie in questo illuminante passaggio: “Sappiamo che tra chi studia un fenomeno, come ad esempio il crimine e chi lo fa, si creano dei contagi. Il fenomeno è soprattutto noto tra gli psicanalisti e le loro “vittime”. C’è un primo problema che dobbiamo denunciare in questi termini: qualche volta il piacere della narrazione, l’amore per il formato, l’amore per la comunicazione (come se fosse un’astratta regola di effetti speciali), finisce per non far apparire delle distanze etiche e valoriali tra chi mette in scena un programma e i suoi protagonisti [……] dal punto di vista della restituzione della verità storica, per capire una realtà, è necessario approfondirla. Per approfondirla, qualche volta, la si deve abbracciare. Si può capire che la narrazione finisca per essere un privilegio dato al protagonista della narrazione e quindi c’è anche il rischio che il criminale finisca per uscire dalla vicenda come un Santo.”
    In realtà lei ha ragione, i reportages non santificano nessuno, espongono, come lei osserva, “né eroi né modelli: ma solo visi di uomini e sofferenza.”
    Espongono, appunto.
    Resta però in piedi la mia osservazione di partenza: perché sembra scontato che l’attenzione dei reporter verta sugli autori del crimine e non sulle loro vittime (M. le definisce quelli che “hanno sofferto a questi drammatici scippi alla vita”)?
    Detto in soldoni, perché a nessun fotografo è venuto in mente di passare una giornata con una delle vittime e fotografare la sua fatica di vivere dopo la tragedia provocata dai ‘protagonisti’ autori dell’azione criminosa?
    In verità, è questa “una realtà che raramente viene portata alla luce.”!
    Si è scelto senza esitazione di raccontare la storia (ogni fotografia è un racconto non verbale) da un unico punto di vista, quello del colpevole, mettendo in atto quello che M. intende per “privilegio dato al protagonista della narrazione”.
    Il tema su cui discutere non sono le fotografie, è la scelta a monte, una scelta eminentemente letteraria, culturale e non certo morale, dettata dal fatto che il male possiede un alto tasso di spettacolarizzazione.
    Ancora M. nella stessa intervista: “Se si mette un soggetto al centro di narrazione, anche se lui è un deviante e un delinquente, in qualche modo lui può contare su una rendita di posizione. In generale esiste un problema etico che le professioni comunicative dovrebbero porsi: stare attenti a chi si sceglie come “eroe”. Se è vero che bisogna fare attenzione, un criminale, che è il protagonista principale di una vicenda, rischia di essere “eroe”. Questo ce lo insegna Propp e le favole dei bambini: una lezione che è incredibilmente attuale anche oggi. Se volete capire bene la cronaca nera, basta studiarsi quello che dice Propp sulla favola.”
    E’ chiaro a questo punto che parliamo di modello narrativo, infatti si cita il meccanismo della favola, e non di giudizio etico, non a caso la parola ‘eroe’ è virgolettata, anche se non tutti hanno correttamente capito il suo significato contestuale (forse perché non hanno letto l’intervista per intero!).

    Comunque non era mia intenzione dare giudizi morali né sui carcerati né sui reporter, mi interessava solo capire cosa c’è alla base di certi meccanismi comunicazionali, visivi e non.
    Magari provocando un po’.

    Efrem, mi merito un daspo che mi tenga fuori per qualche tempo dal tuo blog?

  11. Non sono polemica e sono pacata: mi sembra tutto giustificato dal testo. Senza, queste fotografie sarebbero scontate e quasi banali. Ma anche il testo insomma è quello che è. Non condivido questo entusiasmo generale. Però sembra che qualsiasi cosa faccia Efrem Raimondi ha un valore. Qualcosa sì e mi piace: ma tutti questi applausi ingiustificati per un “articolo” come questo è ridicolo.
    Sarò pubblicata?

  12. Mi ero perso il post notturno di Vilma. A cui rispondo.
    Vilma lei scrive molto bene, probabilmente è una letterata. Io non ho avuto la fortuna di studiare oltre la maturità e faccio molta fatica a seguila nei suoi discorsi. Attenzione, non perchè lei sia contorta o altro, semplicemente mi assuno la mia ignoranza in materia letterraria. Ma detto ciò, io sto con la gente comune, quella che incontro tutti i giorni in treno mentre mi reco in ufficio. La gente comune ha bisogno di cose semplici e dirette, altrimenti non capirebbero nulla. E’ un po’ come quando i nostri politici fanno i loro discorsi, dicono un sacco di cose e poi alla fine quando chiudi il cerchio non si capisce un emerito cazzo. Sono per la semplicità delle cose, foto chiare e dirette, testo pure. Senza troppi paroloni o citazioni varie che poi queste gente che blablabla li conoscono solo i blablatori come loro. Giusto per identificarmi, io sto nel mezzo, tra una velina e Umberto Eco :-).
    PS ho recepito che lei è de coccio, io no però. E le auguro un sereno weekend

    • Gianluca – dico una roba sola… la semplicità, quella vera, è un fatto complesso. non complicato, complesso. non a caso è la cosa più difficile da raggiungere. e esprimere.
      e in questo credo che vilma non poteva essere più puntuale. non è una difesa d’ufficio nei confronti di una persona che stimo per ciò che è e per ciò che produce sulla sua rivista Artonweb… e che certo non ha bisogno di me.
      è che certe cose, certe riflessioni, non possono essere fatte che in un certo modo.
      poi, vero, esiste anche la gente comune. solo che sta diventando sempre più una giustificazione sociologica astratta: cos’è la gente comune? cosa rappresenta davvero? temo, e lo dico col massimo rispetto, che così facendo si rischi di usare le stesse categorie, demagogiche, sfruttate da certa politica.

      mi piace molto che tu abbia intercettato questo articolo. e che queste fotografie ti stimolino. a volte non sappiamo bene neanche il perché però certe cose ci smuovono.
      e non necessariamente di reportage.
      il passaggio successivo, che riguarda tutti noi, è quello di collocarle in un ambito più ampio. al quale forse, alcune, davvero appartengono.
      a margine… che tu sia tra una velina e eco mi diverte molto. non ho una visione chiara di quale soggetto sia. però mi diverte molto

  13. Ciao Efrem, ho fatto casino nel postare e mi si è cancellato tutto. Riscrivo….
    dicevo che purtroppo sulla carta stampata non si vede più nulla di questo genere. Le uniche cose che si vedono sono le fighette dei calciatori, la Barba ad’Urso (che non se può più), le pisciate dei politici e stronzate del genere. capita di vedere raramente qualche servizio seminteressante, ma balza subito all’occhio la superficialità con cui gli autori hanno affrontato il tema. Tre foto fatte di corsa in dieci minuti, ed ecco fatto il servizio.Dicevo nel post che inavvertitamente ho cancellato, non so se vai dal parrucchiere a tagliarti i capelli, dal mio sulla consolle dove ci sono i divanetti per l’attesa, ci sono le riviste, nello specifico i magazine di repubblica (il venerdì), del corriere (credo sia sette) e poi tutta quella robaccia tipo gioia, grazia, io donna e similari. Tu li apri e ti cadono i coglioni, non c’è un servizio in grazia di dio. E allora che fai? Nulla, ti butti sullo smartphone a messaggiare e a scrivere cagate. Sì, perchè è questo che vogliono farci fare, le stronzate che non portano a nulla. Tenerci nell’ignoranza per comodità. E sai perchè? Perchè il popolo ignorante non si ribella, anzi se gli propini le partite a pagamento sui vari canali tipo premium o altro, questi lo comprano, perchè non gli è rimasto nulla. Poi c’è chi va in libreria, ma pochi, molto pochi. Dai basta polemiche altrimenti poi si scatena il putiferio. Chiudo rinnovando i miei complimenti a te in primis per la volontà, il coraggio, l’intelligenza per come affronti questo blog e la vita. E poi non dimentichiamo i complimenti ai tre autori: Nicola, Hermes e Giovanni. Bravi davvero, grandi, senza di loro certe emozioni non esisterebbero. Continua Efrem, continua così. Pubblica quello che i giornali non ci fanno vedere, o ci fanno vedere come vogliono loro con realtà distorte. Grazie di cuore per avermi sopportato nei miei sfoghi.

    • Gianluca – finché posso il mio blog continua. di reportage mi occupo poco come credo tu sappia. però mi piace pensare che questo è un luogo dove la Fotografia, tutta purché appunto maiuscola, trova spazio. mica ci azzecco sempre, però ci provo. con la mia e con quella che mi è affine. e questo lavoro lo è affine. eccome.

  14. Se esiste, ovvio che si, la causalità non vedo come potere negare che l’intrecciarsi di cause può determinare imprevedibilità. Che poi la si respinga è un’ altra storia.

  15. Gianluca, o io sono di coccio e non la capisco, o lei ha letto altri commenti e non sta rispondendo a me.
    Sulla citazione di Morcellini è chiaro che le sfugge il contesto in cui è stata da lui espressa, mi viene contestato l’uso della parola ‘criminali’ attribuita a persone ritratte in un carcere di massima sicurezza, mi contesta il fatto di non conoscere queste persone, di per sé irrilevante visto che ci sono dei giudici che le conoscono meglio di me e che hanno stabilito essere dei criminali, non ho mai detto che l’autore si è inventato le didascalie, né ho mai detto che qualcuno degli autori abbia esagerato (in che senso, poi?), né ho affermato che la gente non vuol vedere queste cose, in realtà riferivo una sua affermazione “Basta con le notizie dei gossip, delle veline, dei calciatori. Questo è quello che la gente vuole leggere e vedere.” L’incomunicabilità è totale.

    Comunque il senso del post di Efrem era un altro, salta tutti i moralismi, la psicologia, la psicanalisi, la fisica, la neurologia, il tema del doppio, la metafora di Perseo o il mito di Narciso e tutti i convenevoli relativi alla consapevolezza della propria identità fisica: basta la mancanza di un comune specchio, come quello che ognuno di noi ha sopra il lavabo, preso “nella sua stupidità di specchio da lavabo” , così scrive Umberto Eco, per destabilizzare la percezione dell’io e concentrare tutta la tragedia della condanna in quella piccola, insignificante mancanza e nella consapevolezza di poter guardare il mondo e non poter guardare sé stessi.

    • vilma – in effetti questo articolo parte proprio dallo specchio. dalla sua sottrazione. e come un semplice display di una digitale possa restituire il tempo nella sua attualità.
      son sempre le cose apparentemente marginali che mi colpiscono…

  16. Eccole Efrem, terz’ultimo blocco: (io le ho espresse in modo diverso, am il concetto quello è)

    Mi sconcerta la sua chiusa, categorica e quasi messianica: “Questo è quello che la gente vuole leggere e vedere”. Non so come/cosa commentare.

    Infatti, è giusto quello che scrivi. E’ un genere di fotografia che va oltre la fotografia. In questi lavori, prima di essere fotografi bisogna essere uomini con una certa sensibilità. Non so, riflettendo mi vien da pensare che poi in fondo in fondo, questi fotografi hanno utilizzato la fotografia per raccontare un loro sentimento. Ma andava bene anche la pittura, un semplice disegno o altro. L’importante era raccontare ciò che i loro occhi hanno visto, ma soprattutto ciò che il loro cuore ha sentito. Complimenti a tutti gli autori. E anche a te Efrem, davvero lodevole e coraggioso questo post che hai scelto.

    • Gianluca – be’ insomma… il concetto mi sembra diverso. quello di vilma intendo.

      ti ringrazio per l’apprezzamento, ma davvero lo trovi così coraggioso questo articolo? non è una domanda ironica… a me sembra assolutamente nella norma. almeno se al centro si mette la fotografia. non sei l’unico ad averlo detto… però, giuro, non vedo il coraggio. quello mio intendo. proprio non so…

  17. Il carcere e’ un mondo a noi sconosciuto, lo vediamo nei film e ci facciamo un’idea a volte piuttosto enfatizzata. Al di la di quei cancelli c’è prima di tutto un essere umano con il suo fardello e le sue colpe. Il concetto di questo progetto, l’associazione fotografia-aggettivo, il significato dello specchio… E poi i volti, tanti volti uguale tante storie. Complimenti! Un progetto di grande impatto emotivo che per una volta fa riflettere impegnando testa, occhi e cuore. Gran bel lavoro!

  18. Gentilissima Signora Vilma
    ho letto con estremma attenzione le sue risposte in merito alle mie domande.
    Per quanto riguarda gli eroi continua a trovarmi in disaccorco, anche se a citare questa affermazione è stato Mario Morcellini. Del resto mica si può essere d’accordo con tutti, questo è un mio modesto pensiero.
    Per quanto riguarda la definizione di “criminali” utilizzata da Petrara va bene, però non generalizzi il termine anche per le altre persone ritratte da Mereghetti. Io non so chi sono queste persone, noi non sappiamo chi sono queste persone. Quindi massimo rispetto, sono detenuti e basta. Cioè persone che hanno comesso un reato che non sappiamo. Chiaro no?
    Sarò schietto e diretto per meglio far capire il mio concetto di documentazione. Se guardo un servizio di guerra, non mi interessa vedere i meccanici che oliano i cingoli dei carri armati, voglio vedere la guerra sul campo. Se guardo un servizio realizzato in una casa di reclusione non mi interessa vedere gente che pianta pomodori, voglio vedere il soggetto contestualizzato nel posto dove sta, coiè la prigione. Nelle foto di Mereghetti, le prime sono chiare come documentazione, i ritratti pure, forti, precisi e diretti. Mi piace molto anche il lavoro di Petrara, ma in questo caso, secondo me, il detenuto è contestualizzato in un ambiente dove non si evidenzia la detenzione. Ci sono delle stanze, dei volti, delle situazioni, ma la galera non la vedo. Me la immagino e va bene così, ma non la vedo. Il documento secondo me, soprattutto quello di reportage, deve essere diretto, pochi fronzoli, questa è la situazione, prendere o lasciare. Se ti da fastidio, chiudi gli occhi. Per quanto ruguarda le didascalie io non le trovo affatto ironiche, semmai le trovo false. Mi spiego false nel fatto che questa gente che ha commesso reati si spinge ad autodefinirsi con simili aggettivi. Sul fatto che l’autore se le fosse inventate lo escludo categoricamente. Perchè avrebbe dovuto farlo, accompagnano la foto stessa ma non aggiungono nulla. O forse molto. Ma io per carattere mi fido delle persone e credo a Hermes, come credo a Capa nella foto del miliziano. Molti definiscono la fotografia una bugia vera. E’ vero, noi vediamo quello che l’autore ci vuole far vedere. L’importante è non esagerare. E in questo caso mi sembra che non ci sia esagerazione, ma verità, tanta verità. Afferma sul finale che la gente, secondo lei, non vuole vedere queste cose. Lo so, molti preferiscono le veline, i calciatori, le fiction, ma sa perchè? Perchè la verità, quella rappresentata in questi tre straordinari lavori fotografici, purtroppo porta alla riflessione. E spesso la riflessione ci fa mettere una mano sulla coscenza. E ci fa star male.
    Ognuno di noi è libero di scegliere, verità o fiction. L’Italia è ancora un paese democratico, sfruttiamo questa opportunità.

    • Gianluca – perdonami, ma questa non è fotografia di documentazione tout court. vero che è reportage, ma credo, penso, abbia la forza di trascendere il genere e di portarci da un’altra parte. forse oltre la cella e il carcere. anche se lì inevitabilmente ambientato.

      ma sai che non trovo le parole che attribuisci a vilma? quelle relative al fatto che la gente non vuole vedere queste cose… non le trovo.

      a margine: questi tre lavori li trovo intensi. percorsi diversi, ma intensi. e credo sì che manchino all’appello cartaceo. questi come altro.
      e mica solo reportage

  19. post molto bello e molto coraggioso. molto belle le l’immagini di Giovanni Meneghetti e Nicola Petrara, ma anche a me hanno dato un po’ fastidio le didascalie sotto quelle di Hermes Meneghetti. per una innata antipatia per le didascalie che indirizzano verso una chiave di lettura? perché, come dici tu, spostano il discorso da un piano etico/estetico ad uno morale? non saprei. sull’argomento ti segnalo (se lo hai già visto) il film dei Taviani “Cesare non deve morire” con una bellissima alternanza tra b/n e colore.

    • Giancarlo – non le sento proprio come delle didascalie… che poi averle messe lì è responsabilità mia. le ho sentite come parte del lavoro nel suo insieme. tutto qui.
      visto cesare deve morire. molto bello

  20. egregio Gianluca, sarò puntuale nelle risposte quanto lei nelle domande:

    – ha presente le prime due immagini di Petrara? le persone celofanate, e poi la quarta, con un soggetto che si copre la faccia? e la presenza defilata di una seconda persona? e la fila di sedie vuote? e il crocifisso assolutorio nell’ultima immagine?….. lei è libero di interpretare (o non interpretare) questi segnali come vuole, io pure. E’ ovvio che parlare di ‘distanza’ non è un’offesa, penso che l’autore abbia capito il significato del termine che ho usato.

    – non sono io che parlo di ‘eroi’ è una citazione da un’intervista a Mario Morcellini che può trovare a questo link e che può o non può condividere, io la condivido in gran parte: https://www.youtube.com/watch?v=BNvDVy8UN1k

    – definisco ‘criminali’ individui che Petrara ha ritratto, così scrive se leggo bene, nell’Istituto Penitenziario Spinazzola (Bari). Detenuti Sex Offenders, dove saranno stati collocati per buone e ‘pesanti’ ragioni, presumo.

    – forse le è sfuggito il fatto che le attribuzioni di ‘simpatico, onesto, generoso’ sono autoprodotte, i soggetti se le dicono da soli. Scrive infatti Mereghetti ed Efrem sottolinea, che i soggetti “oltre che posare, hanno suggerito loro stessi un aggettivo che in qualche modo li rappresentasse.” Secondo lei, la fonte è attendibile? Capisco che le didascalie possano essere condivisibili, da lei o da altri, a me paiono tristemente ironiche, celando forse una (inconscia?) intenzione provocatoria dell’autore.

    Mi sconcerta la sua chiusa, categorica e quasi messianica: “Questo è quello che la gente vuole leggere e vedere”. Non so come/cosa commentare.

    Nel complesso il suo riscontro alle mie parole mi è sembrato distratto e inutilmente polemico, forse mi sono spiegata male, o forse lei ha capito male, ci stanno tutte e due le ipotesi.

    Spero, Efrem, che la mia replica sia sufficientemente pacata, chiudo qui scusandomi, ho sconfinato, mi spiace, spesso mi accade.

  21. Appunto Francesca, e invece di provare a cambiare, persistono. Le riviste italiane sono
    di massima inaffrontabili. Nei paesi anglosassoni va un poco meglio, ma la vera sfida per me sono i piccoli editori, come i jap di Super labo store ad esempio. Piccoli libri a prezzi interessanti, che sono vere e proprie chicche. Mi piacerebbe pensare che in Italia c’è un editore che pubblica autori come quelli che ci ha proposto Efrem in questo modo! Efrem perché non sforni qualche idea..:)?
    Dimenticavo…quoto Gianluca 100%.

    • Roberto – non amo il concetto di idea ideona applicato alla fotografia, ma ho capito il senso. almeno credo. dunque… sono un fotografo e coincido perfettamente con la fotografia che produco. che è l’unica risorsa che ho. se avessi soldi veri, o qualcuno disposto a investire, oggi, proprio oggi, in controtendenza investirei sul cartaceo. ma tutto questo non ce l’ho e quindi…
      quanto ai magazine, il problema è mondiale, non solo italiano. ed è discorso lungo e complesso. che investe meno le redazioni e più il sistema della comunicazione nel suo insieme. che è innegabilmente in crisi. anche qui, discorso troppo lungo nella circostanza.
      e comunque in italia si pubblica anche roba di grandissima qualità… dare un’occhiata a questo: http://blog.efremraimondi.it/italo-lupi/

  22. Mah, Vilma, credo di comprendere bene il suo discorso, che trova l’apice nella frase degli “eroi”. E’ veramente un peccato mortale osannare chi andrebbe invece ignorato.
    Questo è un vizio a cui si lasciano andare i media in nome dell’audience. Lo vediamo tutti i giorni: autori di scelte di vita deprecabili che vengono portati alla ribalta.

    Perché non c’è nulla da fare: quando vediamo ochette rubare lauti stipendi solo per i laidi trascorsi con uomini politici; quando vediamo pseudo-sportivi vantarsi della loro furberia, quando vediamo personaggi ben oltre la border-line della correttezza rimanere sempre a galla e riproporsi senza un minimo di vergogna, quando vediamo tutti questi, insomma, invitati, intervistati e “fare tendenza”, non possiamo che riflettere su quali pesantissime conseguenze possano ricadere sulla nuova generazione.
    Però, mi perdoni: le fotografie di cui parliamo oggi non hanno nulla da spartire con tutto questo.
    In queste immagini io non vedo né eroi né modelli: ma solo visi di uomini e sofferenza.
    Nessuno può invidiare la loro condizione. Nessuno può prenderli come modello.
    Non sono immagini assolutorie. Questi reportage si limitano a dire: questo è quanto.
    Su cui posare per un attimo gli occhi e la mente, perché illustrano una realtà che raramente viene portata alla luce.

  23. Roberto, ma non si lamentano perché non vendono e sono in crisi? Continuano a chiuderne mi sembra. Però forse mi sbaglio. Quello che è certo che prima le compravo mentre adesso appena le sfoglio mi passa la voglia

  24. Gentile Signora Vilma, ho letto con attenzione il suo post e vorrei porle alcune domande:

    – come fa a dire che le immagini di Petrara “riescono a mettere una certa distanza tra il soggetto e l’osservatore”? In queste immagini personalmente mi sento coinvolto. Sento l’”odore” del soggetto e questo secondo me è positivo. Non sento nessuna distanza e tantomeno scenografia. Sento la realtà delle cose.

    – perché definisce i soggetti (detenuti) di questi tre magnifici reportage degli eroi? Mi sembrano tutto: persone, delinquenti, esseri umani, ecc… ma non eroi. Gli eroi di solito li ho visti fotografati in altri modi.
    Secondo me i fotografi hanno ben colto l’argomento.

    – perché a fine testo definisce questa gente “criminali” senza neppur sapere il reato che hanno commesso?
    Ladri, delinquenti, disonesti, ecc… mi sta bene, lo accetto. Criminale è un termine pesante, prima di definire una persona con un simile aggettivo bisognerebbe conoscerla bene, no?

    – e poi, un detenuto non può essere simpatico? Non può essere onesto? E generoso? E timido? Che ne sa lei di questa gente, chi sono, cosa hanno fatto e perché stanno in carcere.

    Detto ciò, trovo questo articolo o servizio che dir si voglia molto interessante e soprattutto molto ben fatto, sia nei testi che nelle fotografie. Basta con le notizie dei gossip, delle veline, dei calciatori. Questo è quello che la gente vuole leggere e vedere. La gente vuole conoscere la realtà vera non quello che fa comodo ai governatori della nostra vita.

    • vorrei precisare due cose:
      – che gli aggettivi sotto le singole immagini di Hermes Mereghetti sono il prodotto degli stessi detenuti. ai quali appunto veniva chiesto di definirsi con un solo aggettivo. a mio avviso ininfluente al fine dell’immagine in sé.
      però, forse, interessante riferito al contesto.

      – gradirei dei toni sempre pacati. anche dal contenuto forte e diretto. ma pacati…

  25. Devo confessare una mia personale incertezza quando vedo reportage dal carcere o leggo le motivazioni che hanno spinto il fotografo a fermare quella realtà.
    O forse dovrei dire doppiezza, perché mentre guardo le immagini di quella “gente di “serie B” non posso contemporaneamente esimermi dal chiedermi cosa fanno, in quello stesso preciso istante, le vittime che da quella gente hanno subito violenze, abusi, ferite fisiche o psicologiche che hanno cambiato la “serie” della loro vita.
    Sono di questi giorni le foto di una di queste persone, devastata dall’acido nel fisico e nell’animo, e forse dopo averla vista guardiamo con altri occhi quello che magari, fra qualche anno, vedremo ritratto in qualche reportage come detenuto modello, che probabilmente si autodefinirà ‘innocente”.
    Il discorso, non nuovo, sarebbe lungo e presumo oggetto di un dibattito molto vivace, che non voglio innescare.
    Limitandomi alle foto, trovo particolarmente interessanti alcune, specie nel servizio di Nicola Petrara, che, a mio parere, riescono a mettere una certa distanza tra il soggetto e l’osservatore, che guardano “il male” attraverso la lente della concettualità esaltandone l’aspetto ‘scenografico’, per quanto assurdo possa essere, con ciò mitigando la possibilità che il piacere della narrazione, l’amore per la comunicazione possano sminuire le distanze etiche e valoriali tra chi ‘mette in scena’ dei protagonisti e i protagonisti stessi.
    Gli psicanalisti sanno che tra chi studia un fenomeno, come può essere il crimine, e chi lo fa, si creano dei contagi, perché “se si mette un soggetto al centro di una narrazione, anche se lui è un deviante e un delinquente, in qualche modo lui può contare su una rendita di posizione. In generale esiste un problema etico che le professioni comunicative dovrebbero porsi: stare attenti a chi si sceglie come “eroe”.”. Non lo dico io, lo dice Mario Morcellini, direttore del Dipartimento comunicazione dell’Università di Roma La Sapienza.
    Utilizzare il punto di vista del criminale, può in qualche modo giustificarne i comportamenti?
    Quanto ci influenza il fatto che sotto la foto di un criminale ci sia scritto simpatico, onesto, generoso, timido…….?
    Scusami Efrem, forse volevi proporci solo “un lavoro sul carcere”, ma ormai mi conosci, spesso non riesco a lasciar perdere!

    • vilma – assolutamente lecito quello che scrivi. però non ho espresso alcun giudizio morale. e sai come la penso: la fotografia non ha morale. certamente un’etica. e qui appunto si aprirebbe un capitolo già solo per la semantica. ma eviterei. piuttosto, rispetto al contenuto, questo contenuto, mi interrogo e quindi rimbalzo, sull’immagine di sé che viene negata. e sul fatto che è attraverso una digitale che alcuni detenuti riacquistano la propria faccia. ma questo vale per qualsiasi persona forzatamente impossibilitata. un discorso più ampio sul carcere dovrebbe, credo, godere di altro spazio.
      insomma parto da una condizione di negazione per me inaccetabile – senza la PROPRIA faccia – per mettere sul tavolo le immagini di tre colleghi che nell’occasione hanno fatto reportage. un genere in disuso si direbbe…

  26. Francesca, le riviste che trovi in edicola devono vendere e scelgono il modo più semplice per farlo…blandiscono il lettore e quindi via di articoli sull’ultimo ritrovato tecnico e il potfolione dell’aspirante fotografo/lettore di turno (o lettore/fotografo, mi suona meglio).
    Resta il web, anche se il mare è vasto e la fatica di remare è tanta! Per questo ringrazio Efrem…al di la della condivisione o meno delle immagini, apre a racconti interessnti e riflessioni … di un fotografo, non di un critico, o docente (che schifo di parola) dell’ultima o penultima ora. Per il resto, si va di libri…e di mostre…(a volte contano).

  27. Ma perchè le riviste non fanno la stessa cosa? È incredibile che sia un fotografo come te Efrem a prestarsi: rispetto

    • Daniele – ma grazie!
      e in effetti, io che non frequento poi molto il “genere”, queste immagini di Giovanni Mereghetti, suo figlio Hermes, Nicola Petrara, hanno una grande forza. quella che è in grado di trascendere il genere. però va detto a scanso di equivoci, ha un nome… un po’ abusato ma in realtà ignorato: reportage!

  28. Intenso questo lavoro Efrem, la tua foto la chiamerei il carcere della solitudine. Avverto nelle alte foto questo bisogno di contatto umano, foto sincere e tanto bisogno di umanità.

  29. Assai interessanti le riflessioni sullo specchio. Molto belle, le immagini dei fotografi che hai scelto e che non conoscevo, soprattutto il primo servizio. Mi hanno restituito le dimensioni dei luoghi e delle persone, che credo sia la prima cosa che conta. Meriterebbero un passaggio stampato! Grazie…come al solito !

  30. Sempre un piacere leggere di Fotografia.

    Interessantissima la riflessione sullo specchio, che immediatamente porta a riflettere sul ruolo dei luoghi di detenzione, ma in primis sul ruolo della fotografia, su una sua funzione che spesso dimentichiamo: mostrarci noi stessi.

    Tre autori di grande talento, tre importanti lavori: valore.

    Il tuo blog è un’inestimabile miniera di interessanti e importanti input, una splendida rivista, che userò, da ora in poi, per i miei corsi.

    Qualcosa che mancava in Italia…

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