Mani!

Con mio padre, 1962.

Le mani non sono un’appendice.
Neanche i piedi. Ma perlopiù abbigliati o segati via, contribuiscono meno.
Puntualizzazione dovuta, e anticipata, a precisetti e feticisti.
Tutto ciò che è visibile in un’immagine concorre a determinarne la caratura espressiva.
Anche l’invisibile suggerito… quello la cui assenza è sottolineata: non si vede ma è determinante. A volte è la struttura iconografica.
Le mani non sono un mero terminale geografico, un organo prensile utile alle faccende quotidiane.
E l’articolazione poliedrica di cui dispongono ha valore espressivo. Noi italiani, popolo di gesticolatori, dovremmo esserne consci.
Invece no… pratichiamo il gesto solo in automatico.
Immaginarlo, riprodurlo, vivificarlo, è altra faccenda.
Questo mica solo noi. Però visto che la meniamo all’universo mondo sulla quantità di bene artistico che possediamo, com’è che balbettiamo? Tutta ‘sta memoria che ci appartiene, com’è che la usiamo a singhiozzo? Com’è che la rinneghiamo, ogni volta che volendo essere à la page indossiamo una qualsiasi divisa union jack, anche se straccia, anche se veramente straccia: non se ne può più di sentire che fai una fotografia molto british!
Ma dove? Dove?!
Ma sapete di che cazzo state parlando?
Io sì. È di fotografia che si misura con le persone, di ritratto più pertinentemente.
Dove non c’è obbligo per le mani, ma se ci sono non basta facciano capolino.
Non basta la presenza.
Che generalmente si nota quando assumono quell’espressione imbarazzata, tipica di chi è lì per caso, di chi estraneo al contesto e dissimula, male, una qualche pertinenza.
C’è sempre un che di forzato. Una distonia.
Ueh, sciuretta English speaking griffata made in Italy, te ne sei accorta anche te? Brava.
Il fatto non sussiste, e spesso si è assolti, quando le mani sono dichiarate soggetto. Quando non hanno neanche bisogno di rubare la scena e ne sono al centro.
Come fai a distrarti? Ce le hai messe tu! E il motivo lo conosci benissimo, quello di prima, quello di sempre: le mani raccontano.
Il problema si pone quando non lo fanno in prima persona, quando sono porzione del racconto. Quando apparentemente defilate pesano quanto uno sguardo.
No panic! We are English (famiglia inglese sull’ascensore, in blocco, della torre Eiffel, qualche anno fa).
No panic! Le puoi sbattere in faccia all’obiettivo, le puoi nascondere, puoi farle dialogare tra loro, tenerne una sola, tagliarle.
Qualsiasi cosa insomma, ma occupatene. Quelle mani apparterranno pur al resto della figura… perché improvvisamente separarle? Perché ridurle a basamento del cranio, appoggiarle come un soprammobile dove capita… improvvisamente avulse.
Stanno nella scena anche quando non si vedono! E la sottolineano.
Anche se mute. Perché il punto è questo: le temiamo. Non fosse altro perché ci si incappa spesso, e ogni volta è un dramma. Se non durante, dopo, a giochi fatti. E allora in post cancelli, sposti, aggiungi un dito (anche due, meglio abbondare).
Mentre il problema è prima: guardare cosa sono le mani che hai davanti, che relazione ha con loro il soggetto.
Hanno delle specifiche? Sono gommose, nodose, energiche, mosce?
Impugnano, accarezzano, spolverano? Nude? Inanellate… borchiate come il guanto di un templare?
Qualsiasi cosa, qualsiasi pur di non essere delle comparse imbarazzate. E se fanno qualcosa, che la facciano! Non che la emulino.
Le mani in fotografia… come quando la stringi a qualcuno e la tua avverte che l’altra è morta. Il terminale di un’ameba.
E la tua scappa.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.James Conlon, 2000, GQ mag.

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Joe Strummer, 1999. GQ mag.

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Zhang Jie, 2008. Adriano Salani Editore.

Pierfrancesco Favino, 2003. Vanity Fair mag.

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Dario Argento, 2003.

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Elisabetta Canalis, 2002. Class mag.

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Carlo Pesenti, 2003. Capital mag.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Silvana Annicchiarico, 2012. Ladies mag.

© Efrem Raimondi. All rights reserved. Nek, 2010. Gioia mag.

Cesare Geronzi, 1997. Capital mag.

Little Steven, 2000. GQ mag.

Joaquìn Cortés, 2004. Class mag.

Fernanda Pivano, 2005.

Alessandro Del Piero, 1994. Class mag.

Gigi Buffon, 2007. Men’s Health mag.

Vasco Rossi, 2000. EMI Music.

Maria Cabrera, 1988. Dolce&Gabbana.

Maria Cristina Didero, 2012. Ladies mag.

Contadina, 1984

Valentino Rossi, 2001. GQ mag.

Valeria Magli, 1991. Interni mag.

Cat Power, 2012. Rolling Stone mag.

Giovanni Lindo Ferretti, 2009. Arnoldo Mondadori Editore.

Paola e Chiara, 1999. GQ mag.

Pia Tuccitto, 2007.

Valeria Bonalume, 2012. Playboy mag.

Robin Rizzini, 2012. Interni mag.

Viviana Tomaselli, 2013. Grazia mag.

Alessandra Ferri, 1996. Lo Specchio mag.

Giulio Andreotti, 2006. Grazia mag.

Chiara, 2006. Arte mag.

Fiorello, 2000. GQ mag.

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Vasco 100

La faccio breve… il 22 maggio scorso ero a ritrarre Vasco Rossi, a Cento… Pieve di Cento. In quell’albergo stile cattedrale nel deserto in cui prova i concerti, con la band tutta riunita.
E i fans fuori sempre presenti. Alcuni li conosco da tempo e queste sono le occasioni per fare il punto sulla propria vita, de visu, non mediati da alcun social. Tutto strano perché cadenzato da tempi vaschiani, quindi comunque altrui.

Pensare fotograficamente a Vasco mi rimbalza a TABULARASA, ed è pensiero impegnativo (http://blog.efremraimondi.it/?p=2460).
Perché una misura. Finita. Imprescindibile per me.
Mi si creda, non è facile.
E poi non lo sentivo da un anno Vasco… chissà come realmente sta?
Be’… è come risorto! Mi fa davvero piacere e le foto non c’entrano.
Fondo bianco da due e settanta, luce una e secca, secchissima… la voglio proprio quell’ombra nera… alle spalle.
Avevo una mezza idea su cosa fare.
L’altra mezza viene facendo, a me funziona spesso così.
In questo caso le frange della sua giacca. E un po’ tutto che incombe.
Come il futuro, che non si conosce.

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Assistente, Lucia Iannuccilli.
Make up, Marco Orea Malià.

Fotocamera, Nikon D800 con Nikkor 24-70.
Flash Profoto.

Controluce.

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Come stai?
Domanda inopportuna. Spesso.
Benissimo! Non ci penso.
Io non penso.
Fotografo e basta.
Quando me lo chiedono e quando mi capita.
Non ho ossessioni. Non più.
Mi confronto con chi mi è simile. Con chi riconosco.
Il resto mi è estraneo. E non lo inseguo.

Mi sveglio alle sei del mattino di un weekend qualunque.
In una camera d’albergo qualunque.
Non apro gli occhi… a che mi serve? Ci vedo benissimo!
Orizzontale… condizione ideale per le immagini, che scorrono fluide.
Si mischiano e si sbranano.
Libere.
Libere di non corrispondere.
Libere.
Libere di essere avulse.
Libere da ogni confronto.
Libere e potenti.
Che tu, rivista chic e paracula, non puoi permetterti.
Poi sbraita ciò che ti pare… je m’en fous e kiss kiss.

Ho dormito tre ore. So che sono le sei, sento il controluce.
Non ho bisogno di vedere né lui né l’orologio.
Il controluce si sente, non si vede. È così che lo si fotografa.
Il controluce avvolge, amalgama, attenua gli spigoli.
Ridisegna i contorni, azzera certezze, riporta alla bidimensione originaria.
Più di ogni altra condizione regola la misura della tua percezione: prima lo senti, poi semmai, a occhi socchiusi, lo vedi.
Quanto a mostrarlo, spalanca gli occhi e lasciati andare.

Ma fa caldo. Il condizionatore è off. Non so perché.
Devo bere, per cui apro gli occhi.
La prima immagine è di Laura per terra, attaccata alla finestra con mezzo letto a riporto.
Prendo quello che al momento ho… l’iPhone, e scatto.
Amo questo controluce. Amo Laura.
Sorrido… sono un fotografo inattuale.
Posso tornare a letto tranquillo.
Bye bye rivistina trendy.

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Fotocamera iPhone 4S, luce ambiente.

RESISTENZA! Post lampo.

Non c’è più niente da porgere.
Le guance sono finite.
Almeno per chi ne possiede due.
E cosa può fare un fotografo?
Magari fermarsi.
Dare un’occhiata a ciò che ha prodotto negli ultimi due, tre anni.
E per chi. Che persone sono e che competenze hanno.
Quale patente esibiscono… se propria o ereditata.
Se afflitte dalla patologia del momento, il restyling… in rapido contagio.
Con esiti imbarazzanti in molti casi.
Confusione sovrana. Pochi che sanno cosa fare.
Ci torno, ci torno sull’argomento.
Perché esporsi è inevitabile.
Per tutto il resto e per tutti quelli a due guance e una faccia: resistere!
Esattamente come da snap. I vegetali la sanno lunga.

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Una storia d’amore. Prima eccezione.

 

Per una volta non parlo di fotografia. Ma è come se lo facessi.
Perché la questione non cambia. E il fotografo blindato in sé mi è sempre parso una figura idiota.
Poi comunque c’è, più o meno all’inizio di Una storia d’amore, una pagina dedicata a un bianco e nero di famiglia. Una riflessione.
Questo libro, illustrato, è dell’ottobre 2012.
Non del 1928. O del ’58, del ’68, del ’77, del ’99 o di qualsiasi altra data si ritenga sufficientemente lontana dalla débâcle editoriale attuale.
A testimonianza del fatto che non è vero che non si produce più niente di bello.
Basta saperlo fare.
Questo libro è meraviglioso: testo forte e delicato, ironico… esilarante a tratti.
Denso e leggero. La storia di una coppia, Rose e Hyacinthe, sposati da quarantacinque anni e insieme da sempre.
Discordanti su tutto. Solo una roba, pare, li lega: l’amore per i fiori.
Questo libro è da divorare con gli occhi: 40 tavole belle grandi, pagina piena 30 x 37 cm. Allucinate, oniriche, sapienti e stravolte… un’esplosione di gusto.
Elegante. Quindi semplice.
Godimento puro.
Quando vedo un libro così penso che chi non lo fa, è perché non lo sa fare.
Target, mercato, contingenza economica ecc. sono alibi, paravento della propria mediocrità.
Stop.

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Una storia d’amore. Due vite legate dai fiori
François Morel – Martin Jarrie.
Traduzione di Laura De Tomasi.
Ottobre 2012, Adriano Salani Editore.
76 pagine, 40 tavole, rilegato, 30,2 x 37,7 cm.
€ 25,00

LA PETITE MORT, by Dana de Luca.

Conosco Dana de Luca da un paio d’anni.
Il suo lavoro mi ha interessato da subito… perché fa una fotografia densa, intelligente (mica segaiola), che va dritta al motivo originario. Quello che ha a che fare con la necessità di fotografare. Anche fosse momentanea.
Quasi punk in certi percorsi. E come ciò che è punk, sa essere anche delicata.
Questo suo libro, La petite mort, mi dà la soddisfazione di scriverne qui.
Uso la formula dell’intervista, che è più diretta. E poi così parla lei, non io che non sono un critico. Solo un suo estimatore.
Prima un piccolo estratto, direttamente dalla mia copia. Che ho comperato.
Perché è buona norma farlo soprattutto con gli amici e con chi si stima,  mica tirare sempre alla copia omaggio.
Stop.

© Dana de Luca. All rights reserved.

E.R. Parlaci del lavoro Dana, quando e perché ha inizio, se ha un perché…
Dana de Luca. Il lavoro nasce perché sono curiosa.
Nel 2007, cercando spunti in rete per un nuovo lavoro, scopro di youporn e della nuova pornografia amatoriale e la sua estetica.
Clicco ed inizio a guardarmi quei brevi video con commenti inclusi, buffi e paradossali perché erano sia di tipo tecnico formale (sul taglio dell’inquadratura, sul ritmo) sia sul contenuto.
Youporn era nato da poco (nel 2006, credo), lo streaming si interrompeva di continuo, lasciando emergere espressioni interessanti, intense anche drammatiche. Iniziai a fotografare quei video sul mio monitor, perché era come se questo congelamento di un flusso di immagini  mi restituisse un’essenza erotica e anche poetica che il linguaggio pornografico per antonomasia non mira a mostrare. O forse ciò era dovuto al fatto che si trattava di filmati amatoriali, gente comune che provava a farsi il suo filmino porno, in solitario o in coppia, ma senza una professionalità tecnica ed interpretativa, e ciò che trasmetteva (o forse io vi leggevo), al di là del loro piccolo esibizionismo, era una solitudine carnale, impalpabile, corpi nudi sì, ma assenti, smaterializzati dai pixel e dal monitor.

Vuoi dire che queste sono fotografie prodotte direttamente dal monitor, cioè senza fotocamera?
No. Io i video me li son visti sul monitor del mio computer attraverso il mirino della fotocamera e scattando. Ho compiuto un gesto artistico vicino all’Appropriation Art, credo, anche se allora non era stato intenzionale: mi sono appropriata di materiale già esistente, i video, trasformandolo secondo la mia visione e tecnica; in una certa forma ho alchimizzato quel materiale precedente.

Le tue immagini sono soprattutto dettagli: porzioni di un insieme che hai sottratto. Perché così addosso? Dentro direi… ha a che fare col titolo del libro? E cos’è la petite mort?
Sai, le immagini sono tratte da video che hanno una durata media di tre minuti. Non c’è tempo per profondità di campo, narrazioni spaziali. C’è tempo solo per il corpo, per la carne che freme … e sì che sta per giungere ad una “piccola morte”.
Susan Sontag  dice “What pornography is really about, ultimately, isn’t sex but death”.

Non è sesso ma morte… Intendi dire che La petite mort, questo tuo lavoro che a mio avviso ha un grande respiro, non è estendibile ad altra dimensione se non quella pornografica?
Non conosco il contesto in cui la Sontag esprime questo suo concetto. Ti confesso che ho preso la citazione perché contiene tre termini connessi con il mio lavoro: pornografia, sesso, morte. La dimensione pornografica è la fonte da cui nasce “la petite mort”, ma il gesto interpretativo riscrive le immagini in un altro orizzonte, in cui la coppia Eros -Thanatos non viene sacrificata, mentre la pornografia, come linguaggio in sé totalizzante uccide sempre uno dei due.
Sulla scelta del titolo, “la petite mort”, è comunque stata successiva al lavoro. Inizialmente lo avevo chiamato “net porn”, poi leggendo su Georges Bataille, vengo a conoscenza di questa metafora francese e l’ho adottata perché indica sì l’orgasmo ma anche lo stato nel quale ci si sente quando se ne fa esperienza, come un oblio di sé. Roland Barthes, invece, parla de “la petite mort” come di quel sentimento che si dovrebbe sentire quando si legge una grande opera di letteratura…
E inoltre ci trovavo una relazione anche con il mio gesto artistico di “appropriazione”, se vuoi, perché quei frames di un flusso in divenire (il video) che diventavano, morendo, le mie fotografie, erano delle piccole morti.

Lo ritieni concluso?
Penso che il progetto sia terminato, ma non ne ho la certezza piena, perché non ha una storia narrativa lineare, con un suo punto d’arrivo, finale, pittosto è vicino ad una poesia in versi liberi. Potrei aggiungerne altri, ma dovrei tornare a vedermi un po’ di filmati porno… o forse combinarlo con altre soluzioni… mah, vedremo…

Hai usato il crowdfunding come sistema di pubblicazione, sempre più diffuso: ci dici perché e come funziona?
L’anno scorso sono stata selezionata fra i portfolio de “Le Journal de la photographie” e poco tempo dopo sono stata contattata da Silvana Davanzo, dell’agenzia Kisskissbankbank, che mi chiese se poteva interessarmi il crowdfunding per la realizzazione di futuri progetti (libro o esposizione) con il lavoro. E perché non provare, mi son detta …  Il crowdfunding è una raccolta collettiva di fondi per finanziarsi un progetto; le agenzie sono intermediari che si pigliano la loro commissione, quindi si può anche imparare a farne a meno, poiché il lavoro lo devi fare TU: tu che stabilisci quanto budget ti serve per concretizzare la tua idea, tu che crei la tua campagna promozionale, e sei sempre tu che stabilisci un rapporto di do ut des con i tuoi finanziatori, contribuenti. E poi sei tu che devi parlarne con parenti, conoscenti, amici, reali e virtuali,  far circolare la voce,  usare il passaparola e ogni piattaforma possibile per diffondere la tua campagna e raccogliere nell’arco di un tempo fissato (di solito 30 o 60 giorni) la somma che hai stabilito. E’ stata una bella esperienza con me stessa e con gli altri, perché l’autopromozione è uno dei compiti che più mi costa ma ho dovuto imparare, e inoltre è stato gratificante riscontrare la fiducia di persone che per la maggior parte conoscono me ed il mio lavoro virtualmente, attraverso facebook, che ho usato per condividere la campagna e raccogliere i soldi. Ed è andata a buon fine, il budget è stato raggiunto e il libro è stato stampato in edizione limitata di 100 copie.

In pratica l’agenzia è solo un garante dei fondi raccolti, mi sembra di capire… o fa dell’altro? La somma viene prestabilita sulla base di cosa? Quali sono le voci che concorrono? Anche la tiratura è stata una tua decisione?
Esatto, garantisce i fondi raccolti e ti sollecita a portare a termine la campagna perché se non raggiungi la somma prestabilita, l’agenzia devolve le varie quote raccolte… oltre a ciò, qualche suggerimento di marketing e un po’ di visibilità sulla sua homepage… e basta.
La somma la stabilisci tu sulla base dei costi di produzione che hai previsto, e quindi nel mio caso, le voci di spesa principale erano lo stampatore, le spese di spedizione in Italia e all’estero e quelle per le stampe fine art da donare a chi contribuiva con una certa quota.
Il libro è stato stampato in digitale che ha costi contenuti rispetto alla stampa off-set e ti permette di stampare in tiratura limitata. La scelta di ridurla a sole 100 copie è stata mia e del mio portafoglio.

Hai ancora delle copie a disposizione o la tiratura è mirata sul numero di prenotazioni?
Sì ci sono ancora copie a disposizione, ma non c’è ancora stata una presentazione pubblica del libro, e la stiamo organizzando per il 12 giugno alla galleria Nobili di Milano, Via Marsala 4.
Chi fosse interessato ad averne una copia può scrivermi alla mia mail: dhanazdeluca@gmail.com, garantisco una risposta tempestiva con tutte le informazioni richieste.

Ultima cosa: i libri sono roba a parte… non sono una gallery di immagini, non sono un catalogo. La grafica ha il suo peso. Così come i testi. Il rapporto con entrambe le cose in questa tua opera, ce lo spieghi?
Mi piace la filosofia che il designer giapponese Kohei Sigura applica ad un libro: l’uno nel molteplice, il molteplice nell’uno (one in many, many in one). Non bastano le immagini a fare un libro fotografico, ci sono una molteplicità di altri elementi costituitivi, fisici ed anche astratti, formali: un libro ha una suo corpo grafico, un  ritmo, un colore, una carta, una tiratura, una sua letteratura, etc.
Nel mio libro non c’è un’autobiografia né una sinopsi. Ci sono due testi, uno di prosa poetica, di Ianus Pravo, e uno critico, di Giorgio Bonomi. I testi li ho voluti come epilogo affinché il lettore entri nella dimensione visuale senza ancoraggi intellettuali; soltanto alla fine, ricollocando il libro nella sua verticalità, si leggono le parole, prima poetiche poi critiche.

Ultima ultima… cos’è per te la fotografia?
Non il fine della mia vita, ma uno strumento, un linguaggio per raccontare e raccontarmi; prima è avvenuto attraverso il teatro ora con la fotografia, poi… chi lo sa.
Magari il silenzio …

 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

LA PETITE MORT. Pubblicato in edizione di 100 copie, aprile 2013.
78 pagine, brossura con alette, 15 x 21 cm.

don’t cheese, please.

© Efrem Raimondi. All Rights Reserved.

Mi chiedevo cosa c’entrasse il formaggio… niente.
Ma il postulato recita che pronunciare cheese induca un sorriso naturale, di quelli fotogenici.

Da qualche parte ho letto che in Spagna si dice patata.
Di getto mi piace di più.
Solo che, malgrado abbia lavorato per lungo tempo a Barcelona, io proprio non ricordo.
Fotograficamente non ho mai capito perché siano così indispensabili gli stereotipi.
E inoltre, come proprio il concetto di fotogenia sia un equivoco.
Che poi, di che tipo di fotogenia stiamo parlando?
Immaginiamoci una foto di gruppo, bello numeroso, almeno dodici commensali… tutti cheese?
E se uno, per disavventura è bleso (ha la zeppola), funzionerà uguale?

Quando ho iniziato a ritrarre, o comunque a occuparmi di bipedi, spessissimo mi capitava che mi venisse stampato in camera lo stesso sorriso. Piuttosto conforme e idiota.
Una sorta di passepartout mediatico, pensavano evidentemente.
Perché cheese è ottimista. Questo gli uffici stampa.
Fa niente se di personale ci fosse zero. Fa niente se l’espressione risultasse in mezzo a un guado alla ricerca di una sponda alla quale aggrapparsi. Nel dubbio meglio annegare nel mare mediatico.

Per questo, quando ho iniziato, sulla Nikon che usavo, accanto all’obiettivo cioè quella roba dove generalmente lo sguardo propende, ho attaccato una bella etichetta autoprodotta. Almeno le mie intenzioni erano chiare. E visibili.
Ora tutto si è spostato in rete… tutti ‘sti Buongiorno amici miei, è una meravigliosa giornata e io sto da Dio: sorrido al mondo che mi sorride… sorridete anche voi… è tutto una gran figata.
Ecco, non reggo. Mica perché sia vietato sorridere, anzi, è auspicabile.
Ma è come essere investito da decine di forme di formaggio. Stagionato. Intollerabile. Parlo per me.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

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Madre di un fotografo

2013 © Efrem Raimondi. All rights reserved.      Mia madre, 2013

Quando sono nato, io non c’ero.
L’esserci coincide con la coscienza. Privato di questa, non esisti.

La mia consapevolezza ha cominciato a prendere forma con l’abitudine al seno di mia madre. Forse è a questo che devo la mia attenzione alle tette.
Ad alcuni funziona così, ad altri no e la saggistica a riguardo si spreca.
Solo non vedo il merito.
Per cui, in primis, mia madre.
Alla quale non devo tutto. Se non la nascita, che mica è poco… ma non è la vita, che è tale fintanto che si è in grado di esercitare quella roba chiamata arbitrio, che di sacro non ha niente.
Ma certo… a mia madre devo un altro milione di cose!
Per esempio, è la prima persona che ho ritratto.
Era il 1979 o giù di lì, e io cominciavo a smanettare con la mia Pentax K1000.
Sulle orme di mio padre, che fotograficamente non scherzava un cazzo – di lui ho pubblicato in diverse occasioni.

Ho capito in fretta che le orme semmai dopo, in quel momento ero una brutta copia. Dovevo andare per fatti miei. Cosa che ho fatto.
Andare per fatti propri è salutare in fotografia.
Dove, in che direzione, non sempre è dato di capire al momento. E il gerundio è il tempo fotografico ideale per tutti… fotografando si producono fotografie.
Mica scontato, però almeno ci si prova.

1979 © Efrem Raimondi. All rights reserved.           Mia madre, 1979

Mia madre in cucina e io con un grandangolo, un 28 credo.
Una fotografia ingenua forse, ma quello sguardo… quella posa…
Mia madre mi ama… e io? La amo altrettanto?
Me lo sto chiedendo qui, in questo ospedale. Mentre è stesa in attesa di un controllo. Brutta storia… sotto controllo ma brutta storia invecchiare. Io no, io ho ancora tre anni.
Io fotografo, io non ci penso.
E a me cosa resta? Mentre la guardo la fotografo.
Con l’unico mezzo che ho con me, l’iPhone.

Detesto raccontare il dolore. Quello degli altri soprattutto, nel quale non riconosco alcuna poesia, nessuna trascendenza.
Non censuro nessuna intenzione ma se proprio, racconto il mio. Come pare a me.
Libero da moralismi visto che riguarda me solo: nessuna morale!
E chissà da dove, mi viene in mente quello che mia madre mi diceva trent’anni fa, quando semi-pischello ho iniziato, Le copertine sono importanti. Quando le farai allora sì che sei arrivato.
Lo diceva con grande naturalezza, amore e ingenuità materna.
Oltre al fatto che non ne sapeva nulla di questo ambiente.
Mentre io lo respiro mamma… e sai una cosa? Ne ho fatte tante di copertine. Ma non si arriva mai. E non ci sono traguardi.

A margine: è di gran lunga più difficile ritrarre parenti e amici che gli sconosciuti, soprattutto se star. Ma da qualcuno bisogna iniziare.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Fotocamere: iPhone 4S e Pentax K1000
Film: Kodak Tri-X

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INSTAGRAM

INSTA 10, marzo 2013 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Guardo il Web ma qui viro in una sola direzione.
I social network sono l’ambito di amplificazione di atteggiamenti individuali deteriorati che trovano finalmente traguardo sociale. E l’applauso.
Ci sono persino le claque. E neanche portate da casa… si autogenerano.
Questo riguarda tutti i social network che conosco e frequento: Facebook da un paio d’anni, Twitter dopo che Red Ronnie m’ha fatto una testa tanta in occasione della mia co-partecipazione a una puntata del suo meraviglioso Roxie Bar TV, per cui primo tweet il 13 febbraio complice Rossella Rasulo che mi ha istruito.
E adesso Instagram. Complice nessuno salvo un paio di dritte di Settimio Benedusi.
Non ho idea se ce la faccio. Sono molto franco, io non uso giri… mi sembra tutto un circo. Per fortuna gli animali siamo noi.
Almeno questo lo risparmiamo alle altre specie.
Finché si trattava del solo Facebook potevo reggere, anche perché io sono un punk di prima generazione… mi affeziono alle cose che capisco. Le altre le rifiuto. Di Twitter capisco poco, mi sembra un soliloquio. Più utile forse. Ma mi è emotivamente distante. Almeno per ora.
Instagram è invece faccenda molto seria. Non entro nel merito della menata dei diritti ecc. ecc… chi se ne frega, al momento.
Prima ero estraneo e non ci pensavo. Adesso ci penso eccome!
Perché sono un fotografo inattuale. Uno che dell’attualità non sa che farsene… non mi dice niente che io non veda. Mentre a me, in fotografia, interessa ciò che non si vede. E che per prendere forma e voce ha bisogno di me. Nel pieno delle mie facoltà.
Tante o poche che siano, purché mi riconosca.
Si dice che Instagram sia la Polaroid attuale. Non è vero.
In che cosa differisce da qualsiasi altra fotografia realizzata col cellulare? Nella sostanza in niente. Quindi anche qualsiasi altro sistema, organizzato o meno in forma social, potrebbe rivendicare l’attributo.
Instagram ha a che fare con la Polaroid solo perché è istantanea.
E usa una gabbia quadrata. Ma c’è chi si sta già lamentando.
Mentre però le pola si confrontavano con un istante dilatato e molto personale, le instagram click trovano ragione di vita nell’omologazione di un format immediatamente mediatico che ha raggiunto 100 milioni di utenze. Utenze…
In questo forse è davvero l’instant per eccellenza.
Su La Stampa.it del 28 febbraio leggo: Unisce la macchina fotografica e la camera oscura, illude ogni utente di essere il nuovo Henry Cartier-Bresson…
A parte l’illusione bressoniana e il rapporto con l’istante, che ci sarebbe da dire tanto ma non adesso, il tema della cosiddetta camera oscura è rilevante.
La serie di filtri che accompagnano l’applicazione sono ”la camera oscura”. A furia di parlare come conviene al marketing finisce che ci si crede. In realtà ‘sti filtri sono semplicemente degli applicativi di effetti. Che hanno lo scopo di rendere accattivante lo scatto originale. E qui siamo al punto.
Accattivante, cioè mediaticamente commestibile… che ammicca al gusto degli adepti. Questo ci permette di accumulare seguaci. Proprio così, seguaci.
Se questo è lo scopo nulla da dire. Se il riconoscimento mediatico è il fine, nulla da dire.
E ognuno faccia come preferisce o fervidamente crede.
In questi pochissimi giorni di praticantato mi son fatto un po’ di giri trasversali, quasi a caso, in varie bacheche… o gallery, o album, chiamatele come volete e salvo alcune immagini mi sembrava di essere finito in un fumetto, comics insomma. Sembrava di essere tornati indietro di un quinquennio, anche di più, tra saturazioni, desaturazioni, contrastoni, effettoni modello Photoshop Elements.
Roba un po’ vecchia a dire il vero… passata.
Poi ogni tanto appariva qualcosa che mi riconciliava.
Che mi ha fatto venire la voglia di esserci.
E che ha davvero a che fare con l’unica idea che ho di fotografia, che è indipendente dal mezzo che uso.
Quindi la sfida, poco remunerativa mediaticamente, mi affascina.
Non sono declinabile per Instagram.
Piaccia o meno, io Normal. Al massimo Inkwell.

Instagram Camera Oscura.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Ci sei o ci fai

Mio padre e io, 1962 © Efrem Raimondi. All rights reserved.

Io faccio il fotografo. Se lo sono o meno non mi riguarda.
Sembra esserci una distinzione sottilissima, o addirittura zero… invece il solco è profondo.
E ampio, perché distingue un atteggiamento.
C’è chi fotografo si sente. E lo dichiara. Ma non lo è.
Produrre dei file non significa niente… non qualifica nessuno.
Non fa mestiere. Perché fare il fotografo ha anche a che fare col mestiere.
E non solo col gesto.
Ed anzi il gesto è tanto più incisivo quando non si limita all’episodio.
Il gesto in sé può anche essere grande ma se non ha supporto, non ha continuità espressiva, è isolato. E tale resta.
E questo vale anche se ci si appiccica l’etichetta Artista… che poi mica ho mai capito la differenza. Spesso anzi mi induce un sospetto.
California Dreamin’ è canzone immortale: sono cinquant’anni che scorrazza sulle frequenze radio di tutto il mondo.
Ma qualcuno ricorda cos’altro hanno inciso i Mamas and Papas?
Gli è andata di culo. Tutto qui. Forse in molti farebbero cambio… di gran culo, quindi.
Oliviero Toscani, mi sembra, poneva una domanda: ma fai o sei fotografo?
Sottintendendo che esserlo vale molto più che farlo. Sottintendendo che esserlo è in qualche modo attributo nobile, a differenza dei manovali della fotografia, quelli cioè che dichiarano semplicemente di farlo. E che in tal modo non fanno coincidere la propria intimità col proprio lavoro (quasi una parolaccia), che resta separato.
Mi pare recitasse più o meno così il salmo.
Io non riconosco il bivio. Non mi frega niente della distinzione.
E il livello di nobiltà lo misuro non attraverso un titolo o una dichiarazione d’intenti ma per ciò che vedo. Sia della persona che del prodotto.
In quest’epoca zeppa d’immagini simili a pallottole a salve, cos’è che davvero va a segno?Cos’è che si può fare? In che modo un’immagine, basta vederla, si dichiara tua?
L’altra sera, presentando (ancora, sorry…) TABULARASA, il libro su Vasco Rossi, Toni Thorimbert rispondeva a una domanda (cazzo mi ha anticipato! ma io coincido) dicendo ”Io faccio sempre la stessa foto”.
Questa è la differenza. Questo è ciò che pensa e produce chi fa il fotografo. E che non si preoccupa di trend e di posizionamento, e comunque mai a scapito della fotografia che gli appartiene.
Che è una perché ha a che fare con una matrice facilmente individuabile: te stesso. E qui sì che le cose coincidono.
Perciò se fotografi, fotografa! Non interroghiamoci continuamente sul senso di ciò che facciamo, fotogramma per fotogramma: il linguaggio si misura su una frequenza più lunga e ampia della singola immagine.
Se fai lo scrittore, scrivi! Non puoi su ogni riga impiantarti alla ricerca di qualcosa che non trovi. O che ti pare migliorabile. Alla fine si vedrà. E si vede sempre.
Facendo il fotografo e non preoccupandomi dei quarti di nobiltà, non trovo di per sé distintiva neanche la rivista per la quale lavoro, o il cliente in genere: quello che mi frega davvero è che le immagini vengano rispettate. Che non subiscano traumi tali da renderle innocue… scariche… a salve insomma.
Come avere sempre un bel muro bianco davanti, al quale attaccare il proprio racconto.

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