Grande Boh

Grande Boh è l’entità più contemporanea che esista.
La maxi pozzanghera dello sguazzo pop.
E del galleggiamento forzato che non molla neanche un millimetro dello spazio guadagnato a suon di scorregge in multicolor.
Così almeno si può dire con certezza che è un luogo maleodorante.
Ma variopinto…

Se però volessimo andare oltre la constatazione sarebbe opportuno lasciare la pozzanghera al suo perimetro. E chi ne ha voglia, altrove. Giusto per verificare alcuni punti cardine del Grande Boh da una prospettiva altra.
Magari per dare un peso specifico all’indignazione.
Che non è il lamento, in genere chiassoso e alla fine connivente, ma proprio la necessità vitale di prendere le distanze.
Non a parole, coi fatti.
Ristabilendo l’arbitrio e la presunzione come valori inalienabili dell’autore chiunque sia.

E che ha un solo luogo per esprimerli: l’opera.
Quindi rimettere l’opera al centro.
Mentre nel Grande Boh al centro c’è l’autore – alias l’artista.

© Efrem Raimondi - Self portrait 2012 - All Rights ReservedPhoto Booth 2012

Non si tratta di una contrapposizione retorica.
Ma strutturale per stabilire l’ordine delle priorità.
Il che prevede una certa alfabetizzazione nel primo caso – un’opera non vale l’altra e chi se ne frega del variopinto piumaggio dell’artista – mentre nel secondo al centro il variopinto piumaggio e l’opera è un dettaglio, il supporto – non il medium, proprio il supporto – di una kermesse che dura finché i riflettori non si spengono. Un fatto mediatico sostanzialmente.
Dove vale tutto e il suo contrario.
E Avedon oppure Diane Arbus a braccetto con Steve McCurry o Salgado…
Insomma decidi da che parte stare.

Ne sei capace?

A margine: sai che posso dire con precisione quando hai acquistato il Huawey P20 PRO solo guardando il tuo profilo Instagram?
Bel Rinascimento eh? Come fai a non accorgerti che qualcosa è cambiato?

Se lasci che tutto sia com’è, tu chi sei?
Ma del rapporto con la tecnologia ne riparleremo.
Après…

In un certo senso invece ne parliamo adesso.
In modo decisamente impopolare.

La riconoscibilità dell’opera è il fondamento di tutta la storia dell’arte.

Lei – non essa, proprio LEI – riconduce all’autore. Non il contrario.
E suo è il peso determinante.

In fotografia l’alterazione s’è data con l’avvento del digitale nel momento in cui questo è stato posto come forma espressiva sostitutiva. In sé bastante e a sé riconducibile.
Ma tutti questi cieli da tregenda sparsi per un mondo indefinito… ma qual’è il tuo?
Tutti questi occhi retroilluninati a qualsiasi latitudine, che schizzano dalla faccia, ma di chi sono?

Non esiste alcuna dicotomia tra analogico e digitale. Conta sempre e solo il prodotto.
Cioè l’opera.
Io non distinguo: n
é l’uno né l’altro percorso hanno in sé le stigmate della nobiltà.
E non è il caso di immolarsi su nessun altare.

Perché non c’è altare.
Semmai si incontra del pregiudizio dall’una e dall’altra parte.
Il punto vero della faccenda, il vero bivio, è la consapevolezza.

Siamo di fronte a due postulati nativi: la realtà dell’analogico e l’iperrealtà del digitale.
Nessuna delle due ha significato in sé espressivo. Nulla insomma da sbandierare se l’obiettivo che ci riguarda è dare forma alla visione che abbiamo del mondo.

Tenendo sì conto che la tecnologia ottica, qualsiasi, ha una sua matrice.
E però quella digitale ha una presunzione congenita subdola: dimostrare di poter vedere meglio dei nostri occhi.
Arrivare là dove noi non immaginiamo. Letteralmente così.

Peccato… quanto sforzo tecnologico sprecato: la fotografia, almeno quella alla quale penso, non ha alcun obbligo dimostrativo. Non una galleria di performance.
Ne ha un altro ben più ambizioso: ridurre la distanza tra l’intenzione e l’opera.
I nostri occhi al pari di qualsiasi altro strumento ottico: senza stomaco, senza cuore, senza cranio, senza pelle, son ciechi. Muti.

La fotografia non esiste. Senza di noi è zero.

È così che mi aggrappo al mio postulato: la fotografia si occupa dell’invisibile.
Il nostro percorso è quello di renderlo visibile.

Come non Perché, il differenziale.
Per chiunque abbia un linguaggio il perché risiede nell’urgenza di esprimerlo.
Il come lo identifica.
È sorprendente che un sistema accompagnato da un software nato per distinguere crei omologhi.
È sorprendente la mia ingenuità indignata di fronte a certi parterre cinguettanti.

Ognuno intercetta solo ciò che lo riguarda. Dovunque si annidi, la visione è questo.
La manipolazione di tutti gli strumenti in subordine alla mira.
Ma cosa si crede che faccia un artista?
Alla faccia di tutte le superpippe contemporanee, da sempre l’artista è votato all’opera. Intimamente sa che questo è l’unico successo.
Qui la sua potenza.

Pena la dannazione, una volta che quel faretto mediatico si spegne, di trovarne un altro.
E quella luce lì non sarà mai sua. Non lo è mai stata.

Non c’è nessuna buona luce. C’è solo la tua. E sta altrove.
Boh…

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Condividi/Share

Lista impossibile

Avrei voluto fotografare Charles Bukowski, perché aveva paura.
E anch’io ne ho.

Avrei voluto fotografare Bohumil Hrabal, perché conosco il rumore della sua solitudine.

Avrei voluto fotografare Dino Buzzati, perché oltre ai racconti possiedo un suo disegno… un carboncino di demoni neri. Che volano e inforcano.

Avrei voluto fotografare Bacon… Francis pittore, perché dilaniato senza tregua.

Avrei voluto fotografare Diane Arbus. Nuda com’era.

Avrei voluto fotografare Stanley Kubrick, perché non aveva morale.

Avrei voluto fotografare Céline, perché sorrideva alle tenebre.

Avrei voluto fotografare Brian Jones. Senza gli Stones, che mi stanno sul cazzo.

Avrei voluto fotografare i Beatles, tutti insieme, perché non c’è mai stato alcun match.

Avrei voluto fotografare Pier Paolo Pasolini, perché con una faccia così.

Avrei voluto fotografare Michail Bulgakov, perché mi ha accecato con  polvere e diavolerie e a occhi chiusi ho volato.

Avrei voluto fotografare Richard Avedon, perché il maestro.

Avrei voluto fotografare Raymond Carver, perché prima o poi l’amore arriva.

Avrei voluto fotografare Anna Magnani, perché bellissima.

Avrei voluto fotografare Caravaggio, perché non so dire come.

Avrei voluto fotografare lo zio Walter Benjamin, per far piacere a Laura.

Avrei voluto fotografare George Best, perché uno contro tutti.

Avrei voluto fotografare Jim Morrison, perché voleva morire grasso. E c’è riuscito.

Avrei voluto fotografare Calvino, con Agilulfo, Gurdulù, Bradamante, Rambaldo, Sofronia, Torrismondo e suor Teodora. Perché mi piacciono i gruppi di famiglia.

Avrei voluto fotografare Rino Gaetano, perché calabrese surreale.

Avrei voluto fotografare Johan Cruijff il visionario… tutto il calcio del mondo.

Avrei voluto fotografare Sid Vicious, perché non aveva confini.

Avrei voluto fotografare Enzo Jannacci, perché… perché… cont i oeucc d’un fioeu. *

Noi lo sappiamo, siamo di passaggio.
 Dopo di noi: nulla di notevole.
Per questo avrei voluto fotografare Bertolt Brecht.

Ma non è più possibile.

Non è più possibile.
 Non più…

Chi continuo a fotografare è Dio.
Ogni volta che incontro lo sguardo di un gatto.

Mi basta.

Della roba possibile chi se ne frega.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

bukwithcat_3 by Michael Montfort

Charles Bukowski e il suo Gatto Bianco ritratti da © Michael Montfort.

* con gli occhi di un bambino.

Nota: Questo pezzo l’ho già pubblicato nel 2013.
Purtroppo la lista si è allungata.

Il 4 settembre intervista pubblica a cura di Enrico Ratto per Maledetti Fotografi.
Presso Spazio LABottega a Marina di Pietrasanta, h. 18.30 – Ingresso libero

Condividi/Share

Nikon Live 2015. Ciò che mi riguarda…

Efrem Raimondi iPhonephotography

 

Questa riflessione sui generis l’ho pubblicata nel marzo dello scorso anno.
Per un’altra occasione.
Solo che va bene anche per il Nikon Live di Ancona.
Benissimo anzi.
L’ho necessariamente rimaneggiata. Di poco.
Sabato 21 novembre alle h. 16,00 – sarà un duetto con Denis Curti.

Una Lectio Magistralis è sempre in maiuscolo.
Il più delle volte a ragione, nel mio caso no.
Non è una posa, so ciò che dico: ai posteri l’ardua sentenza… solo che a me dei posteri non me ne frega niente.
Perché se mi fregasse davvero qualcosa non farei il fotografo.
Oggi farei cose ben più utili.
E non me ne starei a rimirare il mondo e la sua fauna umana proiettata all’inferno.
Con l’aggravante della pretesa interpretativa invece cerco di rappresentarlo questo mondo… che è poi quello che ai posteri verrà consegnato.
Per questo ci malediranno.
Perché invece di stare con l’iPhone in mano o qualsiasi altro aggeggio ottico, e scaricare tonnellate di spazzatura iconografica, potremmo fermarci.
Mica tanto… giusto il tempo per capire dove virare.
Tecnicamente non è facile, ma almeno un impegno emotivo e uno sforzo intellettuale, li vogliamo fare?

Io non voglio scendere da questo mondo, e anzi mi fa incazzare l’ineluttabilità della morte.
Forse è questo che si fotografa: la resistenza alla perversione della logica, all’ineluttabile inaccetabile.
Alla supremazia della clava. In qualsiasi forma si presenti.

E tanto più metti a fuoco il senso del tuo resistere, tanto più trovi il linguaggio per esprimere la tua ribellione.

C’è chi ci sguazza… se mi fregasse davvero dei posteri mirerei il mondo non dal mirino di una fotocamera.
Sono giusto trentadue anni che sono fotografo. Più i due che hanno preceduto formalmente il mio ingresso in società, fanno trentaquattro che faccio Fotografia.
E non sono ancora in grado di tirare una somma che è una.
Qualcosa però ho imparato… la più importante: fotografare senza guardare.
La vista è un esercizio molto più complesso che implica un’abitudine all’invisibile.
A ciò che non si palesa con la fanfara.
Io credo nell’utopia. E in ciò che non si vede.
I newsmagazine e l’attualità… bah.
Ora pro nobis
Noi siamo ciò che saremo, sai che ci frega dell’attualità!
Di ciò che si vede, della realtà sottolineata e zeppa di strass non me ne frega niente.

Non so chi avrò davanti al Nikon Live… spero molti ragazzi.
Nei quali mi rifletterò: trent’anni fa ero così.
E in fondo non sono cambiato: faccio sempre la stessa Fotografia.
Modulata, ma è quella.
Dimenticavo! Giusto come unica nota biografica che mi riguarda davvero… ho avuto dieci maestri, e siccome nessuno di questi è più tra noi, non faccio torto a nessuno: Luigi Raimondi – mio padre, Richard Avedon, Caravaggio, Charles Bukowski, Louis-Ferdinand Céline, Francis Bacon, Michail Bulgakov, Bohumil Hrabal, Enzo Jannacci, Felipe – il mio gatto bianco.
Poi ho girovagato. E ogni tanto qualcuno ho incontrato.
Non so quanto possa far piacere, ma la Fotografia è rivoluzionaria.
In quanto discute e scompone l’ordine costituito.
È violenta. In quanto restituisce arbitrariamente.
Qualsiasi forma assuma, non è un vezzeggiativo.
Stop.
Quasi stop…

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Questo il promo

Nikon Live - Efrem Raimondi

Ancona, 21 novembre – h.16,00.
Ingresso libero previa registrazione.

Condividi/Share

Lectio Magistralis. Aperitivo

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Oggi sono allo IED di Torino. Per una lectio magistralis.
Che ha l’abitudine di presentarsi in maiuscolo.
Il più delle volte a ragione, nel mio caso no.
Non è una posa, so ciò che dico: ai posteri l’ardua sentenza… solo che a me dei posteri non me ne frega niente.
Perché se mi fregasse davvero qualcosa non farei il fotografo.
Farei cose, oggi, ben più utili. E non me ne starei a rimirare il mondo e la sua fauna umana proiettata all’inferno.
Con l’aggravante della pretesa interpretativa, invece cerco di rappresentarlo questo mondo… che è poi quello che ai posteri verrà consegnato.
Per questo ci malediranno. Perché invece di stare con l’iPhone in mano e scaricare tonnellate di spazzatura iconografica, potremmo fermarci.
Mica tanto… giusto il tempo per capire dove virare.
Tecnicamente non è facile, ma almeno un impegno emotivo e uno sforzo intellettuale, li vogliamo fare?
Io non voglio scendere da questo mondo, e anzi mi fa incazzare l’ineluttabilità della morte. Forse è questo che si fotografa: la resistenza alla perversione della logica, all’ineluttabile inaccetabile.
Alla supremazia della clava. In qualsiasi forma si rappresenti.
E tanto più metti a fuoco il senso del tuo resistere, tanto più trovi il linguaggio per esprimere la tua ribellione.
C’è chi ci sguazza… se mi fregasse davvero dei posteri mirerei il mondo non dal mirino di una fotocamera.
Sono giusto trent’anni che sono fotografo. Più i due che hanno preceduto formalmente il mio ingresso in società, fanno trentadue anni che faccio fotografia.
E non sono ancora in grado di tirare una somma che è una.
Qualcosa però ho imparato… la più importante: fotografare senza guardare.
La vista è un esercizio molto più complesso che implica un’abitudine all’invisibile. A ciò che non si palesa con la fanfara.
Io credo nell’utopia. E in ciò che non si vede.
I newsmagazine fateveli voi. Che tutto guardate e sapete.
Noi siamo ciò che saremo, sai che ci frega dell’attualità!
Di ciò che si vede, della realtà sottolineata e zeppa di strass non me ne frega un cazzo.

È curioso… ‘sta storia di Internet è potente: questo post mi precede a Torino.
Ringrazio Paolo Ranzani, collega e in più docente allo IED. È a lui che devo il fatto di essere, a breve, lì.
Con di fronte dei ragazzi. Nei quali mi rifletterò: trent’anni fa ero anch’io così.
Dimenticavo… ho avuto sette maestri, nessuno di questi è più tra noi, così non faccio torto a nessuno: Luigi Raimondi – mio padre, Richard Avedon, Caravaggio, Charles Bukowski, Louis-Ferdinand Céline, Michail Bulgakov.
E Felipe, il mio gatto bianco.
Poi ho girovagato. E ogni tanto qualcosa ho trovato.
La fotografia è rivoluzionaria. In quanto discute e scompone l’ordine costituito.
È violenta. In quanto restituisce arbitrariamente.
Qualsiasi forma assuma, non è un vezzeggiativo.
A tra poco.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

z_insta

 

 

Giovanna Calvenzi – Intervista

La prima volta che ho incontrato Giovanna Calvenzi era il 1981.
Lei si occupava dell’iconografia de Il Fotografo, il magazine di Mondadori dedicato alla fotografia, e io fresco di militare, ancora universitario, mi guardavo attorno cercando di capire come fare il fotografo. Non c’era ancora la figura del photo editor.
Ero un outsider e non avevo fatto nessun percorso tipico: no scuola, no corsi, no workshop, no assistente. E qualcosa di tutto questo mi è mancato.
Se non altro perché avrei risparmiato del tempo.
No niente, avevo solo delle fotografie da mostrare.
Resto ancora un outsider con delle fotografie da mostrare.
È stata, Giovanna Calvenzi, in assoluto la prima persona che si è occupata del mio lavoro.
Non a chiacchiere… pubblicandolo.
La sua disponibilità di allora è invariata adesso. E questo è un elemento molto importante per chi fa il suo stesso lavoro.
Ha una grandissima dote: guarda.
Era da tempo che pensavo di intervistarla per il mio blog, perché non è semplicemente interessante il suo patrimonio professionale e, se mi è consentito, personale… ma è anche utile. A tutti.
A tutti quelli che a diverso titolo con la fotografia si relazionano.
Figura di spicco del panorama fotografico internazionale… farle un’intervista obliqua, di quelle che attraversano le sue diverse competenze, non solo è complesso, ma si rischia di produrre un saggio – intervista.
Il che sarebbe auspicabile, solo che questo è un blog. Con uno spazio in proporzione.
Ho quindi pensato di concentrarmi sui giornali, sui periodici, sul mestiere di photo editor. Che è roba attuale vista la situazione editoriale.
Più in là, chissà…
Intanto, domenica 5 gennaio sono andato a trovarla.
Verso la fine ci ha raggiunto la regista Marina Spada.

A margine:
il ritratto sopra è del 1997, quando Giovanna Calvenzi collaborava con il magazine Lo Specchio diretto da Paolo Pietroni. E io pure.

Questa l’intervista, in forma integrale:  Calvenzi-Raimondi.Interview

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.