Lo sguardo del gatto

Gattoterapia, by Efrem Raimondi

Roma, 1999. Polaroid © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Sembra un fuori tema. Ma non è così.
Sembra una declinazione da social network, ma non è affatto così.
Io amo fotografare i gatti.
O meglio, amo i gatti. E li fotografo per come mi si presentano.
Detesto la deriva caricaturale antropocentrica fatta di cappellini, occhiali, scarpe e
ciarpame assortito che riduce tutto a sberleffo.
E inoltre svilisce il gesto fotografico.
Quindi, forse, è il caso che CHI FA FOTOGRAFIA continui a farla nel modo che gli è consueto.
La Adriano Salani Editore mi chiese tempo fa se mi andava di illustrare un libro sul gatto… ne abbiamo fatti due:  Gattoterapia (2004) e Gattoterapia, gli esercizi (2005).
Ed è stato facile: mi sono limitato a un editing delle fotografie che già avevo dei miei gatti. Sono immagini semplici, dirette… delle snap, dei ritratti, piccole sequenze. Non diverse da altre fatte a gatti incontrati per strada. Non diverse da come mi approccio alle persone.
Non diverse.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Gattoterapia, by Efrem RaimondiGattoterapia, by Efrem RaimondiGattoterapia, by Efrem Raimondi© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamere:
Polaroid SX-70 e 690 SLR, Ricoh GR1s e GX-100, Leica Minilux, Nikon FE, Hasselblad H3DII-39

Film:
Polaroid SX-70 e 600, Fuji NPS 160, Agfapan 100 e 400.

La trappola didattica.

Barcelona, 1997 – © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Dovunque ti giri è pieno: corsi e workshop a tutto spiano.
Offerti da chiunque: dalla bottega alle scuole.
Con un impegno didattico variabile: dal weekend al biennio/triennio di classica impostazione accademica.
E con una esposizione economica che rimbalza dal centinaio di euro fino a un tot di migliaia.
Tutto ciò in un paese che non ha una sola università dedicata alla fotografia con un piano quinquennale.
Magari di anni ne bastano tre… magari due. Ma per far cosa?
Cioè, a fronte di una grande domanda, terribilmente obliqua, che offerta propone il mercato didattico? E per quale sbocco che tranne rare eccezioni il livello di uscita è imbarazzante.
Mi è capitato casualmente di imbattermi in due studentesse, “laureande” in fotografia presso una prestigiosa istituzione accademica. Erano prossime alla tesi, ed erano molto confuse.
Il materiale che avevano era il prodotto di un progetto ideato e realizzato coi propri fondi all’estero. Anche interessante, ma messo lì così non significava niente. In più tecnicamente era lacunoso.
E non ci si esprime come si vorrebbe affidandosi alla precarietà grammaticale.
Siamo ripartiti dall’intento. Siamo ripartiti dal soggetto. Siamo ripartiti dai raw… siamo ripartiti da tutto. Un percorso durato oltre due mesi a causa del singhiozzo, il mio, derivato dal mio lavoro primario, che è fare fotografia. Col quale ci pago la vita e le tasse.
E dove diamine era il loro relatore? Ho chiesto a proposito… se lo chiedevano anche loro. Li pagano poco??? Alcuni certamente, altri fin troppo!
Non sto a menarla sul piano morale e sull’etica dell’insegnamento, a qualsiasi livello, ma qualcuno mi dica sulla base di cosa lo sconto è effettuato sulla pelle degli studenti.
Ho insegnato sporadicamente da qualche parte, e tra l’altro mi è anche piaciuto. E magari lo rifarei. Con lo stesso entusiasmo di quando tiravo calci al pallone: se non ti va di giocare, stai a casa!
Se non ti soddisfano le regole e sei un genio incompreso, o hai la forza di cambiarle o cambi tu indirizzo. I ragazzi non c’entrano niente. E pagano di persona. Le conseguenze poi, sono per tutti.
Insegnare fotografia? La scuola è fondamentale. Il corpo docente che la compone ne è la spina dorsale: qual è il criterio di designazione di una cattedra? Quale il percorso che ti permette di mettere una targa s’un muro e distribuire diplomi?
Ho davanti un programma importante di un corso importante.
Il cui obiettivo è di formare un artista/fotografo, una figura in grado di confrontarsi con ambiti vari del mercato della fotografia: bene… cerco i docenti. Non li trovo. M’impegno a fondo e trovo una listina, una robetta misera nel numero: di questi ne conosco uno.
Che ha tentato in tutti i modi di fare fotografia. Ma di questa sua ostinazione non c’è traccia neanche su Google.
E mentre un tempo le cattedre erano appannaggio di artisti e docenti di chiara fama, con tanto di opere e curriculum, adesso il dato più significativo che scopro su uno di questi curriculum è ”non fumatore”.
A scendere immaginiamoci un po’! Tra agenzie e corsi finanziati dalla regione o dai comuni, tra botteghe e circoli vari: sulla base di cosa, di quali conoscenze e capacità didattiche, con che titolo e curriculum si imbandisce la tavola?
E chi partecipa, ma cosa si aspetta? Di uscirne in tre mesi con in mano cosa?
Mi arrivano da più parti richieste di workshop: non servono a un cazzo. Ne ho tenuti, è così che me ne sono convinto.
Ed è per questo che invece ne sto mettendo a punto uno mirato a una sola roba, precisa precisa: il ritratto e la coscienza di sé.
Sono anni che parlo di autoritratto. Sono anni che ritraggo gli altri così. Trovo che sia il momento di raccontare bene una cosa.
Se lo specchio non è piazzato in un limbo etereo, magari ci si accorge anche dell’altro che si riflette.

© Efrem Raimondi. All rights reservedi

SEQUENZE

Andreotti trittico, Roma 2006 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Non è un escamotage. E con la raffica non ha niente a che vedere, anzi ne è la negazione.
Questo perché non amo i postulati.
Solo un attimo per dire della prima e di come ci sono arrivato: ero un ragazzino con la fotocamera nell’Irpinia terremotata, anno 1980.
Ho seguito diverse riesumazione di poveri cristi, cadaveri da una quindicina di giorni. Scattavo e vomitavo… vedevo poco e la terra si assestava sotto i piedi. Di continuo.
A casa, in terra ferma, ho selezionato e rimontato in un’unica sequenza di quattro immagini. Forse un po’ ingenua e didascalica, ma è la prima… la mia matrice. Quella che mi ha permesso di pensare alle altre.
Allora non le degnava nessuno… c’è voluto del tempo.
Non nasce perché non sai cos’altro fare: appunto non è un escamotage, semplicemente pensi in modo differente e non ti soffermi sul singolo frame.
E con la raffica non c’entra niente perché di ogni scatto ne hai la percezione. E se c’è da rifare, miri al singolo.
La sequenza è una short story nella quale il valore di ogni immagine che la compone appartiene all’insieme.
E l’opera va presa per quello che è: non è affrontabile per frammenti, non è scomponibile.
Per i magazine un vero rebus di impaginazione: serve spazio! E quello a disposizione è limitato. Per questo se è per loro che sto lavorando ricorro al dittico: pam pam! E hai una doppia pagina… una sequenza gestibile che li rincuora.
Per le pareti dei musei e delle gallerie no… riempiono bene. E le rare volte che mi sono affacciato, per quanto spinga il contorno mi sento piccolo.
Statica, come nel caso di Vasco Rossi, oppure dinamica per Sakamoto o Andreotti, la questione non cambia: è una composizione e ha bisogno di una regia. Il casuale non è contemplato. Se non nella natura del gesto, come nel caso di Vanessa Beecroft.
Nascono tutte dall’esigenza di aggredire e dilatare lo spazio, che a volte è stretto.
O comunque geometricamente imposto e indiscutibile.
Scusa, ma allora non potevi darti al video?
No, non potevo e non posso. Sono un fotografo, vivo di contraddizioni e fermo il tempo.

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NOVEMBER 1980. IRPINIA EARTHQUAKE. PERSONAL

NOVEMBER 1980. IRPINIA EARTHQUAKE. PERSONAL

 

RYUICHI SAKAMOTO, TRITTICO

RYUICHI SAKAMOTO, TRITTICO

 

NICOLA SAVINO SEQUENCE

NICOLA SAVINO SEQUENCE

 

JOAQUIN CORTES

JOAQUIN CORTES

 

PIA TUCCITTO

PIA TUCCITTO

 

VASCO ROSSI - L. A. 2008

VASCO ROSSI – L. A. 2008

 

VANESSA BEECROFT

VANESSA BEECROFT

Il fiore è nero

Tulipano nero © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Se spegni la luce, tutto è nero.
Che te ne fai di tutti ’sti bit… che te ne fai di tutti ’sti iso, di un milione di mega e di una potenza di fuoco che non ha precedenti se poi, davvero, basta un cerino?
Serve un filo di luce e un occhio che veda. Ti basta star fermo e girare la testa… traguardare lo sguardo e selezionare la vista: che ci fai con tutta ’sta mercanzia al collo, e lo zoom, questa illusione ottica che pesa una cifra?
La fotografia si fa dove le cose accadono, cioè nel tuo cranio.
In questo spazio permeabile non serve nulla e le fotocamere si equivalgono.
È lì che si forma l’immagine. Lì o niente, e non c’è attrezzatura che tenga.
Ti serve poi solo una roba: la luce.
Questo è il limite della fotografia. Quanta? Direi quale!
La luce fende il buio, la luce la vedi: Caravaggio docet.
Diretta, diffusa, riflessa… calda, fredda, morbida, secca.
La luce è l’unico differenziale, tutto il resto suppellettili.
La luce non ha pregiudizi e non discute: avvolge, attraversa, rimbalza. In una relazione dinamica perpetua con tutta la materia.
Scrivere con la luce, ripetuto alla nausea. Non scrivere con la reflex, non con la Patatrak o la Fotuscoss (*)… scrivere con la luce.
Quindi impossessarsene e assecondarne gli umori.
Tutto ridotto ai minimi termini partendo dallo sguardo. Ma sapendo bene cosa si sta facendo. La confusione iconografica alla quale assistiamo è anche figlia di una diffusa ignoranza. La fotografia, al pari di qualsiasi altra arte, è disciplinata: per poter dire come ti pare, devi conoscere la grammatica. E qui si parte dalla luce.
Queste sono fotografie non mediate da alcun mezzo ottico: Polaroid 55 e un accendino.
Fotografia allo stato puro… elementare nella sua semplicità.
Non serve niente: una matrice, un soggetto, la luce.
E noi stessi. Magari fuori dal trend.
Certamente inattuali.

* Fotuscoss: faccio tutto, in lombardo.

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Fotocamera: assente. Luce: accendino Bic. Film: Polaroid 55.

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About Pola

Beniamino,1999  © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Morta. No, è risorta! No no… sepolta.
Le notizie alterne sul marchio Polaroid coincidevano con l’umore col quale mi recavo in pellegrinaggio a guardare la mia SX-70, riposta con cura in cassaforte.
A me della Polaroid piace persino il dorso 545, che è un tocco di ghisa.
Ma io sono un feticista. E non ammetto repliche.
La foto subito! Anzi… quasi subito. Che è ciò che la distingue concettualmente dal digitale.
E che ha a che fare con la magia dell’immagine rivelata.
Come trovarsi in una camera oscura portatile, che prima c’è solo il bianco, e poi qualcosa emerge. Piano, fino a diventare totalmente risolto, splendidamente visibile.
In quel lasso di tempo tu sei sospeso e lo sguardo è fisso su quei centimetri: cosa conta di più? Visto da fuori sembri un pirla con quel pezzo di acetato tra le mani sul ciglio della strada… mentre tu te la godi.
Ed è bellissimo perdersi in quel poco tempo che ti separa dal nulla al tutto assaporando il qualcosa. Perché ti trovi lì con quella roba in mano esattamente per questo: la Polaroid, a differenza del resto, respira con te. Solo in questo è instant.
In quanto a easy art è solo una mistificazione. Un po’ come ‘sta menata delle Lomo e del loro intrinseco potere espressivo.
Cosa c’è di easy? Semplicemente perché chiunque abbia una velleità possa bombardarci di robetta?
Un conto è il piacere, unico, che la Polaroid mette a disposizione di chiunque, tutti in fila sul ciglio della strada, un’altra roba è cosa questo piacere restituisce. E questo vale per qualsiasi mezzo.
Creatività… parola idiota nel suo essere generica, sembra il passepartout per il marketing culturale, generalmente affiliato a un’azienda. O viceversa.
La Polaroid è roba seria e complessa nella sua semplicità.
E estremamente selettiva nella sua rigidità. Altro che easy!
L’ho usata in tutti i modi: come test e come definivo, col grande formato e con la serie 600. E appunto con la SX-70.
Ho collezioni, percorsi brevi, singole sparse. Tutte nel mio cassetto… prima o poi le tirerò fuori. Forse forse è una minaccia e questo solo un aperitivo.
Da Appunti per un viaggio che non ricordo.
Un racconto nostalgico vista la scomparsa della pellicola originale.
Ciò che vedo in giro, salvo rare eccezioni, non mi esalta.
In attesa che qualcuno mi aiuti a ricaricare la mia SX-70.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Fotocamere Polaroid: SX-70 e 690 SLR.
Film Polaroid SX-70 e 600.

Ritratto in una stanza e mezza.

Carlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved

Carlo Petrini è morto due giorni fa, a 64 anni. È stato attaccante anche del mio Milan, col quale ha vinto una Coppa dei Campioni nel 1969.
Non voglio parlare di lui, della sua vicenda calcistica e dei libri che ha scritto (tra tutti Nel fango del dio pallone, Kaos Edizioni).
Sono grato a quest’uomo. Perché ritrarlo mi ha rimesso in piedi.
Ero appena tornato da un periodo tosto, faticoso, stressante e pieno di luci. Di quelle che abbagliano. Ero rientrato da Los Angeles cinque giorni prima, davvero disfatto.
Trovarmi lì, in quella situazione, è stato un ceffone. Di quelli che fanno male. E d’emblée ti svegliano.
A Monticiano, fuori Siena… fuori da tutto, in un buco di una stanza e mezza più una piazza: la mia storia è tutta qui.
Ho un solo modo di ricordare le persone: il mio. E passa attraverso la fotografia. E la voce.
Qui piazzo le foto. Che mi permettono di dire un paio di robe…
Questo è un lavoro per GQ Italia, numero di gennaio 2001.
Ci credereste? Eppure… articolo del torinista Marco Mathieu.
Non è un reportage, cos’è allora che lo rende simile di primo acchito… cos’è che fa stridere, persino a pensarla, la parola shooting?
Com’è che un patinato come GQ, per il quale mi occupavo del ritratto, ‘ste cose le produceva? E perché proprio io? Ma soprattutto, perché no? Non è che se per caso bazzichi per una sera il jet set, ti dimentichi del treno dal quale sei sceso. O sì?
Per chi il treno non ha mai avuto il bisogno di prenderlo non vale.
Questo è per me un lavoro importante. Che ho lasciato nel cassetto per tanti anni.
L’importanza di un lavoro non si misura sulla base della visibilità o appunto dell’importanza del soggetto. Né il numero di tacche sulla fotocamera fa di per sé curriculum.
So per certo che più d’una photo editor, una in particolare, non direbbe che è mio.
I cliché in fotografia sono diffusi, a tutti i livelli, e essere obliqui non è detto che sia un plus (si legge come è scritto).
Queste fotografie sono dei posati a tutti gli effetti, e concordo, il reportage è un’altra cosa. Forse… perché non vedo cos’abbiano di meno questi ritratti. Non vedo a cosa servisse raccontare altro.
A volte basta una foto, a volte no. Ma ricamarci sopra è gratuito.
E io non sono un buon ricamatore.

In ricordo di Carlo Petrini, R.I.P.

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Carlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCarlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCarlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCarlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights ReservedCarlo Petrini by © Efrem Raimondi - All Rights Reserved© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Assistente fotografia: Fabio Zaccaro.

Fotocamere: Polaroid 600 SE con Seiko 75 mm, Pentax 645N con 55 mm.
Luce ambiente e flash Profoto + luce ambiente.
Film: Polaroid 665, AGFAPAN 100

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L’idiozia della fotogenia! 2012

 Piano Americano - DUE © Efrem Raimondi. All Rights ReservedPiano Americano – DUE, ottobre 2002

Bigino da combattimento sulle convenzioni del ritratto.

Mi piace ripetermelo: raramente una bella immagine è l’immagine di qualcosa di bello.
Dico ripetermelo perchè tanto poi a esserne fautori non si è mica così tanti: in una assemblea di addetti ai lavori, magari dal tono annoiato che non guasta, tutti pronti a levare la mano… ma poi, non appena ci si distrae dal trend (quella cosa che si insegue come un aperitivo o una inaugurazione… lo stesso) ecco le levate di scudi.
Finché si parla d’altro va bene, ormai tutto è stato digerito e vomitato. Ma col ritratto no. Soprattutto col proprio, che se non è edulcorato a puntino non lo si riconosce.
E  lo si rispedisce al mittente.
Il problema della riconoscibilità diventa un fatto di dignità, di passaporto per l’immagine: è il problema della memoria, della relazione tra noi e il ricordo di noi stessi.
Il ricordo di noi stessi… un’icona inviolabile e inalterabile. Una roba simile al look.
Primo punto sostanziale: chi se ne frega.
Non ritraggo con la demagogica presunzione di restituire una memoria che non mi appartiene: io racconto la mia storia.
E la memoria è la mia.
Con tutto il resto funziona: col paesaggio urbano e non, con la moda e lo still-life, persino col food, il formaggio svizzero e le famiglie dissestate inglesi. Con le tentazioni pedofile.
Col reporatage, quello colto e un po’ saccente, tanto incline alla lacrima e alla miseria.
Si è disposti a tutto col resto, a ubriacarsi d’immagine e stracciarsi entusiasti le vesti e far finta che va tutto bene e che ci piace la minestra.
A comando ci ficchiamo in code chilometriche per la visione de La Dama con l’ermellino, quella leonardiana o di chiunque altro. Ce ne stiamo umili in saio pronti alla rivelazione del ritratto. Sicuri che così sarà.
Secondo punto sostanziale: così non è.
Il ritratto rivela solo all’autore, che è l’unico a goderne nell’essenza.
Le popolazioni che temevano il furto dell’anima operato dalla fotografia avevano parzialmente ragione: l’anima resta dov’è, nella stessa sede, solo che è quella di un altro.
Ma non si tratta di una deriva inconsapevole: è una scelta imprescindibile per chiunque usi un linguaggio, a discapito anche delle convenzioni grammaticali e dei riti sociali.
Per questo la fotogenia è un’idiozia, un concetto vuoto, perché ha a che fare con la gradevolezza, che è puro fatto mediatico.
Il linguaggio è altrove.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Nota: questo testo è stato la traccia di due conferenze, la prima nel 2003 a Savignano sul Rubicone in occasione del Festival Foto, la seconda a Milano alla Fondazione Forma in occasione di Fotografica 2009.
Oggi l’ho manipolato per questa di occasione, ma il concetto è lo stesso: la fotogenia non esiste!

Polaroid 55. Riproduzioni di RX.