Milan Design Week

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Oh!! Non ha piovuto.
A memoria d’uomo, o almeno da quando il Salone Internazionale del Mobile si svolge a aprile, è la prima volta che c’è un sole così.
Ecco… a me personalmente non sarebbe cambiato niente: fisso in Statale, alias Università degli Studi di Milano. Per me un ritorno. E un conto ancora aperto che non si salderà mai.
Così ha voluto chi sovrintende… perché l’anno scorso non si sapeva bene cosa stessi facendo. E iPhone alla mano ho scorrazzato per il Fuorisalone, sostenuto da Michelangelo Giombini che segue i Progetti Speciali di INTERNI mag, e che ci ha creduto subito.
Poi visti i dati e l’utilità, questo percorso social in qualche modo è stato istituzionalizzato.
E mi sono trovato con il badge STAFF al collo.
E i badge hanno un peso specifico, che sul collo si sente.
Non sempre è un vantaggio.
Ho fatto in modo che pesasse il giusto, così la verità è che mi sono affezionato e mentre sto scrivendo lo indosso… questione di continuità.

Questo è un lavoro fotografico trasversale, un reportage vero, di quelli che di solito alcuni snobbano. E mi spiace per loro.
Ogni tanto invece, io ne avrei bisogno.
Perché è come resettare il cranio e azzerare certe abitudini: qui non si può nulla!
Non cambi la luce che c’è… non cambi l’ordine del programma… non interagisci mai direttamente con le persone, né con gli oggetti. L’unica cosa è aggrapparti al tuo sguardo, alla capacità di lettura che hai, chessò, di una conferenza, di uno spettacolo, di una installazione, di una poltrona incollata a una pedana.
Io ho fatto così: mi sono ricavato una nicchia e ho usato la visione periferica. Quella che si occupa del margine, con solo un’allerta sulla scena principale. Che se fosse stato il caso, c’ero.
Ma la mia attenzione vitale era dove la luce non c’era, cioè dove gli sguardi non focalizzano: stemperare la scena madre… due passi indietro ed è fatta. E la visione è altra.
È stato anche il festival del selfie… non avevo bisogno di dire niente, mi allontanavo, alzavo la macchina e scattavo nel mucchio, come con Fabio Novembre: era molto più interessante uscire dalla scena e godersi la via crucis. Con un Alessandro Mendini che guardava e sorrideva paterno.
Sono stato un fotografo silenzioso…
Anche quando si è trattato di Marina Abramovic… non le ho mai chiesto nulla, l’ho preceduta, ben piazzato davanti e a ritroso scattavo. Fino al palco. Ma siccome m’interessava e non mi bastava, l’ho letteralmente spiata. E quando l’ho vista allontanarsi prima che tutto iniziasse, sono andato a vedere: era tranquillamente sola in un corridoio.
È qui che serve il badge, non per fare il figo al bar di fronte.
Prima ho scattato e poi, ma dopo, le ho chiesto solo la cortesia di girare il viso.
Full flash diretto… paparazzata. Stop.
I Phone e Nikon.
Non ho mai ritratto la Abramovic. E questa non era la condizione.
Stessa cosa con Gillo Dorfles. Anzi a lui non ho chiesto proprio niente. L’ho solo puntato e ho aspettato… sapevo che avrei trovato quello che in quella circostanza aspettavo.
E volevo.
Niente ”venga di qui e si sposti di là”.  Tra l’altro era il suo 104° compleanno… grande cranio, grande presenza. Grandissimo senso della scena. L’ho ringraziato e salutato.
In entrambi i casi, questo non è fare ritratto. Malgrado siano due ritratti, Abramovic e Dorfles. Ambientati?
Questo è reportage dentro il caos mediatico.
Per ritrarre bisogna essere gli unici sulla scena armati di fotocamera e possibilità di eloquio… non in mezzo a centomila smartphone e compagnia assortita.  Questo almeno per me. Che ho bisogno del mio silenzio; che non metto mai musica sul set… successo un paio di volte… mica ho a che fare con le modelle. E ho bisogno di un’attenzione privilegiata. Inequivocabile.
Non è una considerazione di merito, è una constatazione: le immagini hanno habitat propri difficilmente intercambiabili.
E non si può far finta che tutto sia spalmabile ovunque. Non è così.
Ho anche inquadrato spesso i colleghi coi quali condividevo la scena.
Perché della scena noi eravamo parte.
Senza di noi non c’è scena.
Oggi, senza di noi non c’è nulla.
Anche se siamo ricattabili e deboli come non mai.
Mica si può credere all’accumulo di smartphonate e casualità iconografica assortita!
Chi lo professa fa della demagogia pro domo sua. O ignora e parla a vanvera.
Ciò che qui pubblico è un lavoro… una selezione delle 517 immagini che compongono Interni Photo Diaries 2014, per il fronte social di INTERNI, incluso il sito e in questo specifico usate da Danilo Signorello nei suoi articoli.
E che poi, ulteriore selezione, verranno pubblicate sul numero di giugno, cartaceo questa volta.
Tranne un’immagine che ho realizzato in concomitanza di un evento di Grazia Casa, per il quale mi sono spostato, tutte le altre sono realizzate tra le mura della Statale.
Salvo  tre immagini che ho ripreso per questo post, le altre sono esattamente quelle postate in corso d’opera: nessuna postproduzione. Di inedite ne ho aggiunte solo un paio circa.
Ogni tanto mi concedevo una pausa. Per fatti miei con un caffè e una meravigliosa Lucky, quelle di cui un giorno ci si potrebbe pentire.
E lì dov’ero, ritraevo ciò che mi faceva compagnia.
In religioso silenzio.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

GILLO DORFLES. IL GIORNO DEL SUO 104° COMPLEANNOmdw_3mdw_3bmdw_4mdw_4bmdw_5mdw_6MARINA ABRAMOVICmdw_8mdw_9mdw_10mdw_11mdw_12mdw_13mdw_14mdw_15mdw_16mdw_17mdw_18mdw_19mdw_20MENDINI-NOVEMBREmdw_22mdw_23mdw_24mdw_24bmdw_25mdw_26mdw_27MASSIMILIANO FUKSASmdw_29mdw_30mdw_31mdw_32mdw_33mdw_34mdw_35mdw_36mdw_37mdw_38mdw_38bmdw_39mdw_40mdw_41mdw_42mdw_43mdw_44mdw_45mdw_46mdw_48mdw_49mdw_47

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In queste immagini, tra gli altri:
Gillo Dorfles, Gilda Bojardi, Marina Abramovic, Michele Molè, Paola Navone, Ernesto Mauri, Philippe Daverio, Piero Lissoni, Patricia Urquiola, Andrea Branzi, Michele De Lucchi, Philippe Nigro, Fabio Novembre, Alessandro Mendini, Moritz Waldemeyer, Massimiliano Fuksas, Lia Bosch, Lavazza, Domus Academy, Cosentino Group, Audi, AgustaWestland, Expo Milano 2015, Designing China Exhibition, Università degli Studi Milano. Il cavo della corrente.

Pausa


La situazione è questa: dal 6 aprile mi alzo alle 6,30 am e mediamente vado a letto alle 2,30, sempre am…
In mezzo ho pochissime pause.
Questa la mia Milan Design Week: praticamente un non stop.
Fino al 15, cioè domani incluso.
Mica mi lamento, è solo che non riesco a occuparmi del blog, e questo mi dispiace.
Quando si tratta di fotografia io non bluffo mai.
Per cui un articolo – si dice post, ma a me fa schifo – a vanvera, tanto per riempire un tempo e un vuoto, non lo pubblico.
Appena riemergo farò il resoconto su questa settimana piuttosto densa. Che è l’articolo giusto da fare adesso. Quasi adesso…
Sto scrivendo direttamente dall’Università degli Studi di Milano, nel press office di Interni, che è il magazine organizzatore di tutto ciò che qua accade.
Questa è una pausa, oggi è domenica, e questa la fotografia che ho scelto, scattata alle 21,55 dell’11 aprile durante la pièce Gran serata Futurista, di Massimiliano Finazzer Flory. Aula Magna di questo splendido posto.
A presto.

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INTERNI – L’evoluzione dell’abitudine

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INTERNI
compie 60 anni.
È una delle cinque, sei riviste che l’Italia realmente esporta.
C’è una buona parte di addetti alla fotografia, a vario titolo, che pare non accorgersene: sono clamorosamente distratti dal tulle.
Après.

Il tema di questo redazionale è L’evoluzione dell’abitudine.
Quando mi è stato chiesto di interpretarlo sono rimasto lì, più o meno irrigidito sul posto a guardare delle mie immagini notturne, casualmente sul monitor. Alla rinfusa. Quasi alla rinfusa…
Ero al telefono, piena mattina ma precipitato nella notte del monitor.
La notte costringe a una scala percettiva diversa.
È un luogo. Non un tempo.
Nel tempo lento, proprio dell’evoluzione, noi realizziamo distintamente solo le fratture epocali. Che è ciò che ci tocca adesso.
Il buio di questa notte senza confine è l’habitat.
E l’abitudine è un ricordo. Quindi procediamo.
Il buio non spaventa i fotografi. A parte quel poco di luce alla quale ti puoi aggrappare, e che tu vedi distintamente, puoi sempre aggiungerne.
Quindi: la notte il luogo e il flash la luce. Che meglio del flash nessuna luce può squarciare.
Poi mentre chiacchieravo al telefono con Nadia Lionello, stylist di Interni, mi viene in mente la leggenda metropolitana della autostoppista fantasma… N. 1 in America, mica cotiche.
E distintamente ho un’immagine. Un po’ surreale… onirica la definisce meglio.
Che sono queste qui.

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Era una notte buia e tempestosa quella del 3 marzo. Un lunedì.
La strada che avevo in testa si trovava verso il confine svizzero.
In completa balìa di una cascata d’acqua dal pomeriggio: improponibile… non si poteva bagnare niente. E nessuno.
Alla mia amica scrittrice Rossella Rasulo avevo chiesto di interpretare la parte dell’autostoppista. Che era perfetta. Anche per il pallore derivato da una settimana di bronchite – i fotografi sono bastardi.
Ai pezzi, che poi erano prototipi, non ho chiesto niente, solo di esserci.
Quel lavoro si doveva fare quella sera. Non c’era alternativa… era la deadline redazionale. Non ci avevo neanche pensato a un’alternativa… viaggiare senza paracadute è una condizione che mi trascino da bambino. Mi fa sentire meglio.
O tutto o niente. O dentro o fuori.
Dicono che non sia un atteggiamento professionale…
Evidentemente non lo è.
Quindi ci siamo trovati a casa mia: Rossella, suo marito Mario – che è stato prezioso – la mia assistente Giulia Diegoli.
Erano più o meno le 20,30… Laura, mia moglie, ha fatto la cosa migliore, cioè stappare una bottiglia di bollicine. Così per cominciare.
Giulia e io siamo andati a fare un sopralluogo limitrofo… non c’era alternativa esotica possibile. Nessuna frontiera nelle vicinanze. Nessuna luna.
E abbiamo trovato un sottopasso in una zona periferica, tra l’industriale da un lato e la campagna dall’altro. Sopra le nostre teste, l’autostrada.
Il posto si prestava. Ho solo dovuto convincere Giulia che non saremmo morti investiti.
Del resto passava una macchina ogni mezz’ora. E a una velocità gestibile. Insomma era potabile.
Rientrati a casa sotto il diluvio, ci siamo uniti al vino, diventato rosso, e a cibarie di primo sostentamento. Strip, gatto onnivoro, era felice degli allunghi che gli arrivavano dagli ospiti: tutti gattofili!
Tu pensa il culo…
Poi basta. Poi diluvio o no bisognava andare. E siamo andati.
Tutti tranne Strip. Che comunque se ne guardava bene.
Una strana comitiva si aggira per le strade di Lombardia e stazione sotto un ponte autostradale.
Vero, non si usa così. Sembrava un fuori programma.
Io mi sono divertito.

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Il set, senza pioggia…

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Pezzi.
pg 102, Gina – sedia, design Jacopo Foggini per EDRA,
Tavolino – design Nendo per CAPPELLINI
pg 103, Zippo – divanetto ideato e prodotto da PEDRALI
pg 104, Wave – panca, design Nendo per DESALTO,
Anin – sgabello, design David Lopez per LIVING.
pg 105, Dotto – poltrona, design Ron Gilad per MOLTENI.

INTERNI mag N. 640 – Aprile 2014 – cioè adesso

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Rossella Rasulo, nel ruolo di autostoppista fantasma…
Stylist, Nadia Lionello,
Assistente fotografia, Giulia Diegoli

Fotocamera: Nikon D800 con Nikkor 24-70/2,8
Flash PROFOTO PRO-B3

Fuorisalone – FEEDING NEW IDEAS FOR THE CITY

Efrem Raimondi. All rights reserved.

 

Fuorisalone adesso tra una settimana. Ma io non capisco…
Ma tra i fotografi che conosco e che hanno abitudine al Web, cioè lo usano dialetticamente, è possibile che siamo in quattro gatti a occuparci di design?
Magari io un po’ saltuariamente rispetto all’abitudine degli altri tre, ma comunque tutti con l’intento di mettere al centro il linguaggio, quello fotografico, che ritengo coincidere, per essere tale, con una visione più ampia che riguarda l’idea di mondo. Per quello che è e per quello che si auspica. Anche utopico magari.
Non è solo una dichiarazione estetica, nella fotografia che mi corrisponde e che amo vedere, c’è una forte determinazione ideologica.
Che è roba ben oltre la quisquilia politica.
E che è insofferente a ogni forma di omologazione.
Insomma amo le prese di posizione. E la contraddizione.
A volte, questa fotografia ha modo di manifestarsi con precisione, senza doversi occupare necessariamente di buoni sentimenti e sfiga assortita.
E anche quando se ne occupa, non è allusiva di niente: è nuda.
Amo il design anche per questo, perché spesso è nudo… molto ben esposto. E se si deve in qualche modo difendere, coprire dagli spifferi delle tendenze, indossa un cappotto nero, lungo, chessò… un Ferré d’altri tempi, non un accappatoio da sfilata buono per il motel.
Non esiste una fotografia di design, non una di moda, non una di ritratto e nemmeno una di paesaggio: esiste una fotografia e basta.
Che è quella alla quale guardare.
Ma è possibile che dopo i grandi, tipo Aldo Ballo, Gabriele Basilico, Luigi Ghirri, la Cuchi White, solo per citarne alcuni che purtroppo non frequentano più – chiedo venia per quelli che manco ma vado di fretta – e che da soli erano in grado di generare attenzione, di far convergere giovani fotografi, ricerca critica, magazine e industria ogni volta che col design si cimentavano, possibile che si sia creato un vuoto? Possibile che ai giovani fotografi o aspiranti tali il design dica zero?
Io mi giro, ma non vedo un granché. A parte qualche eccezione mi tocca sempre guardare avanti.
È proprio così, e sono alla vigilia di questo Salone Internazionale del Mobile. Che anche quest’anno affronto con l’iPhone.
Diversamente dall’anno scorso non sarà mosso. Se non forse in qualche circostanza dettata dal caso.
Anche perché sarò stanziale, tra mura confortanti, quelle dell’Università degli Studi… la Statale di Milano.
A seguire conferenze, eventi, happening e altro che il programma offre. Sarà un reportage insomma. Forse più un backstage.
Forse non so.
Per capire bisogna cimentarsi, non sempre tutto è scritto.
E questo non è un copione.
Per INTERNI magazine, per Mondadori, con la convergenza di Expo 2015.
Tutto rigorosamente Web: Facebook, Twitter (pillole) Sito.
Come l’anno scorso, un social tris in tour de force…
Con sintesi cartacea poi, nel numero di giugno.
FEEDING NEW IDEAS FOR THE CITY, questo il tema.
Nutrire… alimentare se vogliamo.
Intanto ho iniziato con una preview, con cartoline dei lavori in corso.
Con un aperitivo. Leggero.

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L’anno scorso
http://blog.efremraimondi.it/milan-design-week-giu-la-cler/

Calendario eventi:
http://www.interni-events.com/

Fotocamera: iPhone 4S

Aggiornamento 5 aprile, sempre e solo PREVIEW:

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Fotocamera: iPhone 4S

Giovanna Calvenzi – Intervista

La prima volta che ho incontrato Giovanna Calvenzi era il 1981.
Lei si occupava dell’iconografia de Il Fotografo, il magazine di Mondadori dedicato alla fotografia, e io fresco di militare, ancora universitario, mi guardavo attorno cercando di capire come fare il fotografo. Non c’era ancora la figura del photo editor.
Ero un outsider e non avevo fatto nessun percorso tipico: no scuola, no corsi, no workshop, no assistente. E qualcosa di tutto questo mi è mancato.
Se non altro perché avrei risparmiato del tempo.
No niente, avevo solo delle fotografie da mostrare.
Resto ancora un outsider con delle fotografie da mostrare.
È stata, Giovanna Calvenzi, in assoluto la prima persona che si è occupata del mio lavoro.
Non a chiacchiere… pubblicandolo.
La sua disponibilità di allora è invariata adesso. E questo è un elemento molto importante per chi fa il suo stesso lavoro.
Ha una grandissima dote: guarda.
Era da tempo che pensavo di intervistarla per il mio blog, perché non è semplicemente interessante il suo patrimonio professionale e, se mi è consentito, personale… ma è anche utile. A tutti.
A tutti quelli che a diverso titolo con la fotografia si relazionano.
Figura di spicco del panorama fotografico internazionale… farle un’intervista obliqua, di quelle che attraversano le sue diverse competenze, non solo è complesso, ma si rischia di produrre un saggio – intervista.
Il che sarebbe auspicabile, solo che questo è un blog. Con uno spazio in proporzione.
Ho quindi pensato di concentrarmi sui giornali, sui periodici, sul mestiere di photo editor. Che è roba attuale vista la situazione editoriale.
Più in là, chissà…
Intanto, domenica 5 gennaio sono andato a trovarla.
Verso la fine ci ha raggiunto la regista Marina Spada.

A margine:
il ritratto sopra è del 1997, quando Giovanna Calvenzi collaborava con il magazine Lo Specchio diretto da Paolo Pietroni. E io pure.

Questa l’intervista, in forma integrale:  Calvenzi-Raimondi.Interview

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L’Uno – Ohè sun chì

L’Uno – Ué son qui

Milano che giro in tram…
Mi metto in fondo, proprio all’altezza della salita posteriore e resto lì a guardare.
In piedi, spalle a tutti, faccia al finestrino centrale e mi riempio gli occhi di dettagli di vita che diversamente non coglierei.
È un po’ come spiare…
Tu guardi ma nessuno ti presta attenzione, nessuno si accorge di te.
Il tram passa e mi protegge.
Sferraglia, accelera e curva, frena e scuote la statica.
Sa che sono lì. Sa tutto e mi culla.
Un solo pensiero, leggero. Che rimane sul tram.
E che ritrovo quando risalgo.
Se non sei mai salito sull’1, non sai nulla di Milano.
Se non hai mai ascoltato Jannacci, non puoi capire Milano.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Ph. Paolo Jannacci

http://www.youtube.com/watch?v=Fd9-VfAecxU

 

 

 

 

L’Uno – Marzo 2013.
iPhonephotography.
Stampa inkjet su carta Fuji Satin 270 g/mq.
40×40 cm, libera e firmata sul retro.

Prima Visione, collettiva – Galleria Bel Vedere, Milano.
Questa la nona edizione.
La prima alla quale partecipo… invitato da Chiara Spat, photo editor della rivista Grazia e membro del GRIN.
COMUNICATO STAMPA.pdf

Aggiornamento 15 gennaio
É qui che mi metto…

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Spazi sincroni – Interni mag. dicembre 2013

Un lavoro semplice. Quasi fosse una serie di post it.
Quasi polaroid quando la si usava per i sopralluoghi.
Quindi formato quadrato, tranne l’apertura che però è l’esatta somma di due quadrati.
Che poi, se non si vuole usare il verticale, e io proprio non volevo, il quadrato è il formato che più riempie la pagina.
Il design è per me un luogo di ossigenazione e di sintesi.
Non che non ci siano frenesie, ma sono talmente lontane dalle abitudini del ritratto da sembrare acqua di rose.
Poi c’è sempre questo splendido legame con l’industria. Qui, la sintesi.
Delle immagini staticissime, cementate direi, e silenti.
Come essere in un plastico… al tempo della Polaroid, oggi in un rendering.
E in effetti quando con Nadia Lionello, stylist di Interni mag, sono andato a fare il sopralluogo, l’impressione era quella di girovagare per un enorme plastico. E noi piccolissimi. Io anche un po’ muto.
Il complesso residenziale City Life firmato da Zaha Hadid consta di circa 400 appartamenti. E rientra nel ”progetto di riqualificazione del quartiere Fiera di Milano”.
Non so bene cosa ci fosse da riqualificare però è quanto ho letto. Credo riguardi il fatto che la vecchia Fiera di Milano ha cessato funzioni e ospitalità, sostituita dalla nuova in quel di Rho-Pero, propaggini di Milano.
Ma tutto questo non c’entra con queste immagini. O forse sì.
Nel dubbio concludo dicendo che la casualità non esiste.
E che la semplicità è come una carezza leggera: non si sente subito.

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Stylist: Nadia Lionello.
Assistente alla fotografia: Giulia Diegoli.

Fotocamera: Nikon D800.
Ottica: Nikkor 24-70, lunghezza focale 35 mm.
Luce ambiente.

iPhone 4S per il sopralluogo che segue + l’immagine di testa, di backstage.

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Cafonal

Io mia moglie non la fotografo mica.
Umberto Pizzi: il più conteso fotografo delle feste nobili e nobilastre di questo Bel Paese. Quelle feste dove la ricchezza si ostenta e ogni poro si dilata per occupare più spazio possibile della sua inquadratura… che se Pizzi non ti mira, non esisti.
Visto dalla luna, sembra un Paese in cui potrebbero comandare i Simpson.
Questo, Roberto D’Agostino: un genio! Temuto e leccaculato, giusto per rimanere nello spirito dei soggetti di Cafonal in primis, che è il più strong, e di ultra Cafonal, il secondo volume della saga del bon ton Roma Antica Ultimo Stadio.
Umberto Pizzi mi piace, perché diretto… un iperrealismo punk che non lascia spazio alle congetture: ciò che si vede è.
Lo stimo, perché l’ho visto all’opera. A Capri due anni fa, per uno shooting, e girovagando per i soliti posti mi sono trovato lì per lì invitato a un matrimonio vippissimo… io che c’entravo niente, io che ero sderenato, io vestito da lavoratore della fotografia, versione estiva.
Ho indossato una camicia bianca – bisogna sempre averne una a portata di mano – e ci sono andato. Festone post incluso.
Così appunto ho visto come lavora: fotocamera in mano e flash centrale sparato addosso. Non ha bisogno di dire niente, è la fauna che si esibisce. Che lo insegue. Che sgomita e piroetta… un circo a sua disposizione. E a disposizione di Dagospia.
Entrambi pescano a piene mani. Ma Umberto Pizzi pesca di più.
Perché ha il potere tra le mani in quel preciso momento. E sa come usarlo. Senza sconti.
La sua presenza è catalizzante. Tanto che se per un po’ non lo vedi, c’è chi si preoccupa.
Io no. Io lo tenevo d’occhio. E quando l’ho visto in disparte, con la fotocamera abbassata, apparentemente inerme e rigorosamente da solo, mi sono avvicinato e l’ho fotografato, previo consenso, con la compatta. Che avevo assolutamente portato… si sa mai che esplode qualche tetta o casca qualche zigomo… e in tal caso, giuro, avrei scattato. Perché bisogna scattare per credere a ciò che si vede.
Che secondo me neanche Pizzi crede a ciò che vede, per questo usa la fotografia.

Questa fotografia oltraggiosa. Questa fotografia imitata da ragazzetti e ex, impasticcati di British style e Berlin power.
Vorrei ricordare che l’archivio di questo signore consta di 1.300.000 immagini… tutelato dal Ministero dei Beni Culturali – che non ho capito bene cosa materialmente significhi.
Poi abbiamo chiacchierato.
Non con tutti ma con alcuni fotografi mi intendo al volo.
In buona parte dipende dalla fotografia che fanno.
E Cafonal è in bella mostra nella mia libreria… ça va sans dire.
Poi Pizzi esibiva nella circostanza un’espressione che riconoscevo.
Questo me lo rendeva famigliare.
Le immagini di questi due volumi coprono il decennio 2000-2010.
Le avrei riprodotte tutte! Non è possibile. Poi meglio avere i volumi in mano. Soprattutto il primo, Cafonal. Che è davvero un concentrato potente.

Mai fatto cronaca nera. Perché?
Perché i vivi mi interessano più dei morti.
Non la annoiano mai?
Solo quando incrocio i morti di fama.
L’ultima cantante, l’ultimo televisivo… So che spariranno tra un istante, allora chiudo la mia nuova digitale, sbadiglio, e vado a bermi un caffè.
Pino Corrias per Vanity Fair.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Cafonal
Roberto D’Agostino – Umberto Pizzi
Dicembre 2008, Arnoldo Mondadori Editore.
442 pagine, rilegato con sovraccoperta, 22,5 x 26,5 cm.
€ 30,00

Ultracafonal
Novembre 2010, Arnoldo Mondadori Editore.
576 pagine, rilegato con sovraccoperta, 22,5 x 26,5 cm.
€ 40,00

 

 

 

 

il Potere davanti

Il potere logora chi non ce l’ha. Celeberrimo Andreotti.
La miseria invece logora solo chi la vive.
Giulia Ligresti e Anna Maria Cancellieri, una vicenda di questi giorni, nella quale non entro. Non per ritrosia. Solo che questo non è luogo.
Però riguardare il ritratto che ho fatto a Giulia Ligresti mi dà lo spunto per una riflessione, stavolta scritta, sul rapporto tra fotografia e Potere. E il cartello opposto, fotografia e Miseria.
Altre due citazioni, sorry…
Di Helmut Newton: Per me il massimo è stata Margaret Thatcher: che cosa c’è di più sexy del potere? e ancora Mi piace fotografare le persone che amo, la gente che ammiro, il famoso e specialmente il famigerato.
Non sono semplici provocazioni, queste di Newton, e che per lui fossero sacrosante non c’è motivo di dubitarne.
Se le indosso, me le adatto così: il potere, fotografarlo, è affascinante. Anche sexy, dipende. A patto di essere onesti e restituire una immagine che ti appartenga. Nella quale riconoscerti.
Il che preclude, nel mio modestissimo caso, l’ammiccamento.
Perciò sei esposto, molto più esposto che in qualsiasi altro ambito ci si cimenti fotocamera in mano. Guerre a parte. Forse.
Il potere di cui parlo è maiuscolo, cioè politico, economico, finanziario.
Quello da cui tutto dipende, anche i direttori dei giornali. Anche direttori e sovrintendenti delle varie istituzioni culturali. Oggi più che mai.
E quando si piazza davanti all’obiettivo di un fotografo, lo fa sempre con grande cognizione di causa.
Anche quando decide di evitare. Mi è successo… mi è successo di essere stato cortesemente rifiutato da un potente molto potente. Esplicitamente rifiutato: mi ha fatto molto piacere. Perché onesto nei miei confronti. Oltre che nei propri. Così non si generano equivoci.
Fotografare il potere non è agevole. E non ti dà alcuna gloria.
Anzi a volte finisci all’indice perché ti viene imputata una qualche complicità. A differenza della fotografia della miseria – altrui  miseria – con l’impianto umanitario e sociale… che ha vinto tutti i più grandi worldpress. Piena di boria bianconera new style, con un che di retrò che commuove e affascina.
Ah sì? A me la fotografia affascinante fa schifo!
Moralista e demagogica, formato cartolina nei dispenser dei bookshop trova la sua destinazione finale.
Miseria che fa cassa.
Miseria comoda.
Miseria photoshoppata.
Miseria passepartout infilata in qualche fashion magazine in cerca di consenso intellettuale.
Miseria sterile e miserabili disarmati…
La fotografia ha un’etica. E se ne frega della morale.
E fotografare non significa emettere giudizi universali.
Io fotograferei chiunque, anche il Diavolo se ne avessi l’occasione.
Che così, epidermicamente, mi invoglia più di tanti santi, miti e boriosi.
Che poi, non è che sto parlando di immaginette da mettere nel portafoglio o buone per la campagna elettorale: alcune di queste immagini hanno visto la luce solo grazie al sostegno del magazine che le aveva esplicitamente commissionate.
È di Capital edito RCS che sto parlando, direzione Mario Fortini.
L’intenzione era vedere la forma antropologica del potere.
Non bastava la sagoma, volevo il dettaglio… volevo capire se la specie di appartenenza era la stessa: com’è fatto il potere?
E se davvero lo si vuole fotografare, va guardato bene in faccia.
Dritto negli occhi.
E magari da molto vicino.
Senza timore reverenziale. Ma senza preconcetti.
I preconcetti, o anche più comprensibilmente le divergenze ideologiche o etiche, emergono in chi poi le fotografie le guarda.
E il giudizio a riguardo è immediatamente condizionato a seconda della sponda di appartenenza.
Credo che il fotografo possa andare oltre questa immediatezza.
Non ci deve restituire uno stereotipo… non una classifica di buoni e cattivi.
Non una didascalia.
Non una caricatura.
Non un’omelia.
Ci dia ciò che vede. È questo che si pretende da un fotografo.
Tutto qui. A patto di avere un magazine complice.
Quindi non subalterno. Io non ne trovo più.
Paolo Sorrentino ha fatto un ritratto forte, diretto e onesto di un uomo di potere. E Il divo è lì da vedere. E rivedere.
Un manuale da prendere alla lettera per chi fotograficamente col potere si relaziona.
A meno di essere delle veline.

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© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Indice:
Giulia Ligresti, 2007 – First magazine
Massimo D’Alema, 1996 – Capital magazine
Gianfranco Fini, 1996 – Capital magazine
Guidalberto Guidi, 1997 – Capital magazine
Biagio Agnes, 1996 – Capital magazine
Pier Silvio Berlusconi, 2006 – Men’s Health magazine
Giulio Andreotti, 2006 – Grazia magazine
Giulio Andreotti, 2006 – Grazia magazine
Mario Draghi, 1996 – Capital magazine
Cesare Geronzi, 1997 – Capital magazine
Franco Bernabé, 1997 – Capital magazine
Lamberto Dini, 1996 – Capital magazine
Enrico Micheli, 1996 – Capital magazine
Umberto Bossi, 1996 – Capital magazine
Walter Veltroni, 1996 – Capital magazine

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Vasco 100

La faccio breve… il 22 maggio scorso ero a ritrarre Vasco Rossi, a Cento… Pieve di Cento. In quell’albergo stile cattedrale nel deserto in cui prova i concerti, con la band tutta riunita.
E i fans fuori sempre presenti. Alcuni li conosco da tempo e queste sono le occasioni per fare il punto sulla propria vita, de visu, non mediati da alcun social. Tutto strano perché cadenzato da tempi vaschiani, quindi comunque altrui.

Pensare fotograficamente a Vasco mi rimbalza a TABULARASA, ed è pensiero impegnativo (http://blog.efremraimondi.it/?p=2460).
Perché una misura. Finita. Imprescindibile per me.
Mi si creda, non è facile.
E poi non lo sentivo da un anno Vasco… chissà come realmente sta?
Be’… è come risorto! Mi fa davvero piacere e le foto non c’entrano.
Fondo bianco da due e settanta, luce una e secca, secchissima… la voglio proprio quell’ombra nera… alle spalle.
Avevo una mezza idea su cosa fare.
L’altra mezza viene facendo, a me funziona spesso così.
In questo caso le frange della sua giacca. E un po’ tutto che incombe.
Come il futuro, che non si conosce.

© Efrem Raimondi. All rights reserved.

Assistente, Lucia Iannuccilli.
Make up, Marco Orea Malià.

Fotocamera, Nikon D800 con Nikkor 24-70.
Flash Profoto.